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Insozzare la Liberazione

Ci sono molti modi di insozzare il 25 aprile, ognuno con il proprio stile ma tutti tesi (come un braccio teso) per svilire e in fondo per provare a non scontentare i fascisti. Siamo ancora al punto in cui almeno si vergognano di leccare spudoratamente i fascisti e quindi provano ad accarezzarli di sponda. Almeno questo.

Giorgia Meloni se la gioca (come era immaginabile) trasfigurando la libertà di andare al ristorante e mette in mezzo partigiani (senza citarli, sia mai) e lavoratori provando a innescare la solita guerra tra disperazioni: “La libertà, mentre la celebriamo, non è più scontata – scrive – a oltre 70 anni dall’inizio della nostra Repubblica democratica, e ad oltre un anno dall’inizio della pandemia, il governo ancora pensa di potersi arrogare il diritto di decidere se e quando gli italiani possano uscire di casa. Appello a tutti coloro che credono nel valore della libertà: aiutateci ad abolire il coprifuoco“. Insomma: il coprifuoco è il nuovo fascismo, dice Giorgia Meloni. Complimenti.

A ruota arriva Salvini, che ormai è una Meloni in versione analcolica. Pubblica un video sui suoi social e urla: “Noi, donne e uomini liberi d’Italia, chiediamo la cancellazione dell’insensato COPRIFUOCO e la riapertura di TUTTE le attività nelle zone (gialle o bianche) in cui il virus sia sotto controllo’. Al momento le adesioni sono 7.750. Nel video pubblicato sul web, Salvini aggiunge: “Se saremo 10mila è un conto, se saremo 100mila o un milione… Oggi è la giornata della Liberazione. Io e la Lega daremo l’anima dentro al governo, perché le le battaglie si combattono stando dentro e non uscendo o scappando, cercando di limitare la prepotenza di chi vede solo rosso, divieti, chiusure e coprifuoco”. Insomma, una Giorgia Meloni al maschile con la differenza che lui sta al governo con quelli che vorrebbe pugnacemente combattere. Un eroe.

Pietro Ichino prova a allargare il campo riuscendoci male: “La Festa della Liberazione non può ridursi a un’acritica celebrazione dell’epopea partigiana: deve essere anche occasione per riflettere sulle responsabilità delle forze antifasciste nell’avvento della dittatura”. Benissimo: poi scriviamo un saggio sulla colpa degli ebrei che la Shoah se la sono andata a cercare.

Il sindaco di Codogno Francesco Passerini dimostra di essere più pandemico della pandemia rifiutando di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini con motivazioni che fanno spavento: “Codogno diede l’onoreficenza a Mussolini nel 1924, fu una iniziativa nazionale dell’Anci del tempo. E’ un atto storico, come quando Napoleone ha dormito a Codogno e poi andò a Lodi a far guerra. Non è che poi è venuto giù il palazzo dove dormì. Abbiamo anche alcune strutture che ricordano il periodo fascista, come Villa Biancardi che è ancora lì. E per fortuna. Non si può pensare di cancellare e demolire tutto perché costruito da una parte della storia ‘particolare’”. Insomma erano particolari, mica fascisti.

Fenomenale anche il sindaco di Salò: “Dopo la caduta del Fascismo – dice all’opposizione che chiedeva simbolicamente di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini – sui banchi dove state ora accomodati, si sono seduti uomini che di antifascismo e lotta partigiana potevano sicuramente fregiarsi di sapere tanto, tanto più di Voi, e di Noi, avendo fatto parte personalmente di quella lotta, avendoci messo la faccia e, avendo spesso, rischiato la vita per gli ideali in cui credevano. Eppure queste persone non si posero, allora, il problema della Cittadinanza onoraria”. Insomma: se non l’hanno fatto gli altri io mi sento assolto.

Sceglie la linea del banalissimo e goffo provocatore anche il professore universitario Riccardo Puglisi, star presso se stesso su Twitter, che ci butta un po’ di liberismo d’accatto: “Mi sembra di capire che parecchi partigiani comunisti volessero passare direttamente dalla liberazione alla dittatura del proletariato”. Che spessore, ma dai.

Infine lui, Renzi: “Oggi è festa di libertà. Memoria di chi ha combattuto per salvarci, impegno per il futuro. Rileggere oggi le lettere dei condannati a morte della resistenza commuove e spalanca l’anima”. Non è festa di libertà ma festa della Liberazione dal nazifascismo, ma figurati se riesce a dirlo. E scrive “resistenza” in minuscolo, genio. Però la festa della libertà, se gli può interessare, si festeggia proprio domani in Sudafrica. Sempre che non abbia impegni dal principe saudita.

