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Il senso del lavoro di Sgarbi

Vittorio Sgarbi, da sempre incapace di entrare nel merito nelle sue baldanzose e sconclusionate uscite in cui attacca gli avversari politici di turno, ha pensato bene di criticare Virginia Raggi con una bella provocazione classista delle sue, dicendo: «Secondo me prima di fare il sindaco era una cameriera nell’ufficio di avvocati e guadagnava 600 euro al mese». Essere cameriera e guadagnare 600 euro al mese evidentemente per il critico d’arte è elemento di vergogna e di inettitudine. Del resto, mica per niente, Sgarbi da sempre è l’assiduo frequentatore di immorali imprenditori. Virginia Raggi, da canto suo, ha risposto parlando della dignità dei camerieri e tutto il resto, seguita a ruota da Di Maio.

Ma c’è un aspetto interessante in tutto questo: Sgarbi ha pronunciato la sua infelice frase mentre si candidava come sindaco di Roma (e già cerca di attaccarsi ai pantaloni di Calenda) e praticamente in contemporanea ha annunciato la sua candidatura in Calabria. Del resto che Sgarbi sia terrorizzato dall’idea di dover lavorare senza politica lo racconta benissimo la sua storia politica che Fondazione Critica Liberale ha messo tutta in fila e che letta tutta d’un fiato fa parecchio spavento:

«1) Unione monarchica italiana; 2) Partito comunista italiano, accettando la proposta di candidarsi al consiglio comunale di Pesaro, nel 1990, candidatura poi fallita per avere contemporaneamente accettato anche la proposta di candidato per il Psi; 3) Partito socialista italiano, per il quale è stato eletto nel 1990 consigliere comunale a San Severino Marche; 4) Dc-Msi, alleanza con la quale è stato eletto sindaco di San Severino Marche nel 1992; 5) Partito liberale italiano, per il quale è stato deputato nel 1992; 6) Forza Italia, con la quale è stato eletto deputato nel 1994, nel 1996, nel 2001 e 2018; 7) Partito federalista, che ha fondato nel 1995 e poi lasciato per aderire alla 8) Lista Pannella-Sgarbi; 9) “I Liberal – Sgarbi”, movimento da lui fondato nel 1999; 10) Polo laico, movimento effimero esistito nel 2000 per garantire una rappresentanza alle elezioni dell’anno successivo ai Liberali e ai Radicali Italiani; 11) Lista consumatori, con la quale si è candidato, per le Politiche del 2006, senza essere eletto; 12) Udc-Dc, alleanza con la quale è stato eletto sindaco di Salemi nel 2008; 13) Movimento per le autonomie con il quale è stato candidato alle elezioni europee del 2009 nel cartello elettorale L’Autonomia nella Circoscrizione Isole; 14) Rete Liberal Sgarbi-Riformisti e Liberali nelle elezioni regionali 2010 del Lazio; 15) Partito della Rivoluzione-Laboratorio Sgarbi, movimento politico fondato dallo stesso Sgarbi ufficialmente il 14 luglio 2012; 16) Intesa popolare, partito fondato nel 2013 assieme a Giampiero Catone; 17) i Verdi, in occasione delle elezioni comunali a Urbino del 2014, hanno sostenuto la sua iniziale candidatura a sindaco e poi la proposta al sindaco eletto di nominarlo assessore alla Cultura del Comune di Urbino, a seguito dell’alleanza tra i Verdi e la coalizione di Centrodestra, guidata da Maurizio Gambini; 18) Rinascimento, partito da lui fondato con Giulio Tremonti nel 2017 con il quale inizialmente si candida come governatore alle Regionali in Sicilia; in seguito appoggerà la candidatura di Nello Musumeci per la coalizione di centrodestra, che risulterà eletto. In vista delle elezioni politiche del 2018 il partito si federa con Forza Italia; 19) Alleanza di centro, il 12 dicembre 2019, nel gruppo misto della Camera, sei giorni dopo che Sgarbi ha lasciato il gruppo di Forza Italia, si costituisce la componente “Noi con l’Italia – Usei – Alleanza di Centro”, poi divenuta, il successivo 18 dicembre, “Noi con l’Italia – Usei – Cambiamo! – Alleanza di Centro”».

