processo
Salvini, scappato dal processo per sequestro di persona, chiama sequestratori chi salva vite
Salvini che indica la nave Sea Watch con i migranti a bordo come “sequestratori” è l’immagine di una discesa comica di un vocabolario che sembra essere preso in prestito dagli inferi. E intanto, come al solito, tutto si svolge sulla pelle di disperati lasciati in mezzo al mare. E sullo sfondo c’è un processo, proprio per “sequestro di persona” a cui il ministro si è sottratto.
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Caso Cucchi: dove tocchi trovi merda. Il pm al processo: “I carabinieri avevano una relazione segreta precendente all’autopsia”
Spunta anche una relazione medica del 30 ottobre 2009, finora tenuta segreta, che sarebbe stata realizzata prima dell’autopsia di Stefano Cucchi, di cui il Comando provinciale dei Carabinieri di Roma sarebbe stato a conoscenza.
E’ la novità emersa oggi in apertura di udienza al processo bis in corte d’Assise per la morte del geometra romano, avvenuta nell’ottobre del 2009 sul filone dei depistaggi. Nel documento secretato, ricostruisce il pm Giovanni Musaro’, veniva evidenziato che la lesivita’ delle ferite non consentiva di accertare le cause del decesso. Mentre nelle relazioni dell’Arma veniva esclusa la possibilita’ di un collegamento tra le fratture rilevate e il decesso del giovane avvenuta nello stesso giorno.
Una prima analisi mai emersa finora i cui risultati erano completamente diversi da quelli scritti nell’autopsia che vennero anticipati nel carteggio interno fra i Carabinieri. Negli accertamenti preliminari infatti, che vennero negati anche all’avvocato della famiglia Cucchi, si parlava di due fratture e non precedenti, oltre a un’insufficienza cardio circolatoria acuta e si diceva che non si poteva stabilire con certezza le cause della morte. “Se il medico nel 2009 non poteva sapere il motivo della morte di Cucchi, allora come è possibile che i carabinieri già lo sapessero?” ha sottolineato Musarò in aula parlando della relazione preliminare all’autopsia di Stefano Cucchi.
“I legali di Cucchi nel 2009 – ha aggiunto – avrebbero fatto richiesta invano di quel documento. Il dottor Tancredi in quella relazione preliminare spiegò che c’erano due fratture e non fratture precedenti alla morte. Inoltre non faceva riferimento ad alcuna responsabilità dei medici e al fatto che Stefano Cucchi era morto per una serie di cause ancora da accertare. Nel verbale dei carabinieri invece – ha concluso – si sosteneva che non c’era un nesso di causalità delle ferite con il decesso”.
“Non so dirvi per quale ragione la predetta relazione preliminare non fu messa a disposizione delle altre parti fin dall’inizio delle operazioni” spiega il dottor Dino Mario Tancredi nel corso della sua audizione come persona informata sui fatti del 6 marzo scorso, come si desume dal verbale. “Per pervenire a delle conclusioni – ha aggiunto – io successivamente fui affiancato da una serie di specialisti. Scrivere la relazione in 5 mesi non fu facile perche’ c’erano tantissimi aspetti da valutare e una enorme mole di documenti.
Le operazioni per la consulenza collegiale iniziarono il 9 novembre 2009″.
Quanto al contenuto della relazione, secondo Tancredi il documento “contiene un parere preliminare che e’ del tutto orientativo perche’ e’ poi necessario compiere gli approfondimenti e le valutazioni del caso. Per questo il pubblico ministero ci concesse 60 giorni”.
(fonte)
Lo spavaldo Matteo Salvini, che ora scappa dal processo
In pratica Salvini è convinto di avere agito secondo l’interesse pubblico ma si è dimenticato di spiegarcelo, metterlo nero su bianco su qualche carta bollata e l’ha compresso in qualche bilioso tweet convinto che ora si possa fare così. Ma c’è di più: Salvini difendendosi dal processo piuttosto che nel processo dimostra che il suo sforzo di sembrare uno di noi è una mirabile farsa. Tra l’altro riporta ai fasti del berlusconismo per cui la maggioranza degli italiani (in quel caso sì la stragrande maggioranza degli italiani) si strappò i capelli, con il fior fiore di costituzionalisti pronti all’autodafé.