Buon lunedì.

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Eccoli i migliori /3

La sottosegretaria alla Cultura che non legge libri, quello all’Interno che rivendica i decreti Sicurezza e quello all’Istruzione che scambia Topolino per Dante. Ecco a voi la pattuglia delle nuove nomine leghiste

Ormai frugare tra l’elenco dei migliori nel governo dei migliori rischia di diventare una rubrica quotidiana ma ci tocca e lo facciamo. Ieri c’è stata una sorta di presentazione alla stampa dei sottosegretari leghisti, capeggiati da un Salvini euforico che nel frattempo continua indisturbato a fare opposizione al governo di cui fa parte, come se nulla fosse, portando avanti la sua prevedibilissima strategia che continuerà irresponsabilmente a usurare il governo per non farsi usurare troppo da Giorgia Meloni. Anche questo purtroppo è uno dei tanti nodi di un governo che tiene dentro quasi tutti e quindi lascia la libertà di non tenere dentro praticamente nessuno a livello di responsabilità.

C’era ovviamente Lucia Borgonzoni, di cui tanto si sta scrivendo e si sta parlando in queste ore, quella che è diventata sottosegretaria alla Cultura e che candidamente ammette di non leggere libri. Meglio: nel luglio 2018 ammise di averne letto uno in tre anni e probabilmente con questa media è risultata la più assidua lettrice di tutto il suo partito e per questo è stata messa lì. Del resto il mondo della cultura, già in sofferenza acuta per la pandemia, ormai è pronto a tutto: per loro la prima ondata non è mai finita.

C’era Stefania Pucciarelli, andata al ministero della Difesa, già presidente della commissione Diritti umani del Senato, già travolta dalle polemiche per un like lasciato a un commento pubblicato sulle sue pagine social e nel quale si inneggiava ai forni crematori per i migranti che richiedevano una casa popolare. Ieri ha detto di non avere fatto altri errori facendo intendere di sentirsi assolta. A posto così. Del resto per loro il razzismo è un problema solo se sbrodola in giro, mica se si porta con fierezza.

Viceministro delle Infrastrutture e trasporti è Alessandro Morelli, quello che si definisce “aperturista” perché vuole riaprire tutto ma non si capisce bene come vorrebbe fermare il contagio, ex direttore de La Padania e de Il Populista: si ritroverà a lavorare a fianco a fianco con Teresa Bellanova (un’altra grande esperta di infrastrutture, immagino) e ha già rilanciato l’idea del ponte sullo stretto di Messina. «Noi abbiamo utilizzato per tanto tempo lo slogan delle ruspe, oggi le ruspe servono per costruire», ha detto ieri. Che ridere, eh?

Nicola Molteni è sottosegretario al ministero dell’Interno. Ieri ha detto: «Rivendico i decreti Sicurezza con orgoglio e dignità perché sono stati strumenti di legalità e di civiltà». Vedrete che (brutte) sorprese in tema di solidarietà.

Sottosegretario all’Istruzione è Rossano Sasso. Sasso nel 2018 partecipò a un flash mob contro i migranti a Castellaneta Marina. Una ragazza era stata violentata e il nuovo sottosegretario aveva già trovato il colpevole, uno straniero definito un «bastardo irregolare sul nostro territorio». Peccato che sia stato assolto con formula piena. Per non farsi mancare niente pochi giorni fa era convinto di citare Dante scrivendo una frase di una versione della Divina Commedia a fumetti apparsa su Topolino. All’istruzione, per capirsi. «Può capitare, è stato uno scivolone, sono sincero non sapevo che si trattasse di Topolino – ha detto ieri – vorrà dire che dovrò approfondire i miei studi classici e se mi sentisse il mio professore del liceo mi tirerebbe le orecchie».

Sottosegretario all’Economia è Claudio Durigon, il padre di Quota 100 nonché il cantore della Flat tax, a proposito di equità fiscale, che quando serve diventa addirittura “progressiva”. «Sappiamo che questo è un governo tecnico e non politico», ha detto ieri. Chissà come se la rideva intanto sotto i baffi.

Buona fortuna e buon venerdì.

