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Il caso Suarez ci dice che in Italia gli immigrati ricchi si accolgono e quelli poveri si odiano

È la fotografia della distorsione di un paese e, per questo, la vicenda del calciatore del Barcellona Luis Suarez va raccontata per bene e va tenuta a memoria. Non tanto per le dimensione di un’indagine, quella della Procura di Perugia, che forse ha scovato i soliti furbi fare i furbi per mettersi a disposizione del luccicante mondo dei ricchi, ma perché le disuguaglianze sono talmente evidenti che basta mettere in fila i fatti per comprendere come in Italia ci siano diverse velocità (e forse anche regolarità) di procedura per ottenere un diritto.

E cosa c’è di più schifoso di un diritto che dovrebbe universale e invece è accessibile solo a chi può permetterselo? Un calciatore del Barcellona nato in Uruguay briga per ottenere la cittadinanza italiana (ha sposato un’italiana) in poche settimane. È la stessa cittadinanza che, lo dicono le statistiche, tanti attendono in media in quattro anni. Anni contro settimane, tanto per rendere l’idea.

Suarez doveva ottenere la cittadinanza per firmare per venire a giocare in Italia e sostiene, come tutti, un esame di italiano. Secondo le intercettazioni Suarez “non coniuga i verbi”, “parla all’infinito” e quindi concordano l’esame “perché con 10 milioni a stagione di stipendio non glieli puoi far saltare”, dicono gli esaminatori e quindi il calciatore “sta memorizzando le varie parti d’esame” e addirittura il voto finale è stato comunicato in anticipo al candidato. Prima di un esame che è durato una manciata di minuti quando di solito dura circa due ore e mezza.

Così ora la Procura di Perugia indaga, tra gli altri, il Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, Giuliana Grego Bolli, e il direttore Generale dell’università, Simone Olivieri. Ma in fondo, se ci pensate bene, Suarez ha dimostrato di avere tutte le carte in regola per diventare un italiano, un italiano di quelli che sono convinti che questo Paese appartenga ai furbi, ai ricchi, agli amici degli amici, alle raccomandazioni, al servilismo di certi funzionari, al seguire gli interessi prima ancora delle regole e alla prepotenza di chi può permettersi di comprare risultati che andrebbero conseguiti per merito.

In questa sua predisposizione Suarez ha dimostrato di essere perfetto per diventare un italiano di quelli. Resta solo da spiegare ai tanti che sono italiani di fatto, ma che lottano per anni per vedersi riconosciuti, che gli immigrati qui pesano in base al loro reddito. Si accolgono i ricchi e si odiano i poveri, semplice semplice. E così quella che era già una farsa ora diventa ancora più vergognosa.

Leggi anche: Suarez, cittadinanza italiana ottenuta con truffa: il punteggio attribuito prima della prova

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Scambiare un omicidio per una rissa

Pregiudizi razzisti e agiografia dei violenti: nel raccontare l’uccisione di Willy Monteiro Duarte una parte del giornalismo italiano ha dato di nuovo il peggio di sé

Insuperabile il Corriere della Sera che descrivendo uno degli arrestati per la morte di Willy Monteiro Duarte scrive: «Ma Gabriele Bianchi, uno dei quattro fermati (insieme al fratello Marco e altri due) per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte a Colleferro, nei mesi di lockdown si era posto anche un problema più concreto: come tirare avanti, mettere insieme pranzo e cena. Da giovanotto sveglio e concreto lo sapeva: non potevano essere gli sport da combattimento a dargli una sicurezza economica. Così s’era inventato una vita meno bellicosa, quella del fruttivendolo».

Giovanotto sveglio e concreto: l’agiografia dei violenti ultimamente va per la maggiore e ogni dettaglio utile per sminuire l’accaduto sembra ricercatissimo da certi giornalismi per farci un bell’articolo. Eppure si sta parlando di pregiudicati, conosciuti da tutti come violenti, simpatizzanti dell’estrema destra e che si dedicavano volentieri alle risse. Questo piccolo dettaglio viene omesso.

Del resto i fatti raccontano che Willy Monteiro Duarte sia stato ammazzato di calci e di pugni, ovviamente in molti contro uno, come si conviene ai vigliacchi e sia rimasto lì, morto per terra. “Rissa”, scrivono certi giornali: come se fosse una “rissa” massacrare di botte un ragazzetto che pesa la metà di te insieme ai tuoi amici e contro cui usi le tue tecniche di combattimento imparate per diventare ancora più efficace nella tua violenza.

Poi c’è il racconto che ci dice che Willy Monteiro Duarte e la sua famiglia fossero “ben integrati”. Di grazia, qualcuno vorrebbe dirci che informazione è? Se non fossero stati “bene integrati” sarebbe stato più immaginabile un omicidio del genere?

Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti, e aveva proprio ragione.

Infine c’è la narrazione di chi vorrebbe farci credere che Willy si sia trovato “nel posto sbagliato nel momento sbagliato”. Anche questo è un falso: Willy ha ritenuto opportuno difendere un amico dalla foga e dalla violenza di questi picchiatori professionisti. Willy ha deciso di essere altruista e solidale in un territorio in cui evidentemente è un lusso che non ci si può permettere. Willy ha incocciato uno di quei quartieri presidiati dalla violenza di qualche gruppetto di pestatori professionisti che vorrebbero comandare il territorio. Willy ha fatto la cosa giusta. Siamo noi che gli abbiamo fatto trovare il Paese sbagliato.

Buon martedì.

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Maltempo? No, si chiamano cambiamenti climatici: così in Italia muoiono bambini e sprofondano città

In Liguria ci sono state città attraversate da fiumi d’acqua. Verona è stata martoriata. Su Milano circolano le foto degli alberi caduti per il forte maltempo, una RSA è stata scoperchiata, il tetto è volato via come uno straccio e tutti gli ospiti sono stati trasferiti d’urgenza. Nel cremonese la grandine ha devastato il territorio e si sta facendo ancora la conta dei danni. Moltissime le strade bloccate. E poi la notizia di ieri di due sorelle morte per un pioppo alto quattro metri sradicato dal fortissimo vento che le ha schiacciate mentre dormivano nella loro tenda, una tromba d’aria atipica l’hanno definita gli esperti, a Marina di Massa.

Sembrano incidenti, scherzi della natura e del destino, finiscono nelle discussione e nella cronaca come se fossero sfortunati episodi eppure i numeri dicono altro, lo dicono da tempo e lo dicono in modo chiarissimo: gli eventi meteorologici estremi nel 1999 in Italia sono stati in tutto 17, nel 2019 abbiamo avuto 1668 casi (fonte l’European Severe Weather Database) e probabilmente questo 2020 segnerà un altro record. Continuare a credere (e raccontare) che ciò che accade sia frutto di casualità senza vederne invece la sistematicità causata dal cambiamento climatico è l’atteggiamento più vigliacco e pericoloso.

Un’inchiesta dello European Data Journalism Network diffusa da stopglobalwarming.eu racconta che l’Italia potrebbe perdere qualcosa come 1.030,5 chilometri di spiagge nei prossimi 80 anni. Spiegato semplice: se si continua così da qui al 2100 una spiaggia su tre non esisterà più, non ci sarà la spiaggia di San Teodoro in Sardegna e nemmeno quella di Lignano Sabbiadoro nella laguna di Venezia, nella zona di Rimini le spiagge arretrerebbero di almeno 40 metri, solo per far qualche esempio.

Eppure un sondaggio realizzato da Ipsos qualche settimana fa dice che il 72% degli italiani è convinto che il cambiamento climatico sia addirittura un problema più serio della pandemia e l’80% ritiene che il governo dovrebbe ripartire proprio da qui anche per rilanciare l’economia della Paese. Otto italiani su dieci sono convinti che il cambiamento climatico sia dovuto alle attività umane e che si prospetti un disastro ambientale se non ci sarà un cambiamento di abitudini. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che no, che non si tratta di sfortuna, che non serve più la solidarietà dopo una tromba d’aria e un acquazzone: ci sono responsabilità precise, nomi e cognomi, comportamenti che valgono come soluzioni e decisioni che devono essere messi in cima all’agenda. Intervenire in tempo è impegnativo ma non provarci sarebbe un suicidio.

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L’eterno tafazzismo del centrosinistra: così l’alleanza Pd-M5S naufraga prima di nascere

Regola numero uno in politica: se decidi di parlare in pubblico di un accordo si presume che a quell’accordo intanto qualcuno ci stia lavorando, che ci siano presupposti che possano renderlo possibile e che ci sia volontà da entrambe le parti. E invece no, per la strana alleanza tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, un’alleanza annunciata e addirittura votata sulla piattaforma dei grillini, abbiamo assistito e continuiamo ad assistere alle dichiarazioni addirittura di un presidente del Consiglio, del segretario del Partito Democratico Nicola Zingaretti, dell’ex capo politico del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio e intanto dai territori arrivano solo rifiuti se non addirittura calci.

La candidata del M5S in Puglia risponde contrattaccando: “Mi hanno offerto poltrone e prestigio assicurato. Ma la nostra scelta deve essere più importante dei miei vantaggi personali e di quelli del premier”, dice, lasciando perfino intendere che l’accordo tra i due partiti su scala locale sarebbe solo il tentativo di prendere ossigeno nel governo nazionale. Non una gran figura, per niente.

