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Tutti a restituire la Legion d’Onore. Bene, ma l’Italia è ben peggio di Macron se non ferma la vendita delle armi all’Egitto

Benissimo, Corrado Augias ha lasciato il segno restituendo la Legion d’Onore alla Francia dopo che l’Eliseo ha conferito il più alto riconoscimento del Paese al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Augias ha spiegato ieri di averlo fatto per rispetto di Giulio Regeni e per sottolineare la mancata collaborazione del governo egiziano alla ricerca della verità sull’omicidio, oltre alle continue violazioni dei diritti umani.

A ruota anche l’ex sindaco di Bologna Sergio Cofferati, l’ex ministra Giovanna Melandri e la giornalista Luciana Castellina hanno preso la stessa decisione per contestare Macron, che tra l’altro, da parte sua, ha tentato vanamente di tenere sotto traccia il conferimento facendo sparire foto e video della cerimonia in onore di al-Sisi.

Ha ragione Luciana Castellina quando scrive che la vicenda “costituisce un dolore per chi come me, e tanti italiani, si sente così legato alla Francia. È una brutta pagina della storia di questo Paese. Un gesto, aggiungo, stupefacente, che nessuno si sarebbe aspettato dalla Repubblica francese”.

Ora però forse sarebbe il caso di allargare lo sguardo e tornare dalle nostre parti, qui dove la procura di Roma ha svolto un enorme lavoro con quattro ufficiali dei servizi segreti egiziani verso il processo ma dove anche la politica non sembra ancora in grado di prendere posizioni forti.

Insomma, il problema non è Macron. “Conte, Di Maio, cosa state facendo per avere la verità?”, ha chiesto qualche giorno fa Paola Deffendi, madre di Giulio Regeni, che su ciò che si potrebbe fare per esercitare le giuste pressioni sul governo egiziano ha tracciato una strada netta: richiamare il nostro ambasciatore al Cairo, dichiarare l’Egitto paese non sicuro e fermare subito l’export di armi e i rapporti commerciali.

“La priorità è stata normalizzare i rapporti con il regime e curare gli interessi economici, militari e turistici”, ha detto in conferenza stampa il padre di Giulio, Claudio Regeni. La famiglia pretende “un sussulto di dignità da parte delle istituzioni, oltre le parole e le buone intenzioni”.

Il ministro Di Maio nell’ottobre 2019 aveva parlato di “conseguenze”, se non avesse ottenuto collaborazione alle indagini da parte dell’Egitto. Di collaborazione non ce n’è stata (lo scrive anche la procura): quali sono le “conseguenze”?

Lo scorso 30 novembre la procura della Repubblica egiziana ha annunciato di avere “temporaneamente” chiuso le indagini. Una fonte del governo egiziano che ha parlato al quotidiano Mada Masr ha detto lo scorso 11 dicembre: “L’Italia farà ciò che vuole, l’Egitto farà ciò che vuole, e intanto i due paesi rimarranno amici”. Forse il problema non è solo Macron, no?

Leggi anche: 1. La verità su Giulio Regeni è un diritto: l’Italia smetta subito di vendere armi all’Egitto (di Alessandro Di Battista) / 2. Armi, gas, diritti umani: il prezzo dell’indulgenza della Francia verso l’Egitto di al-Sisi

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Se l’Italia non si indigna per le agghiaccianti torture degli 007 egiziani su Giulio Regeni

Nel 2016 le commesse tra Italia e Egitto si aggiravano sui 10 milioni di euro l’anno. Nel 2019 gli scambi con l‘Egitto per l’Italia hanno superato gli 800 milioni, comprese due fregate della Marina Militare italiana che sono state vendute al Paese guidato da Al-Sisi. Ecco qui tutto il punto che dovrebbe farci indignare, gridare e continuare pervicacemente a scrivere sulla morte di Giulio Regeni, il ricercatore ucciso in Egitto dopo 9 giorni di sequestro.

E, se serve qualcosa per rendersi conto della feroce brutalità di cui si sta parlando, allora basta leggere le conclusioni dei pm di Roma che hanno chiuso l’inchiesta sull’uccisione del ricercatore friulano e che parlano di torture, di sevizie con oggetti roventi, di lame e di bastoni che causarono “acute sofferenze fisiche” uccidendo lentamente Giulio.