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Perquisita la solidarietà

La storia di Lorena e Gian Andrea va raccontata, contiene un monito che interessa tutti. A Trieste hanno un’associazione che aiuta i profughi della rotta balcanica. La polizia ha fatto irruzione nella loro casa alla ricerca di prove per un’imputazione di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina

A Trieste il 24 ottobre scorso l’estrema destra è scesa in piazza in diverse fazioni, piazza Libertà, si sono anche menati perché come si sa i fascisti hanno solo quel modo di comunicare e di esprimere idee politiche. Va così. Quando ha cominciato a circolare la notizia di perquisizioni in città ieri qualcuno avrà immaginato che finalmente si fosse deciso di prendere posizione contro l’apologia di fascismo, che finalmente si muovesse qualcosa, ma niente.

L’irruzione all’alba, nel perfetto stile con cui si stanano i latitanti più pericolosi, è avvenuta nell’abitazione di Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir. Lorena ha 68 anni, è psicoterapeuta e vive con il marito Gian Andrea che di anni ne ha 84 ed è un professore di filosofia in pensione. Nel 2015 hanno attivato un piccolo presidio medico appena fuori dalla stazione per offrire un primo aiuto ai ragazzi che passavano il confine con la Croazia e che hanno piedi malconci e corpi segnati dalle torture. I due coniugi viaggiano anche spesso verso la Bosnia con scarpe, coperte, vestiti e medicinali per provare a lenire il terrore e il dolore. Per questo insieme ad altri hanno costituito l’associazione Linea d’Ombra ODV.

La loro nota racconta l’accaduto: «Questa mattina all’alba la polizia ha fatto irruzione nell’abitazione privata di Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, nonché sede dell’associazione Linea d’Ombra ODV. Sono stati sequestrati i telefoni personali, oltre ai libri contabili dell’associazione e diversi altri materiali, alla ricerca di prove per un’imputazione di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina che noi contestiamo, perché utilizzata in modo strumentale per colpire la solidarietà».

E se ci pensate non è la prima volta che la solidarietà (o il buonismo, come lo chiamano alcuni) accenda indifferenza se non addirittura malfidenza. Tant’è che ogni volta che qualcuno compie un gesto “buono” senza nessun evidente ritorno economico o di altro tipo viene subito additato come “pericoloso”. La solidarietà che diventa “reato” o presunto reato è un crinale pericoloso. Per questo la storia di Lorena e Gian Andrea va raccontata: perché così piccola contiene un (preoccupante) monito che interessa a tutti.

Buon mercoledì.

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L’inessenzialità della scuola

Fra pochi giorni in Italia gli studenti sarebbero dovuti tornare in classe. Ma non accadrà. Tra Regioni che procedono in ordine sparso, ritardi nel potenziamento dei trasporti, assenza di visione della politica

Ora ci sono anche i numeri: nel periodo tra il 31 agosto e il 27 dicembre 2020, il sistema di monitoraggio dell’Iss, l’Istituto superiore di sanità, «ha rilevato 3.173 focolai in ambito scolastico, che rappresentano il 2% del totale dei focolai segnalati a livello nazionale». Lo dice il report Apertura delle scuole e andamento dei casi confermati di Sars-Cov-2: la situazione in Italia.

Solo il 2% dei focolai hanno origine in ambito scolastico. Ma il report fissa anche un altro punto: Le scuole non rappresentano i primi tre contesti di trasmissione in Italia, che sono nell’ordine il contesto familiare/domiciliare, sanitario assistenziale e lavorativo».

Fra pochi giorni si dovrebbe tornare a scuola ma non si tornerà, le decisioni verranno prese a macchia di leopardo, i presidenti di Regione ci ricameranno sopra un po’ di retorica elettorale e si ricomincia di nuovo. Si è parlato moltissimo della capacità di osservare il contagio, di convivere con il virus, di conoscere e controllare tutte le variabili in campo ma per le scuole ci si affida alle tifoserie in campo senza che si riesca a studiare un piano complessivo, qualcosa di più dei banchi con le rotelle e le finestre aperte. Sui trasporti si è perennemente in ritardo, sulle precauzioni in classe bene o male si è riusciti a fare qualcosa mentre non si è mai parlato seriamente di risolvere il problema della ventilazione. Ora vi diranno che è tardi. Eppure non sarebbe stato tardi pensarci in tempo, eppure non sappiamo quanto ancora questo elastico di aperture e di chiusure durerà.