Eccolo il senso del lavoro per Sgarbi: navigare da un partito all’altro in cerca di un ruolo pubblico. Poi si potrebbe ricordare la condanna in via definitiva a 6 mesi e 10 giorni per truffa aggravata e continuata e falso ai danni dello Stato, per produzione di documenti falsi e assenteismo nel periodo 1989-1990, mentre era dipendente del ministero dei Beni culturali.

Poi, oltre a quello che fa, c’è quello che dice e come lo dice. Ma qui si cadrebbe in un dirupo, sarebbe troppo, anche per un buongiorno.

Buon giovedì.

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I diritti cominciano pretendendoli

Quando si iniziò a chiedere il diritto al divorzio in Italia ci credevano in pochi. Così come avvenne per la fine dell’apartheid negli Usa. Perché i diritti restano sotto la brace per anni, e prima o poi trovano la scintilla

Quando nasce un diritto? Quando viene riconosciuto? Ma no, dai, su. Sessantacinque anni fa Rosa Parks su un autobus a Montgomery, in Alabama, si rifiutò di cedere il proprio posto ad un bianco. Stava tornando a casa dopo aver lavorato tutto il giorno in un grande magazzino come sarta, faceva molto freddo, e non aveva trovato posti liberi nel settore riservato agli afroamericani e per questo decise di avere il diritto di sedersi nel settore dei posti comuni. Salì un uomo bianco che rimase in piedi e l’autista del bus dopo alcune fermate le chiese di alzarsi. Disse di no. Venne arrestata. Iniziò una protesta che poi è storia: il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery durò 381 giorni, i tassisti afroamericani abbassarono le loro tariffe a quelli dei bus, le piazze si riempirono di sostenitori. Il 13 novembre 1956, la Corte suprema degli Stati Uniti dichiarò fuorilegge la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici poiché giudicata incostituzionale.

Cinquant’anni (e 1 giorno) fa fu approvata la legge che prevedeva il diritto al divorzio alla Camera dopo una seduta parlamentare che durò oltre 18 ore. La riforma era richiesta a gran voce dai movimenti delle donne e dai radicali. Quando si cominciò a chiedere il diritto al divorzio in un Paese clericale come l’Italia non ci credeva quasi nessuno. Nel 1878 ci provò il deputato Salvatore Morelli. Nel 1902 il governo Zanardelli elaborò una proposta che però non venne mai approvata.

La legge sul divorzio fu realizzata durante una stagione di diritti: furono gli anni dell’abrogazione del reato di adulterio (’68), del divorzio (’70), della riforma del diritto di famiglia (’75), dell’aborto (’78), dell’abrogazione del delitto d’onore (’81). Ne siamo usciti migliori.

Il punto è proprio questo: i diritti cominciano nel momento in cui si comincia a pretenderli. Non è vero che non siano mai esistiti prima: semplicemente non esisteva qualcuno capace di dire “no” e poi di moltiplicare la sua pretesa. E accade così ancora oggi, ogni volta che qualche conservatore ci vorrebbe dire che ci si “inventa” diritti. I diritti sono lì, sotto la brace per anni, e prima o poi trovano la scintilla. Ed è una brace da tenere con cura perché passano gli anni ma continuano a insistere quelli che vorrebbero negarli, i diritti, esattamente come decenni fa.

Disse Fanfani in merito al referendum sul divorzio, il 26 aprile 1974 a Caltanissetta: «Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva».

Gli auguriamo di avere avuto ragione.

Buon mercoledì.

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“Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego

Igiaba Scego è una scrittrice di origini somale che vive a Roma. Da sempre si occupa di stranieri, di integrazione e di diritti. Il suo ultimo libro è “La linea del colore” edito da Bompiani che ha come protagonista una donna afroamericana dell’ottocento che scopre l’Italia. L’abbiamo intervistata per TPI.

Negli USA è in atto una vera e propria rivoluzione culturale. Lei si occupa da anni di questi temi, come vede la narrazione di ciò che accade?
Due tipi di narrazione. Quella dei media mainstream che non hanno capito niente di quello che sta succedendo: stanno osservando questi movimenti con delle lenti molto vecchie e anche sbagliate. Quando mi tolgo gli occhiali io che sono miope vedo tutto sfocato e molti media mi hanno dato questa stessa sensazione, tranne alcune eccezioni come la giornalista de Il Manifesto Marina Catucci, veramente puntuale, Arianna Farinelli, Martino Mazzonis. Questo mi ha meravigliato perché l’immaginario statunitense è molto popolare, si pensa “almeno li conosciamo” e invece no. Noto la stessa nebulosità che scorgo quando si parla di Africa. Poi per fortuna c’è quella che arriva da giornali e esperti in lingua originale. E devo dire che è quello che mi ha aiutato ad orientarmi. Per esempio non mi perdo mai i commenti della professoressa Ruth Ben Ghiat che da anni ci spiega i meccanismi dello stato americano.