Ora ci sono, nero su bianco, anche i reati: sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. Nelle carte si legge di di violenze perpetrate per “motivi abietti e futili e con crudeltà”, che hanno provocato “la perdita permanente di più organi”: Giulio è stato torturato “con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanza di più giorni attraverso strumenti affilati e taglienti e di azioni con meccanismo urente”.

I colpevoli? Uomini della National Security egiziana, vicinissimi al governo: rischiano il processo il generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif: “È lui ad aver torturato e ucciso Giulio”, scrivono i pm, che hanno raccolto le testimonianze di cinque testimoni oculari. Uno dei testimoni racconta di avere visto Giulio Regeni “incatenato nella sede della National Security. Era magro e aveva i segni delle torture”.

È tutto l’orrore del mondo che la mamma di Giulio Regeni aveva dichiarato alla stampa di avere ritrovato sul viso del figlio. È l’orrore di una violenza che si è burlata della giustizia italiana (i magistrati non hanno ottenuto nessun tipo di collaborazione dall’Egitto) e della nostra politica. È una storia che sanguina anche della mollezza e dell’indifferenza dei nostri governi, che con le mani sporche di sangue di Al-Sisi continuano a firmare contratti e a stringere affari.

Abbiamo le carte che ci raccontano di uno Stato assassino che noi continuiamo a rifornire di armi. Non c’è da girarci troppo intorno: l’omicidio Regeni è un granello di sabbia in un meccanismo che continua serenamente a funzionare. Ma a volte la sabbia riesce a ottenere risultato insperati. La magistratura ha fatto la sua parte, il governo invece latita.

LEGGI ANCHE Omicidio Regeni, inchiesta chiusa: quattro 007 egiziani verso processo. “Giulio legato con catene di ferro”

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Fallisce la crociata di Zuccaro contro le Ong (appoggiata da Travaglio e Di Maio): ora il PM andrà a processo?

“Non lasciamo solo Zuccaro” intitolava il Blog Delle Stelle, sì, proprio lui, il magazine politico del Movimento 5 Stelle che si era schierato a testa bassa al fianco del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro nella sua ennesima battaglia contro le Ong. Furono i grillini e furono i salviniani a cadere nel solito giochetto infimo della politica quando si appoggia alla magistratura per annaspare e trovare conferma delle proprie tesi. Il pensiero politico breve e debole ha sempre bisogno di un’indagine, di un rinvio a giudizio, di qualche carta processuale per certificare la propria visione del mondo.

Nel 2017 fu Zuccaro a denunciare il tentativo delle Ong di «destabilizzare l’economia italiana» attraverso il massiccio sbarco di migranti sulle nostre coste al fine di «trarne vantaggi». Zuccaro aveva anche aggiunto che, a suo avviso, «alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti» perché, disse, «so di contatti» e inoltre si tratta di un «traffico che oggi sta fruttando quanto quello della droga». Si alzò un gran polverone e le parole del procuratore vennero agitate come una sciabola per affettare la discussione su diritti e immigrazione, le parole di Zuccaro vennero sventolate ai quattro venti, lui ebbe anche l’onore di essere audito dal Parlamento, i Zuccaro boys infestavano i social tutti fieri di avere scoperto che i “buoni erano cattivi” e quindi, per la proprietà inversa, i presunti “razzisti” sarebbero stati quelli che ci avrebbero salvato. Peccato che di quelle pesantissime affermazioni non rimase niente, non ci fu una controprova, non ci fu niente e tutto finì nel dimenticatoio per un anno, anche se ormai il rumore di fondo era stato generosamente sparpagliato e il governo Conte (il primo Conte, quello che non si era ancora travestito da “buono”) quando salì in carica nel 2018 con la sua formazione gialloverde poté ripetere le tesi di Zuccaro come condimento delle proprie decisioni politiche.

Arriviamo quindi al 2018, marzo, quando Carmelo Zuccaro torna a occuparsi dell’emergenza migranti nel Mediterraneo e lo fa a modo suo: mette sotto indagine il comandante della nave Open Arms, Marc Reig Creus, il capo della missione della Ong, Ana Isabel Montes Mier, e il coordinatore Oscar Camps. L’accusa ovviamente è di associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. La Ong Proactiva Open Arms, secondo il teorema Zuccaro, opera nel disprezzo più totale degli accordi internazionali e del codice di comportamento firmato con il governo italiano, cercando in tutti i modi di far sbarcare migranti sulle nostre coste. Open Arms aveva soccorso 218 migranti al largo delle coste della Libia rifiutandosi di consegnarli alla cosiddetta “Guardia costiera libica” per via delle violenze e dei maltrattamenti che avrebbero potuto subire in quello che tutta la comunità internazionale ritiene un porto “non sicuro”. I migranti vennero poi fatti sbarcare nel porto di Pozzallo, in provincia di Ragusa, dopo l’autorizzazione da parte del governo italiano.