Ieri Maddalena Gissi della Cisl Scuola ha rilasciato una dichiarazione che merita attenzione: «Continuiamo a leggere notizie giornalistiche ma con il Ministero non c’è nessun tipo di confronto. I dirigenti scolastici sono stremati; continuano a fare e rifare orari per le attività didattiche in presenza al 50%. Le famiglie sono confuse, i docenti si stanno reinventando modalità didattiche per tenere insieme i gruppi classe e quelli in Ddi (Didattica digitale integrata, ndr). Non è ancora chiaro se alle Regioni sono arrivate le risorse per ampliare la mobilità con mezzi aggiuntivi. In alcuni casi non vengono investiti i finanziamenti assegnati nei mesi scorsi per ritardi burocratici. Ci preoccupa tanto la disomogeneità delle soluzioni».

La Cgil fa notare che «attualmente siamo di fronte a contesti e realtà fortemente differenziate, non solo tra territorio e territorio, ma anche tra scuola e scuola, ecco perché sono necessari monitoraggi e strumenti flessibili finalizzati a fornire le giuste risposte alla varietà delle situazioni, valorizzando l’autonomia delle istituzioni scolastiche e fornendo le risorse necessarie».

Molti esperti temono la riapertura. Qualcuno sommessamente fa notare che l’Italia è uno dei Paesi che più di tutti ha penalizzato le scuole con la chiusura. Qualche virologo propone che vengano usati i tamponi regolarmente (accade nelle fabbriche, del resto, no?) ma niente.

Una cosa è certa: la frammentazione del dibattito indica chiaramente che no, la scuola non è una priorità come lo è stata l’apertura dei grandi magazzini sotto le feste di Natale. La scuola evidentemente non è un servizio essenziale. E, badate bene, non si tratta di chiedere un dissennato rientro in classe fregandosene della pandemia e della salute ma si tratta ancora una volta di sottolineare come la sicurezza in classe sia un argomento da affrontare sempre e solo qualche ora prima della prevista riapertura. Come accade ora.

L’altro ieri il professore di matematica Riccardo Giannitrapani ha condensato benissimo il concetto: «La gestione della scuola in questi mesi ha un grande valore didattico: insegna a ragazzi e ragazze che il cosiddetto mondo adulto può essere inadeguato. Una preziosa lezione sul fallimento».

Buon martedì.

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Bella ciao, Lidia

È partita Lidia, fiaccata dal Covid ma con tutta la brillantezza dei suoi 96 anni vissuti tutti senza nodi in gola, con la libertà di chi lotta per la libertà e la giustizia. Ogni volta che muore un partigiano a guardarla da fuori questa nostra Italia sembra un po’ più debole per affrontare la ricostruzione e questa brutta aria che spira in giro per l’Europa. Ogni volta che muore una partigiana perdiamo una chiave per leggere il presente.

Lidia Menapace, all’anagrafe Brisca, era una pacifista. E quanto abbiamo bisogno di pacifisti che amano la lotta e disprezzano la guerra, come spesso ripeteva lei. E sapeva bene che la lotta dei partigiani non è qualcosa che va rinchiuso in un solo periodo storico, nonostante sia la tesi di molti a destra e di troppi anche a sinistra: «La lotta è ancora lunga perché quello che abbiamo ottenuto è ancora recente e fatica a durare», disse, con una lucidità che servirebbe a molta della nostra classe dirigente.

Fu staffetta partigiana e rivendicò il ruolo delle donne durante la guerra della Liberazione: «Contesto l’idea che le donne potessero essere solo staffette perché la lotta di liberazione è una lotta complessa», disse lo scorso 25 aprile in un’intervista che le fece Gad Lerner. «Il Cnl del Piemonte mi disse che potevo essere partigiana combattente anche senza portare armi». Di noi dicevano che «eravamo le donne, le ragazze, le puttane dei partigiani». Ma «senza le donne che ricoveravano l’esercito italiano in fuga non avrebbe potuto esserci la resistenza». Quando Togliatti chiese che le donne non sfilassero alla sfilata della Liberazione a Milano perché, secondo lui, il popolo non avrebbe capito lei non seguì l’ordine e si presentò comunque.

Quando si laureò nel 1945 con il massimo dei voti in Letteratura Italiana il suo professore lodò il suo lavoro definendolo frutto di “un ingegno davvero virile”. Lei non gliela fece passare e si prese dell’isterica. È la stessa Lidia Menapace che diventa la prima donna eletta nel consiglio provinciale di Bolzano, dove abitava, poi assessora alla sanità e agli affari sociali. Poi in Parlamento come senatrice di Rifondazione comunista quando era a un passo da diventare presidente della commissione Difesa ma non si trattenne dal dire che le Frecce tricolori fossero “uno spreco di soldi pubblici”. Mai moderata, mai zitta. Venne sostituita dal dimenticabile Sergio Di Gregorio dell’Italia dei Valori.