Quale distorsione nota più delle altre?
Questo parlare di saccheggi piuttosto che parlare del cuore del movimento. Molti giornali non hanno raccontato ai lettori cosa c’era prima, quei 400 anni di oppressione. Mancano ponti tra qui e lì. Io sono scrittrice e la stessa cosa la vedo nell’editoria: l’editoria italiana ha pubblicato negli ultimi anni moltissimi afroamericani ma non c’è stato quel passaggio necessario da editoria ai giornali e media in genere che aprisse un sano dibattito su questi libri e permettesse una loro diffusione anche scolastica.

Quindi si è perso ciò che è avvenuto negli anni precedenti, non ci sono stati ambasciatori e ponti. Si arriva così a non capire perché questa lotta è così lunga, non si riflette sulla genesi della schiavitù, questo è un grosso gap scolastico che non ha permesso a molti italiani di capire fenomeni come schiavitù, segregazioni negli USA e perfino lotte per i diritti civili. Pochi hanno letto Toni Morrison, anche tra i professionisti dell’informazione. E quindi mi ha colpito questo indugiare su aspetti marginali senza andare al cuore del problema. Manca una preparazione all’America, io ho visto “molta ignoranza”. Molto non sapere. Quello che si conosce è solo superficiale.

Negli USA il dibattito si è aperto non solo sulla violenza che ha portato per ultimo alla morte di Floyd, ma anche sulla profilazione razziale delle Forze dell’Ordine. C’è un razzismo insito anche nella gestione italiana secondo lei?
Sulla polizia non saprei dirti. Posso dirti che loro, negli USA, hanno questa storia di schiavitù ma da loro anche chi è contro i neri sa cosa è successo mentre in Italia quello che c’è dietro di noi, come il colonialismo, non è molto conosciuto, c’è una rimozione totale e non ci fa capire che quegli stereotipi continuano a agire sui corpi del presente. A me ha sempre colpito come per esempio le leggi italiane sull’immigrazione si basino quasi sempre su un modello astratto, su questo cosidetto altro che non è un potenziale cittadino ma un potenziale suddito coloniale, il modello è quello del sudditto somalo, eritreo o libico dei tempi del colonialismo italiano. si continua cos’ a perpetuare l’idea dello straniero nella legislazione come suddito, una persona senza diritti.

Non è un caso che la Bossi-Fini e i Decreti Sicurezza più la mancata riforma sulla cittadinanza siano delle costanti nella politica italiana, perché vale lo ius sanguinis e non lo ius soli o lo ius culturae, un Paese trincerato nel suo sangue che poi se lo andiamo a “analizzare” storicamente questo famigerato sangue risulta essere è quello più meticcio del mondo. Questo mi sconvolge, questa storia passata mai discussa che si ripresenta in forma di legge e ci incasina il presente, il modello è ancora quello coloniale sarebbe interessantissimo che i giuristi ci lavorassero su questo, su come decolonizzare le leggi perché sono troppo pieni di passato.

Vede dei casi di razzismo endemici in Italia, anche da parte di quelli che non sono consapevolmente razzisti?
Il razzismo in Italia non è solo anti nero ma è anche anti meridionale. Ad esempio due ore fa stavo andando al supermercato, dove due persone stavano litigando e un signore ha detto a una signora “sporca calabrese”. Qui c’è una questione meridionale che è la mamma di tutti i razzismi italiani, quello che è stato fatto al Sud è lo stesso trattamento riservato alle colonie. Quando avevo 25 anni avevo fatto un colloquio di lavoro vestita come sono sempre vestita e la persona che avevo davanti mi ha detto “lei è musulmana, si vede” io gli ho detto “deve farmi colloquio di lavoro” e lui “ma voi volete pause di preghiera e ramadan”: sono uscita e ho pianto, è un razzismo altrettanto umiliante. Ho smesso perché ai tempi mi vedevano e mi dicevano sempre no. Lo vedi dallo sguardo e poi c’è stato tanto razzismo biologico, dalle elementari mi chiamavano sporca negra e mi hanno buttato un barattolo di coleotteri in testa “perché sono neri come te”. Oppure odiavo negli anni ’90, ero ancora adolescente, quando si fermavano le macchine mentre stavo alla fermata ad aspettare il bus e ti facevano vedere i soldi chiedendo sesso orale, perché nera significava prostituta.