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«Trova sexy le divise?»: il medioevo piomba sul processo delle ragazze stuprate a Firenze
Dodici ore e 22 minuti sotto un fuoco di fila di domande. Le studentesse Usa di 20 e 21 anni che a settembre a Firenze hanno denunciato di essere state violentate da due carabinieri in servizio, tre mesi fa sono tornate in Italia per ripetere le loro accuse davanti a un giudice. Nell’aula bunker, separate dai legali, hanno risposto su quella notte, quando dopo una serata in discoteca hanno incontrato due carabinieri in divisa che si sono offerti di accompagnarle a casa. I carabinieri hanno ammesso il rapporto sessuale sostenendo che c’era il consenso delle ragazze. Le analisi hanno confermato che le ragazze erano ubriache. I difensori dei militari avevano annunciato 250 quesiti per ogni ragazza. Il giudice, il solo che poteva parlare con loro e doveva fare da filtro, ne ha ammesse molte meno: ecco la sintesi dell’interrogatorio
(Antonella Mollica)
Il giudice Mario Profeta spiega le «regole» dell’udienza alle due ragazze: «Verrete ascoltate oggi e poi non sarete più disturbate, se si farà il processo quello che verrà detto oggi varrà come prova. La legge non consente che le testimoni vengano offese, non sono consentite domande che attengono alla sfera personale, che offendono e che ledono il rispetto della persona».
Avvocato Cristina Menichetti (difensore del carabiniere Marco Camuffo): «Prima di arrivare al rapporto sessuale non si era scambiata nessuna effusione con Camuffo, effusioni consensuali e reciproche?». Avvocato: «Durante questo rapporto il carabiniere l’ha mai minacciata, ad esempio urlando o con le mani?».
Risposta: «Nessuna minaccia esplicita però mi sentivo minacciata dal fatto che lui porta un’arma».
Avvocato: «Quindi ha usato la forza per sottometterla?».
Giudice: «Cosa intende per forza avvocato?».
Avvocato: «Se ha dovuto forzarla, esercitare una certa pressione, se è un gesto violento con una certa vis impressa nel gesto». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Non ha lottato fisicamente? Volevo sapere se Camuffo ha esercitato violenza…». (A questo punto il legale scende nei particolari della presunta violenza sessuale, ndr).
Giudice: «Che brutta domanda avvocato. Sono domande che si possono e si devono evitare nei limiti del possibile, perché c’è un accanimento che non è terapeutico in questo caso… Non bisogna mai andare oltre certi limiti. È l’inutilità a mettere in difficoltà le persone, non si può ledere il diritto delle persone».
Avvocato: «Lei trova affascinanti, sexy gli uomini che indossano una divisa?». Giudice: «Inammissibile, le abitudini personali, gli orientamenti sessuali non possono essere oggetto di deposizione».
Avvocato: «Lei indossava solo i pantaloni quella sera? Aveva la biancheria intima?». Domanda non ammessa.
Avvocato Giorgio Carta (difensore del carabiniere Pietro Costa): «In casa avevate bevande alcoliche? Lei ha bevuto dopo che i carabinieri sono andati via?». (L’avvocato cita nuovamente in modo esplicito la presunta violenza sessuale, ndr).
Giudice: «Non l’ammetto, non torno indietro di 50 anni».
Avvocato: «Alla sua amica hanno sequestrato tutti i vestiti compresi slip e salvaslip, voglio capire se lei ha nascosto qualche indumento alla polizia». Domanda non ammessa.
Giudice: «Si fanno insinuazioni antipatiche, perché si dovrebbe nascondere alla polizia degli indumenti?».
Avvocato: «Penso che qualcuno abbia finto un reato, io non voglio sapere come lei circola, con o meno gli indumenti, voglio sapere se ha dato tutto alla polizia».
Giudice: «Ricorda il momento in cui le hanno sequestrato gli indumenti?».
Ragazza: «No».
Avvocato: «Io non ci credo che non lo ricorda».
Giudice: «Non possiamo fare la macchina della verità».
Avvocato della ragazza: «Giudice, vorrei sapere a che punto siamo delle 250 domande annunciate dall’avvocato».