La sua formazione da donna libera la raccontava così: «Mia madre insegnò a noi due figlie un suo codice etico. Ci diceva: “Siate indipendenti economicamente e poi fate quello che volete, il marito lo tenete o lo mollate o ve ne trovate un altro. L’importante è che non dobbiate chiedergli i soldi per le calze”». Combatté il sessismo nel linguaggio. A proposito delle declinazioni delle parole al femminile scrisse: «Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria».

Era una donna libera Lidia Menapace e non poteva che essere innamorata della libertà.

Buon martedì.

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L’audizione di Renzi getta nuove ombre sul caso Regeni: quando fu informato il governo italiano?

È successo qualcosa di importante nell’audizione di Matteo Renzi, nella veste di ex Presidente del Consiglio, di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, ritrovato senza vita il 3 febbraio 2016 in Egitto. Secondo quanto dichiarato da Renzi la morte del ricercatore friulano gli sarebbe stata comunicata il 31 gennaio, ben 6 giorni dopo la scomparsa. Ha detto Renzi: “Noi abbiamo reagito mettendo in campo tutti gli strumenti – ha detto – Abbiamo lavorato tutti insieme a livello istituzionale come una squadra. Sì, abbiamo rimpianti. Io ho pensato ‘perché abbiamo saputo questa notizia solo il 31 gennaio?’ Se avessimo saputo prima avremmo potuto agire prima”.

Peccato che l’allora ambasciatore italiano in Egitto Maurizio Massari avesse dichiarato alla stessa Commissione che l’ambasciata italiana venne informata dal professore che Regeni avrebbe dovuto incontrare, Gennaro Gervasio, il 25 gennaio alle 23.30. E a sottolineare l’incongruenza c’è anche un comunicato del Ministero degli Esteri che “precisa che le Istituzioni governative italiane e i nostri servizi di sicurezza furono informati sin dalle prime ore successive alla scomparsa di Giulio, il 25 gennaio 2016”. Non è una cosa da poco: attivarsi sin dalle prime ore della sparizione di Regeni avrebbe sicuramente permesso un intervento più tempestivo, come ammette lo stesso senatore di Italia Viva, e forse avrebbe permesso un più facile accertamento della verità.

Smentito dalla Farnesina Renzi ha voluto controbattere con una nota del suo ufficio stampa: “nel corso dell’audizione di questa mattina il senatore Renzi ha espressamente richiamato la relazione del ministro Gentiloni e del Segretario Generale Belloni come parte integrante della sua esposizione. Che la Farnesina fosse informata dal 25 gennaio alle 23.30 è vero per esplicita dichiarazione lasciata a verbale dall’Ambasciatore Massari”. Quindi secondo Renzi la Farnesina sapeva ma non aveva informato il Presidente del Consiglio. Ma è possibile che il capo del Governo non sappia che un suo concittadino all’estero risulta irreperibile?

Ma i dubbi non sono finiti: il 27 e il 30 gennaio l’intelligence italiana ha incontrato gli omologhi egiziani, che avevano già avvisato l’ambasciatore italiano della scomparsa di Regeni. È possibile che in quelle due riunioni non si sia affrontato l’argomento? Ed è pensabile che i servizi italiani (che fanno riferimento al Presidente del Consiglio) non abbiano avuto occasione di aggiornare Renzi sulla scomparsa di un giovane italiano? Tutti dubbi che hanno bisogno di essere chiariti in fretta perché nella storia di Giulio Regeni (e delle responsabilità della politica egiziana) non possiamo permetterci di avere ombre anche sulle istituzioni italiane. La morte di Giulio Regeni non merita altre macchie. Davvero, no.