Io ho imparato a schivarli anche. Ho imparato a reagire. Mia madre dice che il razzismo non lo combatti urlando, ma lo combatti con la riflessione e la conoscenza anche quando sei nel mezzo del disastro, lei mi ha sempre detto di uscirne con una frase arguta, è l’unico modo. Mia madre, James Baldwin e Malcom X sono stati i miei maestri nell’usare la riflessione, le parole, per questo scrivo. Volevo capire come mai mi succedevano una serie di cose e volevo capire qual era la radice, sempre storica. In tutto questo ho trovato molti alleati, penso alla mia professoressa di italiano alle superiori, ai professori universitari che mi hanno dato strumenti che mi hanno cambiato la prospettiva. Sandro Portelli mi ha insegnato molte cose della vita, con l’Italia che ha tutte l sue complicazioni. Ho applicato la strumentazione che loro hanno applicato alla loro lotta e alla loro riflessione teorica.

Come le sembra il dibattito politico italiano sul tema?
Qui non c’è dibattito. Qui il dibattito è finito con il tradimento sulla legge sulla cittadinanza. Poi si è riesumato un discorso sulle regolarizzazioni molto mercantile. Io ho questa sensazione di tante lotte fatte anche collettive: afrodiscendenti, albanesi, arabi, sudamericani, i loro figli nati qui italiani senza diritti e poi anche moltissimi italiani bianchi… Ecco tutti noi ci siamo ritrovati dal 2005 fino al governo Renzi a lottare in piazza, cambiavano le piazze, c’erano tanti bambini e tecnicamente con le scuole abbiamo lavorato moltissimo (penso a due scuole di Roma in particolare la Pisacane e la Di Donato i cui professori si sono spesi tantissimo per far avere diritti ai loro studenti) , però poi questa lotta è stata tradita da tutto l’arco costituzionale: la destra ha fatto ostruzionismo ma gli altri l’hanno reso possibile ed è una cicatrice che mi fa molto male.

Poi c’è stata la raccolta firme dei Radicali e quella era una buona iniziativa ma poi a causa degli eventi caduta nel vuoto e adesso il dibattito è stato sulle regolarizzazioni perché servivano braccia per l’ortofrutta e basta. Queste persone cadono in irregolarità per un meccanismo della Bossi-Fini, sono ricattabili in situazione di pandemia, dovremmo avere più persone regolari possibili ma così è stato un mercato degli schiavi. Io capisco gli sforzi di chi ha chiesto la regolarizzazione ma il risultato è stato misero. Servirebbe più coraggio: l’Italia non può pensare che sia un tema possibile da scacciare in eterno, il Paese è già cambiato, io alla manifestazione per George Floyd a Roma ero con i miei 46 anni vecchia in confronto a chi è sceso in piazza. Tu vedi che hai seconde e terze generazioni, più di 50 anni di popolazione transculturale che ha varie origini. Ma ancora tutto questo non si trasforma in quotidianità. E come se ci fossero enormi barriere. Così non vedi maestri, autisti dell’autobus, professori con altra origine: alcuni luoghi del lavoro non sono al passo con i tempi. Anche nell’editoria.

Lei è fiduciosa che la lezione che arriva dagli USA possa avere un impatto importante anche qui?
Secondo me quella americana è una grande rivoluzione culturale perché gli afrodiscendenti sono legati tra loro, è una rete, per noi sono un modello e quello che sta succedendo negli Usa è clamoroso, è una rivoluzione culturale, non è solo rabbia per Floyd ma è un momento che è stato preparato negli ultimi 20 anni. Da loro la cultura è sempre stata forte, nella musica nella letteratura, i premi Pulitzer quest’anno molti erano neri e penso al disco di Beyoncè di alcuni anni fa tutto sull’identità nera. Questo forse spingerà pure noi qui ad avere una riflessione più ampia e profonda, probabilmente ci spingerà a produrre più libri, più musica, più film, più lotte sociali e non solo afrodiscendenti, perché l’Italia ha una migrazione a mosaico, complessa, fatta di tante diversità che vanno dall’Est Europa al Sudamerica.