Giudice: «Se sono come le ultime sono irrilevanti, andiamo avanti. Se stiamo cercando la spettacolarizzazione avete sbagliato canale».
Avvocato: «La ragazza si è sottoposta a una visita ginecologica sulle malattie virali. Possiamo sapere l’esito di questa visita?».
Giudice: «Sta scherzando avvocato? Questo attiene alla sfera intima non è ammesso questo genere di domande. Ripeto: non torno indietro di 50 anni, non lo consento a nessuno».
Avvocato: «Si può sapere se ha una cura in corso?».
Giudice: «No».
Avvocato: «È la prima volta che è stata violentata in vita sua?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Quando era in discoteca ha dato una o due carezze ad un carabiniere?». Domanda non ammessa.
Più avanti, rispondendo a un altra domanda, la ragazza racconta: «Non mi ricordo tutto, ero ubriaca, però mi ricordo che ci siamo baciati e che lui mi ha tirato giù la maglietta. Mi ricordo che ha cercato di toccarmi nelle parti intime, che ha tirato fuori il pene e io ero assolutamente in choc. Ero così sconcertata, però, ero talmente ubriaca, mi sentivo indifesa non avevo la forza di dire o fare qualcosa. Mi ricordo che gli dissi di no, non volevo avere un rapporto con lui. Dopo non ricordo più niente. So che abbiamo avuto un rapporto».
Giudice: «Allora come fa a dire che ha avuto un rapporto? Glielo chiedo con rispetto ma questo aspetto deve essere chiarito».
Ragazza: «Perché sentivo fastidio alle parti intime».
Avvocato: «Quando è entrata in Europa ha dichiarato che aveva soldi in contanti? Alla dogana ha dichiarato i soldi?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Ha un fidanzato?».
Giudice: «Cosa ci interessa avvocato?».
Avvocato: «Voglio sapere se ha un fidanzato, se è un poliziotto ecc…».
Avvocato: «È stata arrestata dalla polizia negli Stati Uniti? Ha precedenti penali?».
Giudice: «Domanda non ammessa. Non si può screditare un teste sul piano della reputazione, lo si può fare sul contenuto delle dichiarazioni. Se un teste non è una persona sincera lo dobbiamo rilevare dal contenuto delle dichiarazioni».
Avvocato: «A che titolo risiede negli Stati Uniti? (la ragazza è di origine peruviana, ndr). Era preoccupata per il suo titolo di permanenza negli Usa?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Ha mai visitato un negozio di divise a Firenze?».
Giudice: «Ma che ci interessa! Non è rilevante!».
Avvocato: «Ha mai fotografato il volantino di questo negozio?».
Giudice: «Non è rilevante».
Avvocato: «Ha scambiato il numero di telefono con il carabiniere quella sera? Ha promesso a un militare di rivedervi nei giorni successivi? Prima che le venisse sequestrato il telefono ha cancellato una telefonata?».
Avvocato: «Lei ha bevuto durante il tragitto dentro la macchina dei carabinieri?».
Avvocato: «Non le è sembrato strano che i carabinieri accompagnassero a casa le persone?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Il carabiniere si è accorto che lei era ubriaca?».
Giudice: «Non va bene avvocato, stiamo chiedendo a una persona ubriaca, affermazione senza offesa visto che l’ha detto lei, se avesse la capacità di rendersi conto del suo interlocutore».
Avvocato: «Ha mai detto al carabiniere che non avrebbe voluto fare sesso con lui?». Domanda non ammessa e riformulata.
Ragazza: «Dopo che lui ha tirato giù il top volevo che smettesse». Avvocato: «Il carabiniere ha insistito per avere contatti con lei? Ha insistito silenziosamente, con gesti e parole, perché uno insiste a un no…».
Giudice: «Ha manifestato questo non gradimento con comportamenti espliciti?».
Ragazza: «No, non avevo forza nel mio corpo».
Giudice: «E con questa risposta non accetto più domande così invadenti».
Avvocato: «Perché dobbiamo privarci di scoprire la verità, la ragazza muore dalla voglia di dire la verità, sentiamola se è salita a piedi…».