Leggi anche: Regeni, la procura di Roma è pronta al processo agli 007 egiziani. Ma il governo italiano teme al-Sisi

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Le sta sbagliando tutte

Matteo Salvini non fa proposte concrete e dimostra di non avere una strategia sull’emergenza pandemia. E continua a inanellare una serie incredibile di figuracce

Ieri nel Consiglio regionale lombardo, settima commissione ore 10/10.30 volano stracci in casa Lega: Massimiliano Bastoni insulta Salvini ma non si accorge di avere il microfono accesso. Il presidente di commissione Terzani lo rimprovera insieme a Paola Romeo (Forza Italia). Una scena meravigliosa ma indicativa. Eccolo qui:

Il piccolo incidente però è indicativo. Matteo Salvini le sta sbagliando tutte e sono in molti ormai nella Lega che glielo stanno facendo notare. Una premessa: governare un Paese in tempi di pandemia, con tutte le decisioni difficili da prendere, costa moltissimo in termini di consensi. Accade negli Usa con Trump, accade in Francia con Macron, accade in Brasile. Indici di gradimento che sono in continua discesa e le opposizioni che risalgono prepotentemente. È il gioco della politica da sempre: governare costa in termini di consenso e farlo in un periodo di incertezza e di crisi sanitaria ancora molto di più.

Lui no. Lui, Matteo Salvini, è riuscito a passare dal 37% dell’agosto 2019 al 24,3% dell’ultimo sondaggio e continua a inanellare una serie incredibile di figuracce. Ieri mattina è corso dal suo presidente della Lombardia Fontana perché diceva non condivideva il lockdown notturno pensato dal presidente della Lombardia. Ha anche sparato la solita tiritera sulla libertà: «le limitazioni delle libertà personali mi piacciono poco e devono essere l’ultima spiaggia», ha detto prima di entrare nel palazzo della Regione. Ne è uscito scornato. Fontana è rimasto sulla sua posizione e pace per il leader leghista.

Badate bene: Salvini è lo stesso che 15 giorni fa diceva che non ci fosse nessun bisogno di prolungare lo stato di emergenza. Anche in quel caso aveva parlato di scelta politica non suffragata da dati sanitari: in 15 giorni è stato seppellito dalla realtà.

Del resto è lo stesso  che questa estate ha rilanciato più volte l’ipotesi del professore Zangrillo che dichiarava il virus “clinicamente morto”. Com’è andata a finire lo sappiamo bene: perfino Zangrillo ha dovuto tornare sui suoi passi. Salvini ovviamente ha fatto finta di niente, come al solito. A fine luglio Salvini aveva partecipato al convegno dei negazionisti, proprio con Zangrillo e Sgarbi. Riascoltare oggi quello che dicevano in quei giorni fa venire la pelle d’oca.

E ve lo ricordate a febbraio, quando fece quel video in cui disse “riaprire, riaprire tutto, tornare alla libertà”, pochi giorni dopo il paziente uno di Codogno? Ecco, poi ci sono stati i morti e le bare di Bergamo. Ha fatto sparire il video dai suoi social ma poi ci era ricascato ancora. Senza contare tutte le volte che si è esibito fiero senza mascherina, fino a che perfino i suoi supporter lo hanno duramente criticato ed è stato costretto a cambiare rotta.

Due giorni fa si è lamentato perché il presidente del consiglio Conte aveva telefonato alla coppia Fedez e Ferragni per chiedere di sensibilizzare i giovani sull’uso della mascherina e lui, pensando di fare una bella figura, ha detto ai giornali «a me ha fatto solo una chiamata di 40 secondi negli ultimi mesi». Ora, pensateci un secondo: quale sarebbe la strategia di Salvini? Non c’è. Proposte concrete non ce ne sono.

Certo perdere consensi di questi tempi è un capolavoro di inettitudine e tra i suoi (Zaia in testa) sono in molti a dirlo sottovoce. Almeno c’è di buono che non ce lo siamo ritrovati come ministro. Almeno questo.

Buon giovedì.

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Spiegateci perché gli esperti che minimizzavano il virus ora imperversano in tv (di Giulio Cavalli)

Spiegateci perché gli esperti del virus “clinicamente morto” imperversano in tv

Il virus non è morto, anzi, purtroppo per noi è in ottima salute: sfondati i 10mila positivi con 150mila tamponi, 55 deceduti, 4.343 ricoverati in più di cui 52 in terapia intensiva. Stanno benissimo però anche quelli che nei mesi scorsi vedevano psicotici e allarmisti dappertutto, quelli che ci avvisavano che ormai era tutto alle spalle e che addirittura si innervosivano se qualcuno provava a chiedere un po’ di precauzione in vista dell’autunno. Fu Alberto Zangrillo, primario del San Raffaele, che lo scorso 31 maggio ci annunciò nel corso del programma Mezz’ora in più che “il virus clinicamente non esiste più”.