Gian Mario Mercorelli, candidato grillino nelle Marche coinvolge perfino il gran capo dei 5 Stelle Vito Crimi dicendo: “Ho sentito Crimi, e non è in corso nessuna trattativa, né a Roma né qui sul territorio. Capisco le ragioni di Conte, è una posizione dovuta, ma è fuori tempo massimo. Un’entrata così a gamba tesa a 36 ore dalla presentazione delle liste non favorisce di certo l’equilibrio generale”.

Un dato è certo: il matrimonio non si farà e risultano perfino risibili i tentativi di chi preannuncia la richiesta agli elettori di fare voto disgiunto per riuscire comunque a convergere sui candidati presidenti del PD. Il matrimonio giallorosso fallisce ancora prima di essere celebrato e il PD incassa perfino gli strattoni del capo politico pentastellato Crimi, che dice di occuparsi “prima dei contenuti che dei contenitori”, liberando, di fatto, tutte le decisioni dei territori e dichiarando addirittura, in un’intervista proprio ieri al Corriere della Sera, che l’alleanza di cui si discute da giorni non è “alleanza strutturale” e che il voto su Rosseau si riferiva a “quattro Comuni che hanno presentato un progetto”. Proprio così.

E con il senno del poi viene da chiedersi a cosa sia servita tutta questa solfa, a cosa sia servito aprire un dibattito su un progetto che non aveva nessuna possibilità di realizzazione e soprattutto perché logorare i due partiti che sostengono il governo, in questo delicato momento in cui c’è un intero Paese da fare ripartire tra qualche settimana, con un’alleanza sui territori che nei fatti era apparsa subito irrealizzabile. Anche perché ammucchiarsi contro la destra, sperando che i voti si sommino come se gli elettori fossero immobili e acritici, non ha mai portato risultato. Ma qualcuno sembra non avere imparato la lezione.

Leggi anche: 1. Vito Crimi gela Conte: “No all’alleanza M5S-Pd. Il voto su Rousseau riguardava solo 4 Comuni” / 2. Regionali, in Puglia l’alleanza col Pd non piace ai Grillini. La candidata M5S: “Piuttosto tagliatemi la testa”/ 3. Pd-M5S, scoppia la pace in tribunale: “Stop alle cause che ci vedevano contrapposti, cambiato clima politico”. Renzi: “Io non le ritiro”

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Ma cos’è stata Sant’Anna di Stazzema?

Lo racconta un superstite. Enio Mancini aveva 6 anni.

Non avevo ancora compiuto sette anni all’alba di quello splendido sabato estivo; niente faceva presagire ai circa quattrocento abitanti di Sant’Anna e agli oltre mille sfollati che si trattasse di un cupo giorno di terrore e di morte, il giorno del massacro di cinquecentosessanta vittime innocenti, delle quali circa centocinquanta erano bambini sotto i quattordici anni.

Mio padre aveva scorto le colonne naziste che scendevano dai passi montani sui borghi di Sant’Anna.

Prima di andare a nascondersi con gli altri uomini nel bosco, ci sveglio’ e ci invito’ a mettere in salvo la nostra “roba”.

Pensavamo si trattasse di un rastrellamento e temevamo l’incendio delle nostre case, come era avvenuto nel vicino paese di Farnocchia.

Nessuno immaginava che donne, vecchi e bambini avessero a subire violenze.

Poco dopo ecco entrare in casa un gruppetto di S.S., indossavano la tuta mimetica, erano armati fino ai denti e portavano l’elmetto sul capo; notammo che due nascondevano il volto con una specie di maschera e parlavano come noi.

Ci buttarono letteralmente fuori, non permettendoci di prendere nemmeno gli zoccoli e, mentre alcuni con strani attrezzi che lanciavano lunghe lingue d fuoco incendiavano la casa, altri ci condussero sull’aia che dominava il borgo di Sennari.

Li’ trovammo gia’ molte persone, ci addossarono contro un muro di una casa e iniziarono ad installare, su un poggio sovrastante, degli strani attrezzi, tipo treppiedi.

Qualcuno comincio’ a piangere e ad implorare per la disperazione; una vecchina, forse per ingenuita’ o per sdrammatizzare il momento, disse di non preoccuparci che forse stavano per farci una fotografia.

Quando anche la mitragliatrice fu montata e lo sgomento e la paura erano ormai generali, arrivo’ nell’aia un ufficiale tedesco, forse un generale, che imparti’ degli ordini in tedesco: “Raus… Valdicastello”, ripeteva.