Già vedo dei talenti per esempio del giornalismo come Angelo Boccato e Adil Mauro che non parlano solo di immigrazione o della loro identità, ma usano il loro sguardo per riflettere sui nodi della società. Adil e Angelo mi fanno ben sperare per il futuro. Ma ecco tutto deve partire da una riflessione anche storica che attraversa il dolore che abbiamo provato, In Italia nel 1979 un uomo somalo, Ahmed Ali Giama, in piazza della Pace a Roma è stato bruciato viva e Giacomo Valent nel 1985 è stato ucciso con 63 coltellate, era il fratello della prima eurodeputata nera Dacia Valent, ho scritto per Feltrinelli su questo (“Politica della violenza”, Feltrinelli Editore). In Brasile c’è stata Marielle Franco e ognuno sta producendo cultura e rivendicazioni partendo dalle proprie ferite, dai propri martiri e chiaramente questo momento rimarrà a lungo e potrà provocare cambiamenti perché i cambiamenti sono sempre prima culturali e poi sociali.

Leggi anche: 1. Quanti contagi possono causare le proteste in Usa? Un virologo ha provato a calcolarlo / 2. Si sposano in mezzo alla protesta per George Floyd a Philadelphia: “È stato ancora più memorabile” /3.  George Floyd, Minneapolis smantella il dipartimento di polizia: “Vogliamo un nuovo modello di sicurezza” /4. Banksy e l’omaggio a George Floyd: “Il razzismo è un problema dei bianchi”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Non ci si scusa per il dolore che si prova

Mi hanno colpito le parole di Valeria Kadija Collina, madre di Youssef, uno degli attentatori di Londra. Mi ha colpito, moltissimo, quella loro casa a Castaello si Serravalle, paese di provincia dell’entroterra bolognese: fiori curati ai lati del vialetto in giardino.

“Mio figlio me lo ha portato via l’ignoranza e la cattiva informazione. Il cattivo Islam e il terrorismo sono questo. Ignoranza e cattiva informazione”, dice nella sua intervista a Repubblica Valeria: ha fatto una cosa “atroce”, che “non può e non deve essere giustificata”. E ha provocato un dolore talmente grande “che chiedere perdono ai familiari delle vittime sembra quasi banale”.

Racconta di come, da madre, ha perso contatto con il proprio figlio: Quando mi parlava della Siria e del fatto che voleva trasferirsi in quel Paese, non lo diceva certo perché volesse andare a combattere per l’Isis, ma perché sosteneva che in quella parte del mondo si poteva praticare l’Islam puro e perché voleva mettere su famiglia. Lo diceva sorridendo e io sorridendo gli divevo che era fuori di testa e che io non lo avrei seguito mai perché stavo bene dove sono”. Poi il cambiamento: “La radicalizzazione secondo me è avvenuta in Marocco attraverso internet e poi a Londra, frequentando gente che lo ha deviato facendogli credere cose sbagliate. Suo padre è un moderato, sua sorella non ha abbracciato la nostra fede, nessuno nella nostra famiglia è vicino in alcun modo con quel mondo fatto di stupidi radicalismi”.

E sembra, ad ascoltarla, una storia così simile alle tante che ci capita di leggere quando ci sono madri che si arrendono alla disperazione di non essere riuscite a salvare i proprio figli dalla droga, dal malaffare o dalle mafie: ha lo stesso dolore , lo stesso colore e la stessa naturale (seppur ferocissima) tragica fine.

Così, di colpo, il terrorismo assume anche una dimensione nuova e così lontana dalla retorica degli analisti di prima mano e cola una disperazione folle e pericolosa come tutte le disperazioni.

Buon giovedì.

(continua su Left)

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai.

Da leggere Igiaba Scego, fino in fondo:

«Ma qui in occidente ogni musulmano è potenzialmente colpevole, ogni musulmano è considerato una quinta colonna pronta a radicalizzarsi. Il fatto non solo mi offende, ma mi riempie anche di stupore. Sono meravigliata di quanto poco si conosca il mondo islamico in Italia. L’islam è una religione che conta più di un miliardo di fedeli. Abbraccia continenti, paesi, usanze diverse. Ci sono anche approcci alla religione diversi. Ci sono laici, ortodossi, praticanti rigorosi, praticanti tiepidi e ci sono persino atei di cultura islamica. È un mondo variegato che parla molte lingue, che vive molti mondi. Andrebbe coniugato al plurale.