Zangrillo poi provò a correggere il tiro, certo, ma rimane lo studio del San Raffaele di Milano che parlava (a maggio) di “pochi pazienti e tutti con sintomi lievi” dovuti al fatto che il virus aveva perso la propria capacità replicativa e che risultava essere “enormemente” indebolita rispetto a quella registrata a marzo. “Ha ragione il mio amico Alberto Zangrillo: clinicamente il Covid-19 non c’è più, è morto, ho più degenti con infezioni batteriche”, disse Paolo Navalesi, direttore dell’Istituto di Anestesia e Rianimazione dell’Azienda ospedaliera di Padova e della Scuola di specialità, che si espresse anche sul futuro: “In base all’esperienza maturata in questi tre mesi, posso dire che se siamo riusciti ad affrontare in pochi giorni un’emergenza completamente sconosciuta, oggi saremmo in grado di rispondere nel giro di qualche ora, perciò mi sento tranquillo”.

“Chi parla di seconda ondata fa terrorismo”, disse ad agosto Matteo Bassetti, direttore della Clinica malattie infettive dell’Ospedale San Martino di Genova, che parlò addirittura di una “psicosi per una malattia ormai sotto controllo“. Sempre Bassetti lo scorso 9 settembre ci assicurava anche che in Campania non c’era “nessuna seconda ondata” ma semplicemente una “coda, peraltro prevedibile”. Eh, già. “Non ci sarà la seconda ondata” diceva anche Giorgio Palù, professore emerito di microbiologia e virologia dell’Università di Padova e già presidente della Società europea di virologia.

“Non ci sarà una seconda ondata, l’autunno sarà come adesso, il virus si sta adattando all’uomo, magari farà un ping pong con il pipistrello, cioè ce lo ripasseremo tra specie, ma non se ne andrà fino al vaccino”, disse il 6 agosto Massimo Clementi, professore ordinario di virologia al San Raffaele. E ora? Ora quegli stessi “esperti” che hanno minimizzato e hanno addirittura deriso chi temeva l’autunno tornano a essere considerati “affidabili” e a imperversare nei media. Ma siamo sicuri che non sia il caso di chiedere conto delle dichiarazioni che sono state rilasciate? Almeno un accenno di spiegazioni, basterebbe anche solo un “sì, scusate, mi sono sbagliato”. No? Ora teneteli bene a mente perché saranno quelli che cominceranno a strepitare contro il governo per le mancate misure. Scommettiamo?

Leggi anche: 1. Allarme terapie intensive: ecco la situazione regione per regione. Se i casi aumentano non siamo pronti / 2. “Ora fermiamoci 3 settimane”: parla Crisanti / 3. E alla fine lo hanno fatto: gli sceriffi governatori scavalcano il governo e chiudono le scuole (per colpa loro) – di Luca Telese / 4. Negazionisti contro empiristi: la guerra tra i virologi che decide se siamo liberi o no

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CORONAVIRUS ULTIME NOTIZIE: TUTTI I NUMERI

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Di depressione si parla sempre poco, ma in Italia ne soffrono più di 3 milioni di persone (di Giulio Cavalli)

E allora proviamo a ritirarlo fuori questo mostro di cui si parla sempre poco, che rimane nascosto tra le pieghe degli articoli scientifici come se non fosse un’emergenza sociale, politica e economica. Parliamo di fenomeni depressivi in Italia in questo 2020, parliamo dei più di 3 milioni di persone ammalate nel nostro Paese, della malattia che ha il maggior impatto sulla vita quotidiana e del fatto che Sip (Società italiana di Psichiatria), Sinpf (Società italiana di Neuropsicofarmacologia), Sips (Società italiana di Psichiatria Sociale) e Società italiana di Medicina generale e delle Cure primarie abbiano messo in atto una campagna (“La depressione non si sconfigge a parole”). Perché lo stigma del depresso impedisce a metà dei malati di riconoscere la propria malattia, di parlarne con i propri famigliari e di parlarne con un medico.

Secondo recenti stime dell’OMS, il 20 per cento di bambini e adolescenti nel mondo soffre di disturbi mentali, mentre nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di invalidità per malattia, subito dopo le patologie cardiovascolari. La presidente della Società Psicoanalitica Italiana Anna Maria Nicolò scrive che “i dati raccolti finora hanno evidenziato i bisogni diffusi nella popolazione, nelle famiglie, nei singoli, nel personale sanitario direttamente impegnato nella cura dei pazienti COVID-19” e che hanno “anche evidenziato la scarsa oggettiva recettività da parte dei Servizi Pubblici, gravati dall’elevato numero di richieste e dalla scarsissima quantità di professionisti – psicologi e psicoterapeuti – disponibili.”