Cosa accadde poi? Il teorema di Zuccaro venne smontato dal Gip di Catania che nel confermare il sequestro aveva fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere tenendo in piedi l’accusa di immigrazione clandestina e di violenza privata. Il fascicolo passa al Gip di Ragusa per competenza territoriale e viene disposto il dissequestro immediato della nave perché, scrive il Gip, l’Ong aveva agito «in uno stato di necessità» regolato dall’articolo 54 del codice penale (in cui si scrive di chi è «costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave»).

Ben due anni dopo quei fatti ora arriva la decisione del Tribunale di Ragusa che ha deciso il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste per il reato di violenza privata e perché non punibile per stato di necessità per il reato di favoreggiamento. L’ha deciso il Gup al termine dell’udienza preliminare. Open Arms, in una sua nota, scrive che «ancora una volta è stato dimostrato che il nostro agire è sempre stato dettato dal rispetto delle Convenzioni internazionali e dal Diritto del Mare, quello che ci muove è la difesa dei diritti umani e della vita, principi fondativi delle nostre Costituzioni democratiche».

E quindi? Quindi per l’ennesima volta molto rumore per nulla. Per l’ennesima volta sulla pelle dei migranti (e degli elettori e della dignità della politica) si è consumata una battaglia che non aveva basi giuridiche eppure ha dato l’occasione di sentenziare giudizi che si sono rivelati infondati. Ancora una volta è andata male a chi cercava un appiglio per poter essere feroce con il supporto della legge fingendo di non sapere che il gancio non c’è, fingendo di non sapere (come accade tutt’ora) che la “Guardia costiera libica” è il viatico di sofferenze che non hanno nulla a che vedere con i diritti e fingendo di non sapere di avere appaltato proprio a loro quel pezzo di Mediterraneo. La polvere si è posata e non è rimasto niente, niente di più del vociare sconsiderato di cui nessuno pagherà pegno.

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Ora basta: dichiarate Forza Nuova fuorilegge, e lasciate le piazze a chi soffre e protesta civilmente

A Bari il segretario provinciale di Forza Nuova, fra gli organizzatori della manifestazione di protesta cittadina, ha messo alla gogna una giornalista di Repubblica. Sulla vicenda sta già indagando la Questura. A Palermo il leader locale di Forza Nuova, Massimo Ursino, lancia la manifestazione di oggi con messaggi bellici: “Se questo governo ispirato da poteri anti-popolari ed anti-nazionali come l’Oms, ci trascinerà alla rovina ed alla guerra sociale, sappia che troverà il popolo italiano pronto a combattere strada per strada, piazza per piazza”.

In Piazza del Popolo a Roma Roberto Fiore e Giuliano Castellino, leader nazionale e locale del movimento, erano nel gruppo che ha lanciato bombe carta e che è stato disperso con gli idranti della polizia. A Milano tra i 28 denunciati ci sono persone vicine a Forza Nuova. A Torino si parla di ultrà che il questore definisce sotto la “regia di professionisti della violenza”. A Napoli qualche giorno fa, si sa, Forza Nuova era in piazza e il leader Roberto Fiore ha lanciato l’attacco direttamente dai suoi profili social. Dove le proteste sono sfociate in violenza i militanti di Forza Nuova, come le sue figure apicali territoriali, sono sempre stati presenti e addirittura hanno rivendicato la guerriglia.

Del resto è tipico della loro matrice fascista: rivendicare l’uso della forza è l’unico modo per alzare la voce e farsi notare. Parliamo di un partito che è riuscito a farsi cancellare da Facebook e Instagram perché, lo ha scritto proprio il social network, “le persone e le organizzazioni che diffondono odio” non possono essere presenti sulle sue piattaforme. Parliamo di un segretario di quello che vorrebbe essere un partito, come Roberto Fiore, che è stato condannato per banda armata e associazione sovversiva come capo di Terza posizione, l’organizzazione che alla fine degli anni Settanta ha riunito alcuni dei criminali più violenti della destra eversiva.