Il mondo islamico non esiste. È un’astrazione. Esistono più mondi islamici che condividono pratiche e rituali comuni, ma che sul resto possono avere forti divergenze di opinioni e di metodi. E poi, essendo una religione senza clero, per forza di cose non può avere una voce sola. Non c’è un papa musulmano o un patriarca musulmano. L’organizzazione e il rapporto con il Supremo non è mediato. Inoltre, bisogna ricordare che i musulmani (o più correttamente, le persone di cultura musulmana) sono le prime vittime di questi attentati terroristici. È chiaro che la maggior parte della gente, di qualsiasi credo, è contro la violenza. A maggior ragione chi proviene da paesi islamici dove questa furia brutale può colpire zii, nipoti, fratelli, sposi, figli.

Not in my name, lo abbiamo gridato e scritto molte volte. Ci siamo distanziati. Lo abbiamo urlato fino a sgolarci. Lo abbiamo fatto dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, dopo la strage al Bataclan di Parigi o quella nell’università di Garissa in Kenya. Lo facciamo a ogni attentato a Baghdad, a Damasco, a Istanbul, a Mogadiscio. E naturalmente abbiamo fatto sentire la nostra voce dopo Dhaka. Ma ora dobbiamo entrare tutti – musulmani, cristiani, ebrei, atei, induisti, buddisti, tutti – in un’altra fase. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di schierarsi contro le ambiguità del tempo presente.

Il nodo è geopolitico, non religioso. Un nodo aggrovigliato che va dalla Siria al Libano, dall’Arabia Saudita allo Yemen, passando per l’Iraq e l’Iran fino ad arrivare in Bangladesh e in India. Un nodo fatto di vendite di armi, traffici illeciti, interessi economici, finanziamenti poco chiari. E se proprio dobbiamo schierarci, allora facciamolo tutti per la pace. Serve pace nel mondo, pace in Siria, in Somalia, in Afghanistan e non solo. Serve un nuovo impegno per la pace, una parola che per troppo tempo non abbiamo usato, anzi che abbiamo snobbato come utopica. Serve un nuovo movimento pacifista. Servono politiche per la pace. Serve la parola pace coniugata in tutti i suoi aspetti.

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai. L’unica che può farci uscire da questa cappa di sospetto e di paura.»

(fonte)

“Non credo al potere, e ripudio perfino la fantasia se minaccia d’occuparlo.” (di Marco Pannella)