Giudice: «Che ironia fuori luogo, ora sta andando oltre il consentito. C’è una persona che secondo l’accusa ha subito una violazione così sgradevole e lei fa dell’ironia? Io credo che non sia la sede».
Avvocato: «Avevate alcolici a casa? Ha bevuto alcolici dopo che i carabinieri erano andati via?».
Avvocato: «Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina?»
Avvocato: «Cosa diceva esattamente la sua amica quando urlava? Erano urla di parole o semplicemente urla di dolore?».
Giudice: «No, fermiamoci qui, il sadismo non è consentito».
(fonte)
Quando l’italofobia era l’isteria collettiva
Fa bene ricordare, allenare la memoria. Per questo torna utile l’articolo di Giovanna Nuvoletti per La Rivista Intelligente:
Per decenni gli americani bianchi, i discendenti dei coloni, hanno odiato gli italiani in maniera feroce e sistematica. Dalla fine del XIX secolo agli anni ’30 del XX siamo stati probabilmente i più detestati e temuti.
Sbarcati a milioni, alla lettera, ci chiudevamo nelle nostre comunità, spesso ostaggi di connazionali che ci vendevano come schiavi di fatto. Non imparavamo la lingua, non mandavamo i bambini a scuola (ma a lavorare o a mendicare), rifiutavamo le nuove usanze e coltivavamo le nostre incomprensibili tradizioni.
Intorno al 1920 a New York arrivavano così tante navi da intasare il porto. Intercettate al largo, le imbarcazioni provenienti dall’Italia venivano dirottate verso Boston.
Eravamo classificati come “negroidi”: troppo vicini all’Africa, si diceva, per non avere “sangue negro” nelle vene. Prova ne fosse il colorito olivastro che TUTTI avremmo avuto.
Venivamo considerati un pericolo subdolo: a differenza di neri, asiatici e ispanici, gli italiani dalla carnagione più chiara potevano essere scambiati per bianchi, a un esame superficiale, quindi per noi era più facile “contaminare la razza bianca”.
Un italiano che intrattenesse una relazione con una donna bianca rischiava il linciaggio, come i neri.
Il Ku Klux Klan ci equiparava in tutto e per tutto ai neri: da impiccare al minimo pretesto, così prima o poi avremmo capito di restare a casa nostra.
Negli stati del sud ancora oggi perdura la convinzione che siamo non-bianchi, al pari degli ispanici.
[Nel 1973 Nixon, poco prima di essere spazzato via dallo scandalo Watergate, disse che eravamo diversi da loro, ci vestivamo in modo strano, puzzavamo di aglio ed era impossibile trovarne uno onesto.]
Anche gli altri immigrati ci odiavano. Accettavamo salari e condizioni di lavoro che ormai irlandesi, olandesi e francesi rifiutavano. Avevamo sostituito i neri nelle piantagioni, mandavamo all’aria le prime contrattazioni sindacali.
I meridionali soprattutto erano considerati “inadatti a imparare o mantenere qualsiasi lavoro, inclini per natura alla violenza”, incompatibili con lo stile di vita americano. Per un certo periodo siciliano o napoletano è stato sinonimo di “feroce bandito”.
Peccato che, per i loro esperti, il meridione cominciasse a Padova. Sotto Padova, tutti mafiosi; sopra Padova, invece, biologicamente stupidi, mentalmente inferiori al resto d’Europa.
Contro nessun altro si è scatenata una simile campagna di odio. Si arrivò a una vera e propria italofobia. Il principale veicolo di diffusione fu la stampa, sia quella ufficiale che quella clandestina, creata apposta per perseguitarci. Contro nessun altro è stata adoperata una tale mole di articoli denigratori, vignette insultanti, perfino canzoncine.
Ci rubano il lavoro, stuprano le nostre donne, non si vogliono integrare, corrompono il nostro spirito, si diceva. Chiudiamo le frontiere, bombardiamo le navi al largo, lasciamoli marcire nei porti, non facciamogli toccare terra, scrivevano i giornali.
Professano una strana religione, si insisteva, che niente ha a che fare con i nostri valori. Un misto di paganesimo e superstizione, impossibile da sradicare.