Un partito denunciato 240 volte per violenza dal 2011 al 2016. Quattro volte al mese. E allora la domanda è sempre la stessa, in questi giorni ancora di più: ma cosa si aspetta a sciogliere i partiti neofascisti che in Italia sono vietati dalla Costituzione? Cosa si aspetta a prendere l’esempio dalla Grecia con Alba Dorata e dichiarare fuorilegge un partito che in questi giorni sta giocando sulla disperazione con la violenza? Cosa?

Leggi anche: 1. Roma, violenti scontri in piazza del Popolo durante la manifestazione contro il Dpcm | FOTO E VIDEO / 2. Poi però non vi meravigliate se la gente comune impoverita scende in strada a protestare

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Il dramma di Valerio, suicida in cella dove non doveva stare…

Per il suicidio del detenuto Valerio Guerrieri, suicidatosi nel carcere di Regina Coeli il 24 febbraio del 2017 all’età di 21 anni, si dovrà perseguire penalmente anche la direttrice del carcere in quel periodo, Silvana Sergi, e una dirigente del Dap. L’ha deciso il gip Claudio Carini che ha respinto per la seconda volta la richiesta di archiviazione del pm Attilio Pisani. Ora si valutano le accuse di omissione di atti d’ufficio e reato di morte come conseguenza di un altro delitto, oltre all’indebita limitazione di libertà personale. Valerio Guerrieri non doveva essere in carcere, c’era scritto a chiare lettere perfino nella sentenza con cui era stato condannato a quattro mesi di reclusione in cui il giudice indicava chiaramente di trasferirlo in una Rems, la residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza che accoglie chi ha gravi disturbi mentali. Insieme alla direttrice del carcere e alla dirigente del Dap, il procedimento va avanti anche per sette agenti della penitenziaria di Regina Coeli e un medico, tutti già imputati. Il medico è accusato di omicidio colposo per non aver controllato in cella il ragazzo sottoposto «alla misura della grande sorveglianza».

La vicenda di Valerio Guerrieri, ennesimo morto per malagiustizia, inizia alle dieci di sera di venerdì 2 settembre del 2016. Valerio è fermo con la sua moto ai bordi del Grande raccordo anulare di Roma, una pattuglia della Polizia lo nota e accosta ma il ragazzo non risponde e riparte immediatamente: un inseguimento che dura 30 chilometri e che coinvolge cinque volanti della Polizia e che si conclude con la caduta del motociclista. Trasportato d’urgenza all’ospedale Sant’Andrea viene arrestato per «resistenza, lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato». Il ragazzo dice di non ricordare nulla e di non avere la patente. Viene condannato agli arresti domiciliari.
Non è una vita facile quella di Valerio: già a cinque anni i genitori decidono di chiedere aiuto al centro di tutela salute mentale e riabilitazione in età evolutiva di Ostia perché le maestre dell’asilo osservano strani comportamenti.

Nel 2009 era stato ricoverato al reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico di Roma dove gli viene diagnosticata «una personalità borderline con lievi tratti psicomaniacali». A quattordici anni comincia a prendere psicofarmaci, viene mandato alla comunità terapeutica Casetta Rossa di Roma e segue un percorso terapeutico che dovrebbe aiutarlo. Poi nel 2010 viene trasferito alla comunità Lilium, in provincia di Chieti, nel 2011 è a Villa Letizia, un centro romano che si occupa di problemi psichiatrici. La sua è una vita passata tra farmaci e le evidenti difficoltà famigliari. Il 1 maggio del 2012 lo arrestano mentre cerca di rubare una Vespa e viene portato al carcere minorile di Casal Del Marmo e poi ai domiciliari a Villa Letizia. Secondo il racconto della madre sarebbe proprio lì che il figlio conosce uno dei capi della banda della Magliana che gli insegna a rapinare i supermercati. La sua vita continua tra ricoveri, arresti e Tso affidato ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), fughe e nuovi arresti.

Nel 2015 gli tocca l’ospedale psichiatrico giudiziario, il manicomio criminale, a Secondigliano. Esce il 1° dicembre del 2015 perché tutti gli Opg in Italia devono chiudere per legge. Finisce in una comunità aperta a Rocca Canterano, nei pressi di Subiaco, ma scappa di nuovo. In quel periodo prende 9 psicofarmaci al giorno. Valerio interrompe le cure, di nuovo, e di nuovo è Tso. È una storia piena di dolore. In un’intervista rilasciata a Internazionale l’anno scorso la madre raccontava che Valerio «passava le giornate ciondolando per casa, pareva uno zombie». Arriviamo alle battute finali di questa storia: dopo l’arresto del settembre 2016, nonostante le disposizioni del giudice, Valerio viene spedito a Regina Coeli, 946 carcerati in quel periodo, il doppio di quelli per cui c’è spazio.