Le spregevoli belve con il volto mascherato tradussero: l’ordine era quello di scendere verso Valdicastello.

Al nostro nucleo familiare si erano aggiunti la nonna materna, la zia e gli altri.

Scendendo, passammo davanti alle nostre case, ormai quasi completamente incendiate (si udiva ancora il muggito della mucca rimasta intrappolata nella stalla).

Decidemmo di non ubbidire all’ordine di scendere a Valdicastello, ma di nasconderci nei pressi, con la speranza di poter fare presto ritorno alle nostre case per salvare il salvabile.

Ci nascondemmo in un anfratto naturale che si trovava nella selva, duecento metri sotto casa.

Dopo circa mezz’ora si udirono quelle voci gutturali che si avvicinavano al nostro nascondiglio; lo sgomento fu totale, ci videro, erano una decina, alzammo le mani in segno di resa.

Ci incolonnarono e ci spintonarono lungo il sentiero che portava verso il centro del paese, verso la chiesa di Sant’Anna.

Malgrado le pedate e i colpi coi calci dei fucili nella schiena, si riusciva a procedere molto lentamente.

Alcuni, infatti, erano scalzi ed il sentiero era pieno di rovi e ricci di castagno.

Ad un certo punto decisero di proseguire (sembrava avessero molta fretta), lasciando di guardia un solo soldato che, nel frattempo, si era tolto l’elmetto dal capo; era molto giovane, quasi un adolescente e non ci faceva piu’ tanta paura.

Quando il gruppo dei tedeschi scomparve dalla nostra vista, il giovane soldato comincio’ ad impartirci degli ordini, che non capivamo, ma ci faceva anche dei gesti eloquenti.

Questi si’ erano facilmente intuibili: ci diceva di tornare velocemente indietro.

Salimmo il ripido pendio, si udi’ una scarica di arma automatica che ci fece trasalire, ci girammo di scatto temendo che ci stesse sparando addosso ed invece imbracciava il fucile verso l’alto e sparava verso le fronde dei castagni.

Si continuo’ a salire verso Sennari, mentre sul versante opposto, verso la chiesa, si udivano in un frastuono generale crepitio di spari, scoppi di bombe, tetti di case che crollavano, lamenti di animali che stavano bruciando vivi nelle stalle e poi si scorgeva il fuoco ed il fumo nero che proveniva da ogni direzione, da ogni borgo del paese.

Non ci rendevamo pero’ conto di tutto quello che realmente stava accadendo.

Giungemmo a casa poco prima delle dieci e tutti ci adoperammo per salvare dal fuoco quella parte non ancora completamente distrutta.

Ci sembrava cosa gravissima aver perso gran parte della nostra roba e soprattutto la mucca che, in quel periodo, ci aveva permesso di sopravvivere.

Verso le cinque del pomeriggio, pero’, la tremenda notizia.

Un giovane della borgata, allontanatosi al mattino con gli altri uomini per nascondersi nei boschi e che, al ritorno, aveva attraversato il centro e gli altri borghi, arrivo’ a Sennari urlando, sembrava impazzito: “Una strage! Sono tutti morti! Sono bruciati!” ripeteva.

Lasciammo le nostre case che ancora fumavano per correre verso il centro, verso la chiesa.

Ogni gruppo andava la’ dove abitavano i propri congiunti, i propri parenti.

Passammo al “Colle”.

Ne avevano uccisi diciassette (una ragazza, ferita, ed un uomo anziano si erano miracolosamente salvati sotto il cumulo dei cadaveri).

Arrivammo alle “Case” dove abitavano i nostri parenti: cadaveri sparsi dappertutto, rovine, fuoco e i pochi sopravvissuti impietriti dal dolore.

In una casa, sventrata dal fuoco, su una trave che ancora ardeva – incastrata – una rete di un letto e sopra tre corpi quasi completamente consumati.

Al nero dei tessuti carbonizzati faceva contrasto il bianco dello scheletro; uno dei corpi era piccolo, il corpo di un bambino.

E poi l’odore acre, intenso, della carne arrostita.

Una nonna, per fortuna, riprese noi bambini per riportarci verso Sennari.

Avevamo visto molto, troppo per la nostra tenera eta’.

Una esperienza drammatica che segna per sempre un’esistenza, ma comunque meno tragica di altri giovani ragazzi sopravvissuti nell’eccidio che, feriti o incolumi, videro massacrare i propri cari.

Poi ci fu il dopo, ma quella e’ un’altra storia.