Due dati drammatici testimoniano il rischio di una mancata presa in carico di questa patologia: in Europa il 60 per cento dei suicidi viene commesso da persone che soffrono di depressione e il 15-20 per cento di tutti i malati di depressione tenta il suicidio. Oltre a quello puramente sanitario, anche l’impatto economico di questa patologia è molto rilevante: si stima che in Italia il costo sociale della depressione, in termini di ore lavorative perse, sia complessivamente pari a quattro miliardi di euro l’anno, con i pazienti affetti da depressione resistente che perdono mediamente 42 giornate di lavoro all’anno, in pratica circa un giorno a settimana.

“L’iter di conversione in Legge del Decreto “Rilancio” e l’utilizzo dei fondi dell’Unione Europea per il sostegno alle Nazioni più colpite dalla pandemia devono essere l’occasione per garantire alla nostra popolazione in modo strutturato e permanente il diritto naturale alla salute psicologica”, dice la Professoressa Rita B. Ardito, presidente della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva. Dai, parliamone, su.

Leggi anche: 1. The big dilemma: la dipendenza dai social va ben oltre i like, è un’assuefazione dallo schermo 2. Michelle Obama confessa: “Soffro di una lieve forma di depressione”

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Lo Ius Soldi

C’è chi deve aspettare anni per ottenere la cittadinanza italiana, e chi 10 minuti

Il calciatore del Barcellona Luis Suarez, l’avrete sentito ieri sicuramente, aveva bisogno della cittadinanza italiana per brigare il suo trasferimento a un’altra squadra e per facilitare la propria carriera. Aveva la parentela giusta ma avrebbe dovuto sostenere l’esame di italiano. Si presenta all’Università per Stranieri di Perugia e ovviamente è un trionfo.

Peccato che secondo la Procura di Perugia l’esame sia stato concordato e addirittura il voto finale fosse stato stabilito prima ancora di sostenere l’esame. Dalle carte dell’inchiesta si legge che «quello non spiaccica ‘na parola, coniuga i verbi all’infinito, ma te pare che lo bocciamo», si dicono i professori, anche perché dicono sempre loro «con 10 milioni a stagione di stipendio, non glieli puoi far saltare perché non ha il B1». Sui social i professori si sono fotografati tutti sorridenti con il celebre studente.

E dov’è lo scandalo?, direte voi. Semplice. In Italia per prendere la cittadinanza ci vogliono fino a quattro anni, normalmente. Merito, neanche a dirlo, anche del decreto sicurezza del fu Salvini che ha allungato da due a quattro anni i tempi del procedimento. Suarez in 15 giorni ha fatto quello che una persona normale riesce, se riesce, a fare in quattro anni con pratiche molto macchinose che spesso richiedono l’ausilio perfino di un avvocato.

Scrive una professoressa: «In qualità di docente di italiano L2 conosco le lungaggini burocratiche, legate alla richiesta della cittadinanza, le quali inducono spesso molti stranieri a evitare di farne richiesta; fatto salvo il caso di taluni che pare godano di corsie preferenziali».

Poi c’è l’esame: quello di Suarez è durato qualche decina di minuti. Un mostro, in pratica. Scrive Gavin Jones, corrispondente Reuters in Italia che l’ha sostenuto: «Leggo che #Suarez ha ottenuto il certificato B1 di conoscenza dell’italiano ieri in mezz’ora. Per caso anch’io ho dato lo stesso esame ieri (per ottenere la cittadinanza). Dura 2 ore e 45’. Farlo in mezz’ora è impossibile – anche per Dante, ma sicuramente per Suarez».

E quindi cosa è successo con Suarez? Semplice: l’attaccante del Barcellona ha ottenuto lo Ius Soldi, ovvero un diritto che, come troppo spesso accade, non viene attribuito per merito ma per interesse economico. E non capita solo agli stranieri, e non capita solo nelle questioni di cittadinanza. E sarebbe interessante aprire un dibattito sulla ricchezza (e la notorietà) che unge i gangli della burocrazia. Siamo sempre lì. Siamo sempre qui.

Buon mercoledì.

(la geniale definizione di Ius Soldi è di Matteo Grandi)

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