Il 16 febbraio scrive una lettera al fratello: «Ciao frate’ ti scrivo adesso 9.40 del mattino ti scrivo soltanto per dirti che mi dispiace x tutto io qui sto impazzendo non ce la faccio più ma vabbè me la so cercata (…) veramente ora son stanco di mangiare di fare qualunque cosa di scappare basta se io me ne vado x sempre penso che voi non sentirete la mia mancanza voglio andarmene per sempre quindi ora ti lascio con la penna ma non con il cuore ciao fratellone mio ci rincontreremo stai ar ciocco addio!?!?». Otto giorni dopo si uccide impiccandosi in bagno.

I compagni di cella raccontano che aveva preparato il cappio nel giorno precedente. Nella richiesta di rinvio a giudizio a carico di due medici e sette agenti di polizia penitenziaria il pm Pisani chiede la condanna per omicidio colposo per non aver sorvegliato e controllato il ragazzo come bisognava fare, e cioè ogni 15 minuti e con visite psichiatriche quotidiane. Contemporaneamente, Pisani ha provato ad archiviare le indagini sulla direzione del carcere e del Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap): secondo il magistrato avrebbero agito con negligenza ma non con dolo ma ora arriva la decisione del gip. Una cosa è certa: il suicidio di Valerio Guerrieri è l’ennesima storia di uno Stato che usa il carcere come discarica sociale, un luogo dove rinchiudere qualsiasi forma di devianza, dai poveri ai tossicodipendenti fino ai malati psichiatrici. E così le carceri scoppiano e si moltiplicano i casi di suicidi di persone che avevano bisogno di cure, prima che di detenzione, e invece sono state lasciate sole. Come racconta la storia di Valerio.

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Il problema non è solo Montesano che fa il negazionista, ma chi gli chiede pareri sanitari in piena pandemia

L’ultimo in ordine di tempo è Enrico Montesano, che nei suoi film, qualcuno, ci ha anche fatto ridere con la sua stonatura romanesca e con quel cipiglio sempre pronto: il comico romano si accoda al folto gruppo di no mask, quelli che sono contro la “dittatura sanitaria” perché disturbati dalla mascherina, poverini, e che probabilmente non sanno cosa significhi farsi incastrare un respiratore in gola o hanno avuto la fortuna di non avere mai dovuto subire una colonscopia.

Il comico, badate bene ex geometra, è diventata la star della manifestazione dei negazionisti di sabato a Roma, quella che tiene insieme un po’ di complottisti, quelli delle scie chimiche, gli scalmanati del chip sotto pelle e che raccoglie i transfughi più matti dei 5 Stelle (sempre grazie mille per avere contribuito così alla qualità del nostro Parlamento) e quelli che sulla pandemia cercano di ritagliarsi un po’ di visibilità.

Dice in un’intervista a La Stampa Montesano che non si fida dei medici e un comico ex geometra che non si fida della scienza dovrebbe rimanere una curiosità da scambiarsi tra quattro amici al bar e invece qui da noi diventa un parere che sfocia perfino nei giornaloni. E vabbè. Poi ci spiega che le mascherine fanno male perché respiriamo la nostra anidride carbonica e allora gli si potrebbe rispondere con lo studio pubblicato su ‘Annals of the American Thoracic Societyrealizzato da Michael Campos, esperto del Miami Veterans Administration Medical Center e dell’università di Miami come gli effetti della mascherina siano minimi anche in pazienti con insufficienza polmonare molto grave. Ma non servirebbe, no, perché Montesano dice di non fidarsi “dei medici scelti dalla tv” e di essere critico perché è un uomo “curioso”.

Ma il capolavoro di Montesano è quando dice di aderire alla manifestazione ma confessa di non partecipare perché “a una manifestazione può intervenire chiunque e se non so chi potrò incontrare non partecipo, anche se aderito”. Un capolavoro. Ci tiene a dire di non essere un negazionista però ci dice che le mascherine fanno male. Poi si supera ancora: consiglio di tenerle al chiuso e non all’aperto. Infine il solito giochetto retorico: “ma qualcuno – dice – lo dovrà dire che il re è nudo. Oppure no? Il pensiero unico non mi è mai piaciuto”. Insomma la pensa diversamente perché gli piace la postura, tutto qui, e in compenso gli regala anche un po’ della visibilità perduta. Poi ci sarebbe la domanda delle domande: come siamo arrivati a chiedere pareri scientifici a Montesano (e agli altri)? Si attende risposta.