Eravamo raffigurati come orrendi sorci che nuotavano verso la riva con il coltello tra i denti. Venivano mostrati gli “argomenti” migliori per trattare con noi: gabbie, randelli, corda e sapone.
Giravano saporite barzellette: sapete quando un italiano vede il sapone per la prima volta? Quando lo impiccano
Ammazzare un italiano era di fatto tollerato. Bastava dire: “Mi ha aggredito lui” e la legittima difesa era scontata. Nemmeno si arrivava al processo. Caso chiuso.
Se vittima e assassino erano entrambi italiani, il disinteresse era quasi totale: finché ci ammazzavamo tra di noi andava bene.
(continua qui)
Francesca rischia il carcere per aver aiutato 7 migranti: “Le frontiere non esistono”
Francesca Pierotti ha 29 anni e si ritrova sotto processo a Nizza per avere “aiutato” alcuni rifugiati a superare il confine francese. Colpevole di solidarietà: «Come fai a guardare senza fare nulla? A chiuderti in casa?»
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Banalizzare, criminalizzare, purché non se ne parli: il metodo No Tav applicato ai No Tap
Accade così: si alza la polvere facendo in modo di convincerci che la polvere sia il lascito dei violenti, si formano le squadriglie di picchiatori politici contro “quelli che dicono no a tutto”, si scialacqua solidarietà un po’ a caso in favore delle forze dell’ordine anche quando non ci sono disordini e si sventola il feticcio del progresso inevitabile (o del thatcheriano “non c’è alternativa”) per chiudere il discorso.
Ma il discorso, quello vero, quello che parte delle analisi e che per svilupparsi dovrebbe comprendere anche la possibilità che i decisori diano risposte convincenti, quel discorso in realtà non avviene mai. Ora ci manca solo che si faccia male qualcuno e poi anche i “No Tap” sono cotti a puntino per diventare la forma contemporanea dei “No Tav” in salsa pugliese. Le mosse piano piano si stanno incastrando tutte e anche l’ultimo tweet del senatore del PD Stefano Esposito (“Ogni giorno che passa i #NOTAP assomigliano drammaticamente ai #notav un grazie alle nostre #FFOO”) certifica che il processo si avvia a dare i suoi frutti.
Negli ultimi due giorni risuona soprattutto la barzelletta degli ulivi: “i no Tap? ambientalisti preoccupati per qualche manciata di alberi che verranno prontamente rimessi al loro posto” dicono più o meno i banalizzatori di partito. E fa niente se le ragioni della preoccupazione siano tutte scritte in un parere del 2014 di ben 37 pagine dell’Arpa protocollato dalla Regione Puglia (lo trovate qui); non importa che l’Espresso abbia raccontato come (ma va?) gli interessi particolari delle mafie abbiano messo qualcosa in più degli occhi sul progetto (è tutto qui) e non importa nemmeno che le motivazioni della protesta non siano contro il progetto in toto ma sulla località di approdo che era la peggiore delle soluzioni possibili: l’importante è che la protesta No Tap possa essere messa velocemente nel cassetto dei signornò e si divida subito tra le solite fazioni.
A questo aggiungeteci l’italica inclinazione alla servitù (come nel caso della viceministra Bellanova, PD, che si diceva contraria da candidata e ora seduta sulla poltrona da viceministro se la prende con Michele Emiliano perché si occupa più della sua regione piuttosto che della fedeltà agli ordini del capo) e vi accorgerete che di tutto si parla tranne che dell’analisi del dissenso.
(continua su Left)
Thyssen: fu una “colpa imponente”
Il 13 maggio scorso la Cassazione aveva confermato le pene chiudendo la storia giudiziaria del caso Thyssen. È stata una “colpa imponente”, scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza, quella commessa dall’ex ad della Thyssen Harald Espenhahn che insieme ad altri cinque manager del gruppo siderurgico ha provocato, per la totale e consapevole mancanza di adeguate misure di sicurezza, il rogo dello stabilimento di Torino nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007 nel morirono sette operai.