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Calderoli che odiano le donne

Secondo l’autore del Porcellum i candidati maschi sarebbero favoriti alle elezioni perché “si accoppiano” di più. Lo ha detto in Senato, ricevendo gli applausi di Salvini

«Qualcuno dice che questo è fatto per favorire la parità di accesso. Ve lo dice un umile e modesto conoscitore della materia elettorale: chi la conosce sa che in collegi che hanno a disposizione un numero di candidature che va da due a sette, quindi piuttosto piccolo, la doppia preferenza di genere danneggia il sesso femminile, perché normalmente il maschio è maggiormente infedele della femmina, per cui accanto a una candidatura maschile…». Così il senatore della Lega Roberto Calderoli intervenendo in Aula al Senato durante la discussione generale sul dl per la doppia preferenza in Puglia.

«Il maschio solitamente si accoppia con quattro o cinque rappresentanti del gentil sesso, cosa che la donna solitamente non fa – dice ancora – Il risultato è che il maschio si porta i voti di quattro o cinque signore e le signore non vengono elette».

Mentre il senatore Calderoli pronunciava queste bestialità di fianco a lui il senatore Matteo Salvini applaudiva. Sì, applaudiva.

Ciò che sconvolge è che ogni giorno, da qualche parte, arriva la prova inconfutabile che questi:

  • odiano le donne;
  • ritengono le donne altro rispetto al proprio esser maschi;
  • ritengono la politica una pratica da cacciatori e furbi e non da amministrazione della cosa pubblica;
  • ritengono gli uomini valorosi per le loro infedeltà mentre le donne le immaginano ovviamente silenti e punite;
  • sono talmente sfacciati che dicono le cose che dicono in una seduta del Parlamento, con tanto di verbale scritto;
  • si danno di gomito quando parlano di donne come se fossero nei peggiori bar.

Ma una domanda mi agita da sempre: ma le donne come fanno a votarli? Ma le donne della Lega non hanno niente da dire ai Calderoli che odiano le donne?

Ah, a proposito: prima tocca agli stranieri, poi agli omosessuali, poi alle donne. Piano piano, vedrete, toccherà prima o poi anche a voi. Perché loro sono patrioti di un’unica patria: se stessi.

Buon venerdì.

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La parità degenere

In Puglia l’ostruzionismo di Fratelli d’Italia ha impedito che la doppia preferenza di genere fosse inserita nella legge elettorale, come previsto da una norma nazionale del 2016. Così il governo ha dovuto metterci una pezza

Che gran brutta figura che ha rimediato il Consiglio regionale della Puglia. La notizia è passata sottobraccio eppure è una notizia di portata storica perché vede il governo, con il presidente Conte, intervenire per decreto lì dove i consiglieri regionali sono riusciti a dare il peggio di se stessi.

Partiamo dall’inizio: il Consiglio regionale pugliese nell’ultima occasione utile non riesce a introdurre la doppia preferenze di genere così come stabilito dalla legge nazionale, la n.20 del 2016, riuscendo addirittura a farsi bloccare da qualche migliaio di emendamenti da parte di Fratelli d’Italia, quelli della famiglia tradizionale che evidentemente le donne le vorrebbero vedere solo a casa a stirare e accudire i bambini. Che una Regione non riesca a mettersi in regola, dopo oltre quattro anni, con una legge così importante e non riesca a garantire la parità di genere e soprattutto per fare qualcosa di concreto per la partecipazione politica delle donne è la fotografia di un Paese in cui l’autopreservazione (degli uomini) è e rimane uno degli ostacoli principali.

Il governo ha provato a richiamare i consiglieri regionali alle loro responsabilità ma l’invito è caduto nel vuoto: la brama di qualche maschietto di non perdere il posto alle prossime elezioni evidentemente ha contato di più di principi che vengono annunciati e poi mai messi in pratica. Così alla fine è dovuto intervenire il presidente Conte con una mossa che ha qualcosa di storico: il governo ha nominato il prefetto di Bari Antonia Bellomo commissario straordinario con la funzione di provvedere «agli adempimenti strettamente conseguenti per l’attuazione del decreto sulla doppia preferenza di genere nelle Regionali in Puglia». Poche ore dopo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il decreto legge.

Ha ragione la ministra per le Pari opportunità e la Famiglia Elena Bonetti quando scrive: «Affermiamo così che la parità di genere è un principio da tutelare in tutto il Paese, in maniera uniforme, perché in maniera uniforme va tutelato il diritto alle pari opportunità. Avevo anticipato negli scorsi giorni la volontà di utilizzare questo strumento inusuale, sperando tuttavia che le istituzioni pugliesi si adeguassero autonomamente. Non avendolo fatto, non abbiamo avuto altra scelta che questa per garantire i diritti e la legalità. Ho chiesto e insistito per un commissario straordinario che sia garante della piena applicazione del decreto e lo abbiamo individuato nella persona del Prefetto di Bari».