Leggi anche: A Roma i sovranisti scendono in piazza per la “Marcia della Liberazione”. Tra i sostenitori anche Enrico Montesano: “Se non otteniamo niente, ci vuole un po’ di disobbedienza civile”

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Di depressione si parla sempre poco, ma in Italia ne soffrono più di 3 milioni di persone (di Giulio Cavalli)

E allora proviamo a ritirarlo fuori questo mostro di cui si parla sempre poco, che rimane nascosto tra le pieghe degli articoli scientifici come se non fosse un’emergenza sociale, politica e economica. Parliamo di fenomeni depressivi in Italia in questo 2020, parliamo dei più di 3 milioni di persone ammalate nel nostro Paese, della malattia che ha il maggior impatto sulla vita quotidiana e del fatto che Sip (Società italiana di Psichiatria), Sinpf (Società italiana di Neuropsicofarmacologia), Sips (Società italiana di Psichiatria Sociale) e Società italiana di Medicina generale e delle Cure primarie abbiano messo in atto una campagna (“La depressione non si sconfigge a parole”). Perché lo stigma del depresso impedisce a metà dei malati di riconoscere la propria malattia, di parlarne con i propri famigliari e di parlarne con un medico.

Secondo recenti stime dell’OMS, il 20 per cento di bambini e adolescenti nel mondo soffre di disturbi mentali, mentre nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di invalidità per malattia, subito dopo le patologie cardiovascolari. La presidente della Società Psicoanalitica Italiana Anna Maria Nicolò scrive che “i dati raccolti finora hanno evidenziato i bisogni diffusi nella popolazione, nelle famiglie, nei singoli, nel personale sanitario direttamente impegnato nella cura dei pazienti COVID-19” e che hanno “anche evidenziato la scarsa oggettiva recettività da parte dei Servizi Pubblici, gravati dall’elevato numero di richieste e dalla scarsissima quantità di professionisti – psicologi e psicoterapeuti – disponibili.”

Due dati drammatici testimoniano il rischio di una mancata presa in carico di questa patologia: in Europa il 60 per cento dei suicidi viene commesso da persone che soffrono di depressione e il 15-20 per cento di tutti i malati di depressione tenta il suicidio. Oltre a quello puramente sanitario, anche l’impatto economico di questa patologia è molto rilevante: si stima che in Italia il costo sociale della depressione, in termini di ore lavorative perse, sia complessivamente pari a quattro miliardi di euro l’anno, con i pazienti affetti da depressione resistente che perdono mediamente 42 giornate di lavoro all’anno, in pratica circa un giorno a settimana.

“L’iter di conversione in Legge del Decreto “Rilancio” e l’utilizzo dei fondi dell’Unione Europea per il sostegno alle Nazioni più colpite dalla pandemia devono essere l’occasione per garantire alla nostra popolazione in modo strutturato e permanente il diritto naturale alla salute psicologica”, dice la Professoressa Rita B. Ardito, presidente della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva. Dai, parliamone, su.

Leggi anche: 1. The big dilemma: la dipendenza dai social va ben oltre i like, è un’assuefazione dallo schermo 2. Michelle Obama confessa: “Soffro di una lieve forma di depressione”

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Chi votava il clan Di Silvio?

Una sentenza della Corte d’Appello di Roma conferma che il clan Di Silvio, che quattro anni fa si occupò della campagna elettorale a Latina e a Terracina, è un clan mafioso

C’è una sentenza che è sparita dai giornali e dai telegiornali ma è piuttosto interessante: l’altro ieri la Corte d’Appello di Roma ha confermato ciò che disse la Direzione distrettuale antimafia romana e ciò che scrisse a Roma lo scorso anno la giudice per l’udienza preliminare Annalisa Marzano: il clan Di Silvio, che quattro anni fa si occupò della campagna elettorale a Latina e a Terracina è un clan mafioso. La Squadra Mobile arrestò 25 persone tra esponenti di primo piano e picciotti del clan e nove imputati, tra cui tre figli del presunto boss Armando Di Silvio, hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato: 74 anni di carcere in primo grado, ridotti a 50 in appello.