“Imputati consapevoli del pericolo”
Ad avviso della Suprema Corte, quella dell’ex amministratore delegato e degli altri dirigenti, è una “colpa imponente” tanto “per la consapevolezza che gli imputati avevano maturato del tragico evento prima che poi ebbe a realizzarsi, sia per la pluralità e per la reiterazione delle condotte antidoverose riferite a ciascuno di essi che, sinergicamente, avevano confluito nel determinare all’interno” dello stabilimento di Torino “una situazione di attuale e latente pericolo per la vita e per la integrità fisica dei lavoratori“. I supremi giudici affermano inoltre che quella commessa è stata una “colpa imponente” anche per “la imponente serie di inosservanze a specifiche disposizioni infortunistiche di carattere primario e secondario, non ultima la disposizione del piano di sicurezza che impegnava gli stessi lavoratori in prima battuta a fronteggiare gli inneschi di incendio, dotati di mezzi di spegnimento a breve gittata, ritenuti inadeguati e a evitare di rivolgersi a presidi esterni di pubblico intervento”.
I giudici avevano confermato le pene inflitte in appello: nove anni e otto mesi per Espenhahn, sei anni e dieci mesi per i dirigenti Marco Pucci e Gerald Priegnitz, sette anni e sei mesi per il direttore dello stabilimento Daniele Moroni, sette anni e due mesi per l’ex direttore dello stabilimento Raffaele Salerno e sei anni e otto mesi per il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri. Le vittime del rogo sono Antonio Schiavone (il primo a morire alle 4 del mattino per le ferite riportate durante l’incidente), Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino (spirati lentamente dal 7 al 30 dicembre del 2007 per le gravissime ustioni riportate).
“L’ad massimo autore delle violazioni”
Con argomenti di “assoluta condivisione”, i giudici dell’appello bis muovendosi nel solco delle indicazioni della Cassazione, hanno individuato nell’ex ad di Thyssen, Harald Espenhahn, “il massimo autore delle violazioni antinfortunistiche che hanno causato gli eventi di incendio e morte” mettendo inoltre in evidenza il fatto che “intorno a lui si muovono gli altri imputati che all’interno della complessa organizzazione aziendale si cooperano, interagiscono con la figura di vertice, aderiscono alle scelte strategiche, le supportano con le loro competenze tecniche e nell’esercizio dei poteri gestionali”. Se l’ex ad è “il massimo responsabile delle scelte strategiche” sulla gestione dello stabilimento di Torino che nel 2007 era in via di dismissione e non venne fatto alcun investimento in sicurezza nonostante i numerosi motivi di allarme, gli altri manager sono anche loro colpevoli di omicidio colposo plurimo quali “informati e adesivi di tali scelte”.
Per gli ermellini “la colpa in capo al direttore dello stabilimento di Torino, Raffaele Salerno, e al responsabile della prevenzione e della protezione del lavoro, Cosimo Cafueri, si era manifestata ai massimo livelli ipotizzabili, avendo gli stessi avutodiretta percezione e consapevolezza sul campo, a fronte delle plurime segnalazioni ricevute dalle squadre antincendio, dalle problematiche connesse alle garanzie assicurative, alla mobilità dei lavoratori, alla condizione di degrado dello stabilimento, dal progressivo peggioramento delle condizioni di sicurezza”. Nonostante ciò erano stati approvati “documenti per la valutazione del rischio dal contenuto ampiamente riduttivo se non dissimulatorio”. Con una “prospettiva autarchica e autogestionale del rischio di incendio, mobilitando le squadre di emergenza soltanto in seconda battuta, investendo di responsabilità i capiturno addetti alla produzione e praticamente limitando a ipotesi eccezionali l’intervento dei Vigili del Fuoco”.
Il tentativo di influenzare i testi
Dopo il rogo, il capo dello stabilimento e il responsabile della sicurezza, Salerno e Cafueri, hanno messo in campo “una condotta processuale caratterizzata da modifica dello stato dei luoghi, zelo ingiustificato, e intento di avvicinare e influenzare il testimoniale” spiegano i giudici riferendosi alle “manovre inquinatorie” commesse da questi due imputati ai quali, anche per questi depistaggi, sono state negate le attenuanti generiche. Una scelta “del tutto condivisibile” considerando che Salerno organizzò una cena con i dipendenti dell’acciaieria alla bocciofila di Settimo Torinese “nella imminenza della audizione dei testimoni”, iniziativa che “se collegata agli improvvidi tentativi del Cafueri di avvicinare e di disciplinare la testimonianza di alcuni di essi, costituiva ulteriore manifestazione di totale indifferenza al conflitto di interessi in essere con la posizione dei dipendenti citati a deporre sui fatti ascritti ai loro dirigenti”.