È un gesto enorme. E giusto. E dimostra invece la parità degenere della politica quando si occupa solo di sopravvivere.

Ben fatto.

Buon lunedì.

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La preghiera dell’odio

Un parroco in un paese della Puglia ha organizzato una veglia di preghiera contro la legge contro l’omotransfobia che, a suo dire, sarebbe un’insidia che minaccia la famiglia. E la sindaca si è ribellata

Siamo a Lizzano, paese in provincia di Taranto, dove il parroco, don Giuseppe, ha pensato bene di organizzare una veglia di preghiera contro la legge contro l’omotransfobia (il disegno di legge Zan è già stato approvato in Commissione Giustizia) che, a suo dire, sarebbe un’insidia che minaccia la famiglia. L’oscurantismo del resto va molto di moda tra alcuni leader politici e figurarsi se non prende piede anche tra i parroci di provincia dove con un arzigogolato ragionamento si riesce a mettere insieme la famiglia con l’odio verso i gay: sono quei pensieri deboli e cortissimi che prendono molto piede dove l’ignoranza regna sovrana. Evidentemente per don Giuseppe il suo dio vuole che si continui a odiare e discriminare perché le famigliole possano stare tranquille. Contento lui.

Il punto che conta però è che in molti (per fortuna) si sono ribellati a questa pessima iniziativa e soprattutto la sindaca del paese, la dott.ssa Antonietta D’Oria, pediatra di famiglia, mamma di quattro figli che lavora a Lizzano da trent’anni ed è impegnata in varie associazioni di ambito sociale, ambientale e culturale decide di prendere carta e penna e di rispondere. Potrebbe essere la solita diatriba tra parroco e sindaca ma di questi tempi le parole sono preziose. Ecco la risposta:

“È notizia ormai rimbalzata su tutti i social media che il parroco di Lizzano, il parroco della nostra Comunità, il nostro parroco ha organizzato un incontro di preghiera contro le insidie che minacciano la famiglia, tra cui, prima fra tutte, cita la legge contro l’omotransfobia.
Ecco, noi da questa iniziativa prendiamo, fermamente, le distanze.
Certo non sta a noi dire quello per cui si deve o non si deve pregare, ma anche in una visione estremamente laica quale è quella che connota la attuale Amministrazione Comunale, la chiesa è madre e nessuna madre pregherebbe mai contro i propri figli.
Qualunque sia il loro, legittimo, orientamento sessuale.
Perché, come ha scritto meglio di come potremmo fare noi, padre Alex Zanotelli, quando ha raccontato la propria esperienza missionaria nella discarica di Corogocho, la Chiesa è la madre di tutti, soprattutto di quelli che vengono discriminati, come purtroppo è accaduto, e ancora accade, per la comunità LGBT.
A nostro modestissimo parere e con la più grande umiltà, ci pare che altre siano le minacce che incombono sulla famiglia per le quali, sì, sarebbe necessario chiedere l’intervento della Divina Misericordia.
Perché non pregare contro i femminicidi, le violenze domestiche, le spose bambine?
Perché non celebrare una messa in suffragio per le anime dei disperati che giacciono in fondo al Mediterraneo?
Perché non pregare per le tante vittime innocenti di abusi?
Ecco, senza voler fare polemica, ma con il cuore gonfio di tristezza, tanti altri sono i motivi per cui raccogliere una comunità in preghiera.
Certo non contro chi non ha peccato alcuno se non quello di avere il coraggio di amare.
E chi ama non commette mai peccato, perché l’amore, di qualunque colore sia, innalza sempre l’animo umano ed è una minaccia solo per chi questa cosa non la comprende”.

Che bella quando prende posizione, la politica.

Come dice la scrittrice Francesca Cavallo: «iniziative come questa non devono passare sotto silenzio, per il bene di tutti quegli adolescenti che leggono di un’iniziativa come questa e pensano di essere sbagliati. Io sarei potuta essere tra loro».

Buon giovedì.

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Caso Regeni: l’Egitto ci prende in giro e il governo fa finta di niente

Ma cosa deve succedere ancora? L’Egitto deve bombardarci? Devono mandarci un figurante che finge di essere Giulio Regeni e fa “ciao ciao” con la manina in un video finto mandato in mondovisione? Devono accusare di terrorismo i magistrati romani? Devono raccontarci che il giovane ragazzo italiano è stato rapito dagli alieni e ucciso in una battaglia interstellare? Cosa deve succedere ancora perché uno, uno solo, uno qualsiasi degli esponenti del governo, cominci a alzare la voce e prendere un provvedimento che sia uno, uno solo, che non passi dalla vendita tutta compiaciuta di armi e navi?