Ma qui viene il bello: nell’inchiesta “Alba Pontina” sono state descritte attività di estorsioni, prestiti usurai, intestazioni fittizie di beni, traffici di droga ed episodi di corruzione elettorale e proprio tra gli episodi di corruzione elettorale si legge che il cosiddetto clan dei Di Silvio di Campo Boario, avrebbe fatto affari nelle campagne elettorali, con l’attacchinaggio di manifesti per la Lega e comprando anche voti.

Chi hanno votato?

Secondo la sentenza di primo grado Latina è una città “strategica negli affari illeciti”, dove la collettività sarebbe “assoggettata all’egemonia dell’associazione che è indubbiamente di tipo mafioso”, e l’associazione mafiosa sarebbe stata “capace di controllare il territorio anche influenzando il voto della comunità locale”, con “una straordinaria forza intimidatrice, che ha assoggettato intere categorie di professionisti e di imprenditori locali”.

Ora Salvini è impegnato a fare la vittima sacrificale per il suo prossimo processo, quello in cui si illude di avere difeso “la Patria” non si capisce bene da chi, ma la domanda al leader leghista è una e semplice: per chi votavano i Di Silvio? E che ne dice? Siamo curiosi.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Dal Conte 1 al 2 la criminalizzazione della solidarietà delle Ong continua a gonfie vele…

Ci sono molti modi per boicottare i salvataggi in mare. Si può fare smargiassando e usandolo come tema di propaganda politica, come fece a suo tempo il ministro dell’interno Salvini che ancora continua sulla stessa lunghezza d’onda ma si può fare anche sotto traccia, in un modo perfino più subdolo, agitando la clava della burocrazia al posto della clava della paura ma ottenendo il medesimo effetto. Nel secondo caso si deve avere anche un bel pezzo del mondo dell’informazione che accetti di farti passare per il buono, perfino per l’avversario politico delle politiche di Salvini e bisogna contare su una buona dosa di indifferenza cosicché i fatti vengano taciuti, tenuti sotto traccia, sminuiti.

Siamo al governo Conte bis, quello che aveva promesso discontinuità con il governo giallo verde proprio sul tema dei diritti umani dell’immigrazione e siamo ancora qui, più di un anno dopo, a osservare un governo che mantiene le stesse politiche (la mancata abolizione dei decreti sicurezza di Salvini di fatto non ha spostato di una virgola le regole, nonostante le tante belle parole) e negli ultimi giorni stiamo assistendo a un’inquietante ascesa di casi di navi che vengono fermate. Badate bene: non ci sono urlati e minacce, no, no. Qui si tratta di carte bollate. Ma il risultato è lo stesso.

Ieri a rimanere bloccata è stata la Mare Jonio, la nave dell’Ong Mediterranea che ha ricevuto un diniego all’imbarco a bordo di due membri: un paramedico soccorritore e un esperto di ricerca e soccorso in mare del Rescue Team di Mediterranea Saving Humans. Secondo Donato Zito, comandante della Capitaneria, «i loro profili non hanno alcuna attinenza con la tipologia di servizio svolto dalla Mare Jonio». È un furbo escamotage di scartoffie: la Mare Jonio (come praticamente tutte le navi umanitarie) è registrata come mercantile con funzioni di cargo, monitoraggio e sorveglianza e il registro navale italiano le ha riconosciuto una notazione in classe come nave attrezzata per la ricerca e il soccorso. Tutto bene, quindi? No, perché la Guardia Costiera invece non riconosce quello status e ecco che la Capitaneria trova il ganglo per bloccare l’imbarco dei due tecnici. «Inoltre – si legge ancora nel provvedimento – l’imbarco dei soggetti sopra menzionati risulta in netto contrasto anche con le precedenti diffide notificate». Sì, perché dal 9 giugno a oggi sono ben quattro le diffide notificate. La Ong Mediterranea non ha dubbi: «Si tratta, evidentemente, di una mirata persecuzione amministrativa e giudiziaria che nasce da una precisa volontà politica del Governo…».

Qualche giorno fa la Capitaneria di Porto di Palermo ha deciso il fermo amministrativo della nave Sea Watch dopo ben 11 ore di accuratissima ispezione a bordo e uno dei motivi avanzati sarebbe stato «l’eccessivo numero di giubbotti di salvataggio a bordo». Anche allora le parole del responsabile affari umanitari di Medici Senza Frontiere Marco Bertotto fu chiaro: «Le autorità italiane – dichiarò – provano a fermare le organizzazioni umanitarie – che cercano solo di salvare vite in mare come richiesto dal diritto marittimo internazionale – mentre disattendono i loro stessi obblighi di soccorso, con l’assenso se non il pieno appoggio degli stati Europei».