(fonte)
Cose per cui vale la pena indignarsi: il processo Menarini
(da Il Fatto Quotidiano)
Offshore create con il solo scopo di maggiorare il prezzo delle materie prime per poi giustificare davanti alle autorità sanitarie i costi “gonfiati” e mettere sul mercato medicinali a prezzi più elevati. Era questo il cuore del processo sui vertici dell’azienda farmaceutica Menarini finita nelle bufera giudiziaria nel 2011 per una mega truffa durata vent’anni con 860 milioni di euro di danni provocati al Servizio sanitario nazionale come contestato dagli inquirenti. Oggi il tribunale di Firenze ha condannato a 10 anni e sei mesi Lucia Aleotti, presidente della società, e a 7 anni e sei mesi il fratello Alberto Giovanni, vicepresidente, a conclusione del dibattimento che li vedeva a giudizio per accuse, a vario titolo, di evasione fiscale, riciclaggio e corruzione. Lucia e Alberto Giovanni sono i figli di Alberto Aleotti, patron della azienda farmaceutica Menarini, morto nel 2014. Disposta la confisca agli imputati di oltre un miliardo di euro.
Interdizione per gli imputati e risarcimento per presidenza del Consiglio
I fratelli Aleotti sono stati interdetti per sempre dai pubblici ufficie la sola Lucia Aleotti dall’intrattenere rapporti con la pubblica amministrazione per tre anni. I giudici hanno invece assolto tutti gli altri imputati compresa la madre dei due fratelli, Massimiliana Landini. Gli altri imputati assolti sono Giovanni Cresci, Licia Proietti e Sandro Casini. I due imputati principali sono stati comunque assolti dall’accusa di truffa con la formula della vecchia insufficienza di prove e di conseguenza non è stato disposto nessun risarcimento per le altre parti civili tra cui varie Asl italiane e la Regione la Toscana. Mentre Lucia Aleotti dovrà risarcire la presidenza del Consiglio dei ministri che si era costituita parte civile nei suoi confronti con 100mila euro.
Frode durata 20 anni: danno da 860 milioni
Secondo gli inquirenti dal 1984 al 2010 Alberto Aleotti avrebbe usato società estere fittizie per l’acquisto dei principi attivi, con lo scopo di far aumentare il prezzo finale dei farmaci, grazie ad una serie di false fatturazioni truffando così il Sistema sanitario nazionale, che ha rimborsato medicinali con prezzi gonfiati. Il danno per lo Stato sarebbe stato di 860 milioni di euro. Il pm aveva chiesto nove anni e mezzo per Lucia Aleotti e otto anni per Giovanni Aleotti. “C’erano elementi seri per ritenere che i reati contestati non fossero sostenibili” dichiara Sandro Traversi, difensore di Lucia e Giovanni Aleotti che ha annunciato ricorso in appello.
Il pm: “Una delle frodi più grandi commesse in Italia”
“Questo processo si occupa del grande affare, il grande imbroglio, un misto di corruzione e di truffa, una delle frodi più grandi – aveva detto il pm Ettore Squillace Greco durante la requisitoria – che siano state commesse nel nostro Paese, un imbroglio che per anni ha alterato il mercato dei farmaci”. L’accusa aveva chiesto ai giudici di confiscare un miliardo e 200mila euro risassumento gli elementi emersi nel corso delle indagini dei carabinieri del Nas di Firenze: “Un miliardo e 200 milioni di euro al nero, la contabilità occulta e parallela a
Lugano e poi, quando si è scoperti, il pagamento, per impedire il commissariamento, di quasi 400 milioni di euro”, quelli dell’accordo fra la casa farmaceutica e l’Agenzia delle entrate. “Tutto comincia negli anni Ottanta – aveva ricostruito il pm – quando Aleotti paga Poggiolini (Duilio, ex direttore generale del servizio farmaceutico nazionale del Ministero della Sanità) e gli altri funzionari che determinavano il prezzo dei farmaci, che così non guardavano nemmeno le carte”. Le grandi multinazionali del farmaco, aveva aggiunto il pm, “avevano interesse a fare accordi con Aleotti, perché lui riusciva a ottenere per i farmaci, su questo mercato, prezzi nettamente più alti rispetto a quelli che sarebbero riusciti a spuntare loro”.