Ieri i magistrati egiziani, dopo più di un anno, si sono presentati in videoconferenza ai magistrati italiani che indagano sul barbaro omicidio di Giulio Regeni e sono riusciti a non dare mezza risposta che sia mezza alle richieste. Dopo 14 mesi, non c’è nemmeno l’elezione del domicilio dei cinque indagati, tutti appartenenti ai servizi di sicurezza egiziana. E non solo: il procuratore egiziano Hamada Elsawy ha avuto anche l’ardire di chiedere (lui a noi) cosa ci facesse Regeni in Egitto, quasi alla ricerca di una giustificazione di quel massacro.

Addirittura la Procura egiziana emette un comunicato in cui sostiene che “Roma toccherà con mano la nostra trasparenza“, fingendo di non sapere che proprio alcuni giorni fa la famosa trasparenza egiziana ha inviato dei presunti effetti personali di Giulio Regeni che si sono rivelati falsi.

I genitori di Giulio, logorati da uno stillicidio continuo dal giorno della morte del figlio, hanno criticato l’atteggiamento egiziano “dopo quattro anni e mezzo dall’uccisione di Giulio e senza che nessuna indagine sugli assassini e sui loro mandanti sia stata seriamente svolta al Cairo”. E criticano ancora una volta il governo italiano per la sua linea della “condiscendenza”, del “stringere mani” e del “fare affari con l’Egitto”.

Perfino il presidente della Commissione d’inchiesta per la morte di Regeni, Erasmo Palazzotto, dice che “non abbiamo motivo di essere fiduciosi perché fino ad ora da parte egiziana sono arrivati soltanto tentativi di depistaggio e di coprire la verità”.

I genitori chiedono il ritiro dell’ambasciatore, il governo dice che ci pensa, una cosa è certa: a Giulio hanno massacrato la faccia, ma il governo italiano sembra volere fare tutto quello che serve per perderla. In tutto questo Patrick Zaky è prigioniero da 140 giorni, in attesa di un processo, mentre l’Italia fa finta di nulla. Quando finisce la pazienza?

Leggi anche: 1. I genitori di Giulio Regeni: “Un fallimento l’incontro tra pm italiani ed egiziani” / 2. Palazzotto a TPI: “Siamo in ritardo, ma vogliamo sapere la verità” / 3. Conte in audizione alla Commissione Regeni: “Da Al Sisi disponibilità, ora aspettiamo i fatti” / 4. L’Egitto acquista 2 navi militari italiane e tappa la bocca all’Italia sul caso Regeni

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Tante promesse per nulla

Niente, gli è andata male anche questa: Salvini ci teneva così tanto a fare il martire per il suo processo che avrebbe dovuto cominciare il prossimo 4 luglio, quello che lo vede imputato per sequestro di persona per il cosiddetto “caso Gregoretti” quando 131 migranti rimasero per quattro giorni su una nave militare italiana prima dello sbarco ad Augusta il 31 luglio del 2019. Ci teneva moltissimo Salvini perché avrebbe potuto mettere in scena la trama del povero perseguitato che viene messo all’angolo dalla magistratura cercando un legame (che non c’è) con la vicenda delle orrende intercettazioni del magistrato Palamara. E invece niente. «C’è mezza Italia ferma però mi è arrivata una convocazione a Catania per il 4 luglio», aveva dichiarato il leader leghista e invece il presidente dell’ufficio del giudice dell’udienza preliminare Nunzio Sarpietro è stato costretto al rinvio: «I nostri ruoli sono stati travolti dallo stop per l’emergenza coronavirus, ci sono migliaia di processi rinviati che hanno precedenza e ho dovuto spostare l’inizio del processo che vede imputato il senatore Salvini ad ottobre», spiega. E anche sui dubbi di un processo ingiusto Sarpietro tranquillizza l’ex ministro: «Stia tranquillo il senatore Salvini, avrà un processo equo, giusto e imparziale come tutti i cittadini. Né io né nessun giudice che si è occupato di questo fascicolo abbiamo nulla a che spartire con Palamara. E sono d’accordo con lui: quelle intercettazioni tra magistrati sono una vergogna».