Il fermo della Mare Jonio di ieri è il sesto fermo amministrativo negli ultimi cinque mesi da parte delle autorità italiane. Tutto questo mentre dall’inizio del 2020 quasi 8mila rifugiati e migranti sono stati intercettati in mare e riposatamente nelle prigioni libiche dalla Guardia costiera libica, quella che profumatamente paghiamo per fare il lavoro sporco. Ad agosto sono state dichiarate morte e disperse 111 persone, quasi 400 da inizio anno. In tutto questo la ministra Lamorgese nei giorni scorsi ha dichiarato che le sanzioni alle Ong potrebbero “diventare penali”. Tutto questo mentre l’Europa si arrabatta per costruire una solidarietà tra Stati, dimenticandosi delle persone, con il Migration Pact.

Intanto quei torturatori che si fanno chiamare Guardia costiera libica continuano indisturbati il loro lavoro e i lager libici mietono vittime. E allora viene da chiedersi: ma siamo sicuri che il problema fosse solo Salvini? O semplicemente bisognava semplicemente imparare a fare il lavoro sporco in modo pulito, sottovoce, senza social? Una cosa è certa: la criminalizzazione della solidarietà continua a gonfie vele.

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Lo Ius Soldi

C’è chi deve aspettare anni per ottenere la cittadinanza italiana, e chi 10 minuti

Il calciatore del Barcellona Luis Suarez, l’avrete sentito ieri sicuramente, aveva bisogno della cittadinanza italiana per brigare il suo trasferimento a un’altra squadra e per facilitare la propria carriera. Aveva la parentela giusta ma avrebbe dovuto sostenere l’esame di italiano. Si presenta all’Università per Stranieri di Perugia e ovviamente è un trionfo.

Peccato che secondo la Procura di Perugia l’esame sia stato concordato e addirittura il voto finale fosse stato stabilito prima ancora di sostenere l’esame. Dalle carte dell’inchiesta si legge che «quello non spiaccica ‘na parola, coniuga i verbi all’infinito, ma te pare che lo bocciamo», si dicono i professori, anche perché dicono sempre loro «con 10 milioni a stagione di stipendio, non glieli puoi far saltare perché non ha il B1». Sui social i professori si sono fotografati tutti sorridenti con il celebre studente.

E dov’è lo scandalo?, direte voi. Semplice. In Italia per prendere la cittadinanza ci vogliono fino a quattro anni, normalmente. Merito, neanche a dirlo, anche del decreto sicurezza del fu Salvini che ha allungato da due a quattro anni i tempi del procedimento. Suarez in 15 giorni ha fatto quello che una persona normale riesce, se riesce, a fare in quattro anni con pratiche molto macchinose che spesso richiedono l’ausilio perfino di un avvocato.

Scrive una professoressa: «In qualità di docente di italiano L2 conosco le lungaggini burocratiche, legate alla richiesta della cittadinanza, le quali inducono spesso molti stranieri a evitare di farne richiesta; fatto salvo il caso di taluni che pare godano di corsie preferenziali».

Poi c’è l’esame: quello di Suarez è durato qualche decina di minuti. Un mostro, in pratica. Scrive Gavin Jones, corrispondente Reuters in Italia che l’ha sostenuto: «Leggo che #Suarez ha ottenuto il certificato B1 di conoscenza dell’italiano ieri in mezz’ora. Per caso anch’io ho dato lo stesso esame ieri (per ottenere la cittadinanza). Dura 2 ore e 45’. Farlo in mezz’ora è impossibile – anche per Dante, ma sicuramente per Suarez».

E quindi cosa è successo con Suarez? Semplice: l’attaccante del Barcellona ha ottenuto lo Ius Soldi, ovvero un diritto che, come troppo spesso accade, non viene attribuito per merito ma per interesse economico. E non capita solo agli stranieri, e non capita solo nelle questioni di cittadinanza. E sarebbe interessante aprire un dibattito sulla ricchezza (e la notorietà) che unge i gangli della burocrazia. Siamo sempre lì. Siamo sempre qui.

Buon mercoledì.

(la geniale definizione di Ius Soldi è di Matteo Grandi)

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