La difesa: “Sentenza complessa faremo appello”
“Si tratta di una sentenza complessa, che ha giudicato insussistente il filone relativo alla presunta truffa e all’ipotesi di riciclaggio, ritenendo invece sussistente quello della frode fiscale” spiega all’Adnkronos Salute Mario Casellato, componente del collegio difensivo dell’azienda. “Presenteremo ricorso in appello, siamo certi di avere la documentazione che ci darà ragione e permetterà di escludere la frode fiscale”, aggiunge Casellato. L’ipotesi della truffa ai danni del sistema sanitario nazionale, portata avanti dalla procura di Firenze, “è dunque stata ritenuta insussistente”, insiste il legale. Diverso il filone della frode fiscale, relativa a somme all’estero “fatta oggetto di scudi” e sanatorie dal patron di Menarini, Alberto Sergio Aleotti, scomparso due anni fa. “Tutto, anche il sequestro della somma, è sospeso in attesa dell’appello e della Cassazione”, precisa il legale, ribadendo la certezza che i documenti chiariranno le posizioni dei suoi clienti anche relativamente al filone della frode fiscale.
Le pressioni e le relazioni con la politica
Prima di elencare le richieste di pena, il pm LucaTurco (titolare dell’inchiesta con Squillace Greco ora procuratore capo a Livorno) aveva ricordato anche la “serrata attività di pressione” della famiglia Aleotti “su esponenti politici, negli anni 2008-2009″, per contrastare l’operato di alcune Regioni, che “avevano adottato delibere a favore di farmaci generici”. Il pm ha parlato di “pressioni”, anche attraverso lettere, sull’ex premier Silvio Berlusconi e sull’ex ministro Claudio Scajola, di interventi sull’allora assessore toscano alla salute, e oggi presidente della Regione, Enrico Rossi, e su altri esponenti politici, fra i quali Gianni Letta e vari ex sottosegretari. Su questo tipo di attività, come sul ruolo di ‘mediatrice’ svolto per Aleotti dalla signora Maria Girani Angiolillo (moglie di Poggiolini, ndr), la procura non ha però mosso alcun rilievo penale. Diverso il caso del senatore Cesare Cursi, che era accusato di corruzione: la sua posizione è stata archiviata dopo la decisione del Senato di negare l’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni che lo riguardavano.
Più vicine nel tempo e anche queste, senza alcun rilievo penale, le relazioni della Menarini con l’attuale premier prima da presidente della Provincia e poi da sindaco di Firenze. Con Matteo Renzi a Palazzo Medici l’azienda firmò un protocollo e regalò oltre 600 computer a scuole e associazioni di volontariato. Il gruppo farmaceutico nel luglio 2013 aveva annunciato la ristrutturazione di 10 case popolari come sponsor. E i primi alloggi erano stati consegnati già nel gennaio del 2014. Nell’aprile del 2014 Lucia Aleotti aveva elogiato l’azione di governo di Matteo Renzi: “Le iniziative che sta portando avanti Renzi non le ha fatte nessuno. Il sistema delle sue riforme può piacere o non piacere, però è una scossa importantissima per il paese. Da questo si può partire e ripartire, guardando al futuro. Non si può rimanere in un Paese bloccato”. L’anno scorso Renzi era stato in visita a Berlino nella sede della Berlin Chemie, controllata del gruppo italiano Menarini, subito prima del bilaterale con la cancelliera tedesca Angela Merkel. “Il presidente Renzi è venuto a trovarci in una giornata tra l’altro molto densa di impegni, e questo ci onora doppiamente” aveva detto la Aleotti. Che il 30 novembre scorso insieme ad altri imprenditori era in prima fila alla Leopolda mentre il sottosegretario Luca Lotti di piccole e medie imprese.
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