Tutto fermo, quindi e niente scontro giudiziario come quelli che piacciono così tanto al centrodestra eppure l’ombra di Salvini, al di là delle vicende processuali, continua a pesare su questo governo e a essere un macigno per questo centro sinistra che si ritrova alleato con gli stessi alleati che furono di Salvini, con lo stesso presidente del Consiglio che celebrò proprio i decreti sicurezza e con un’aria stagnante per quello che riguarda il futuro prossimo sul tema. “Discontinuità”, avevano promesso proprio all’inizio del Conte bis. In molti si ricordano che le due leggi estremamente restrittive sull’immigrazione furono ampiamente contestate da buona parte del Partito democratico, in molti si ricordano le promesse che furono fatte e poi ripetute e in molti si ricordano che furono proprio i maggiorenti democratici a dirci di stare tranquilli che sarebbe cambiato tutto e che si sarebbe cancellato presto quell’abominio. Niente di niente. I decreti sicurezza sono lì e dopo otto mesi non sono stati cambiati. Non sono nemmeno state apportate le modifiche che addirittura il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva chiesto in una sua comunicazione ufficiale. E se è vero che il numero di persone che cercano di attraversare il Mediterraneo è diminuito in questi primi mesi dell’anno è altresì vero che dopo la pandemia sicuramente ci si ritroverà di fronte allo stesso identico problema, con le stesse identiche strumentalizzazioni di Salvini (e della ringalluzzita Meloni) e ancora una volta si assisterà al cortocircuito del governo che tiene insieme quelli che andavano a visitare le barche tenute alla deriva di Salvini e quegli stessi che con Salvini definivano «taxi del mare» le navi delle Ong. Sono diverse le proposte di modifica depositate nei mesi: la riduzione delle multe che i decreti prevedono per le navi Ong impegnate nei salvataggi in mare (su cui anche Mattarella aveva avuto da ridire), il ripristino di alcune forme di protezione internazionale per rendere più facile la regolarizzazione delle persone sbarcate nonché maggiori investimenti nel sistema di accoglienza diffusa, quella che ha sempre funzionato meglio coinvolgendo piccoli gruppi in piccole strutture sparse sul territorio italiano. Niente di niente. Rimane solo qualche parola delle poche interviste rilasciate dalla ministra dell’Interno Lamorgese, l’ultima all’inizio di questa settimana, che ha più volte ripetuto di non essere favorevole allo stravolgimento delle leggi. A posto così. Figuratevi, tra l’altro, se in un contesto del genere si possa anche solo lontanamente parlare di ius soli o di ius culturae che erano altri capisaldi di una certa sinistra progressista che urlava ad alto volume contro Salvini e che ora si è inabissata in un penoso silenzio.

Ma è rimasto tutto fermo? No, no, è andata addirittura peggio di così: all’inizio di aprile il governo ha stabilito che i porti italiani non possono più essere definiti “porti sicuri” per le persone soccorse in mare e di nazionalità diversa da quella italiana, di fatto impedendo l’accesso delle navi delle Ong, riuscendo nel capolavoro di fare ciò che nemmeno Salvini era riuscito a fare con tutte le carte a posto. Nonostante la sanatoria approvata dal Consiglio dei ministri per rimpinzare di braccia i campi dell’ortofrutticolo e per garantire l’ingrasso della grande distribuzione il governo non ha nemmeno trovato il tempo di rivedere la legge Bossi-Fini del 2002 che di fatto rende impossibile trovare lavoro regolare per qualsiasi straniero extra comunitario. A metà dello scorso aprile dodici persone sono morte per sete e per annegamento (mentre altre cinquantuno sono state riportate nei lager libici) e anche l’indignazione per i morti sembra ormai essersi rarefatta. Il giornalista Francesco Cundari il 18 aprile ha colto perfettamente il punto: «Il governo ha abbandonato anche quel minimo di ipocrisia che ancora consentiva di accreditare una qualche differenza, almeno di principio, tra le parole d’ordine di Matteo Salvini e la linea della nuova maggioranza in tema di immigrazione, sicurezza e diritti umani», ha scritto per Linkiesta. Ed è proprio così: ormai la sinistra non finge nemmeno più di essere sinistra e spera solo che non si sollevi troppa polemica. Tutto si trascina in un desolante silenzio spezzato solo dalle inascoltate parole di qualche associazione umanitaria e dalla interrogazione parlamentare di Rossella Muroni sui respingimenti illegali, di cui leggerete nell’inchiesta di Leonardo Filippi che apre questo numero. Mentre in Parlamento ci si inginocchia in memoria di George Floyd qui ci si dimentica di quelli che senza ginocchio si riempiono i polmoni d’acqua per i criminali accordi che l’Italia continua a sostenere con la Libia e ci si dimentica di quelli che muoiono nelle baracche di qualche borgo di fortuna per schiavi.

Poi, in tutto questo, vedrete che arriverà il tempo in cui Salvini tornerà a fare il Salvini e tutti si mostreranno stupiti, ci diranno che vogliono fare tutto e che vogliono farlo presto e intanto sarà troppo tardi, intanto la gente muore, intanto gli elettori si allontanano e si ricomincia di nuovo daccapo.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 19 giugno

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