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Carissimo Andrea,
mi chiedi una “prefazione” a questo tuo libro. L’ho letto e riletto per settimane, compiendo i gesti della preparazione a una critica, a un giudizio, a una presentazione, a questa apparente ed ennesima mia complicità o connivenza con qualcuno di voi. Annoto allora quel che mi par buono, ed è molto; quello da cui dissento, che non è poco; ricorro alle categorie di bello e di brutto e trovo bei racconti, davvero, come belle sono tante pagine, passi, annotazioni cui dà ogni tanto risalto per contrasto il “brutto” della proclamazione ideologika-klassista, residuo obbligato del borghesaccio che eri e che come tutti noi rischi di tornare a essere, preoccupazione tua e di tanti altri anziché occupazione piena e creativa; proclamazione, insomma, in luogo di azione di classe. Cerco di comprendere perché mi hai chiesto questo servizio, per meglio adempierlo, umilmente e se possibile efficacemente, da compagno che accetta e vuole accrescere i labili o inadeguati motivi comuni di fiducia e di solidarietà. Non ci riesco. (…)
Tu sei un rivoluzionario. Io amo invece gli obiettori, i fuori-legge del matrimonio, i capelloni sottoproletari anfetaminizzati, i cecoslovacchi della primavera, i nonviolenti, i libertari, i veri credenti, le femministe, gli omosessuali, i borghesi come me, la gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione. Amo speranze antiche, come la donna e l’uomo; ideali politici vecchi quanto il secolo dei lumi, la rivoluzione borghese, i canti anarchici e il pensiero della Destra storica. Sono contro ogni bomba, ogni esercito, ogni fucile, ogni ragione di rafforzamento, anche solo contingente, dello Stato di qualsiasi tipo, contro ogni sacrificio, morte o assassinio, soprattutto se “rivoluzionario”. Credo alla parola che si ascolta e che si dice, ai racconti che ci si fa in cucina, a letto, per le strade, al lavoro, quando si vuol essere onesti ed essere davvero capiti, più che ai saggi o alle invettive, ai testi più o meno sacri e alle ideologie. Credo sopra a ogni altra cosa al dialogo, e non solo a quello “spirituale”: alle carezze, agli amplessi, alla conoscenza come a fatti non necessariamente d’evasione o individualistici – e tanto più “privati” mi appaiono, tanto più pubblici e politici, quali sono, m’ingegno che siano riconosciuti. Ma non è questa l’occasione buona per spiegare ai tuoi lettori cosa sia il Partito radicale; andiamo avanti.
Non credo al potere, e ripudio perfino la fantasia se minaccia d’occuparlo. Non credo ai “viaggi” e sarà anche perché i “vecchi” ci assicurano sempre che “formano” (a loro immagine) i “giovani”, come l’esercito e la donna-scuola. Non credo al fucile: ci sono troppe splendide cose che potremmo/potremo fare anche con il “nemico” per pensare a eliminarlo. E voi di “Re nudo” dite: “tutto il potere al popolo”, “erba e fucile”. Non mi va. Lo sai, non sono d’accordo.
Brucare, o fumare erba non m’interessa per la semplice ragione che lo faccio da sempre. Ho un’autostrada di nicotina e di catrame dentro che lo prova, sulla quale viaggia veloce quanto di autodistruzione, di evasione, di colpevolizzazione e di piacere consunto e solitario la mia morte esige e ottiene. Mi par logico, certo, fumare altra erba meno nociva, se piace, e rifiutare di pagarla meno cara, sul mercato, in famiglia e società, in carcere. Mi è facile, quindi, impegnarmi senza riserve per disarmare boia e carnefici di Stato, tenutari di quel casino che chiamano “l’Ordine”, i quali per vivere e sentirsi vivi hanno bisogno di comandare, proteggere, obbedire, torturare, arrestare, assolvere o ammazzare, e tentano l’impossibile operazione di trasferire i loro demoni interiori (di impotenti, di repressi, di frustrati) nel corpo di chi ritengono diverso da loro e che, qualche volta (per fortuna!), lo è davvero. Ma fare dell’erba un segno positivo e definitivo di raccordo e speranza comuni mi par poco e sbagliato. Né basta, penso, aggiungervi come puntello il vostro “fucile”.
La violenza dell’oppresso, certo, mi pare morale; la controviolenza “rivoluzionaria”, l’odio (“maschio” o sartrianamente torbido che sia) dello sfruttato sono profondamente naturali, o tali, almeno, m’appaiono. Ma di morale non m’occupo, se non per difendere la concreta moralità di ciascuno, o il suo diritto ad affermarsi finché non si traduca in violenza contro altri; e quanto alla natura penso che compito della persona, dell’umano, sia non tanto quello di contemplarla o di descriverla quanto di trasformarla secondo le proprie speranze. Insomma, quel che vive, quel che è nuovo è sempre, in qualche misura, innaturale.
Perciò non m’interessa molto che la vostra violenza rivoluzionaria, il vostro fucile, siano probabilmente morali e naturali, mentre mi riguarda profondamente il fatto che siano armi suicide per chi speri ragionevolmente di poter edificare una società (un po’ più) libertaria, di prefigurarla rivoluzionando se stesso, i propri meccanismi, il proprio ambiente e senza usar mezzi, metodi, idee che rafforzano le ragioni stesse dell’avversario, la validità delle sue proposte politiche, per il mero piacere di abbatterlo, distruggerlo o possederlo nella sua fisicità.
La violenza è il campo privilegiato sul quale ogni minoranza al potere tenta di spostare la lotta degli sfruttati e della gente; ed è l’unico campo in cui può ragionevolmente sperare d’essere a lungo vincente. Alla lunga ogni fucile è nero, come ogni esercito e ogni altra istituzionalizzazione della violenza, contro chiunque la si eserciti, o si dichiari di volerla usare.
Se la lotta rivoluzionaria presupponesse davvero necessariamente: morte di compagni, il loro “sacrificio” e questa esemplarità, la “presa” del potere; e, a potere preso, o nelle more della conquista, il ripetere contro i nemici i gesti per i quali io sono loro nemico, gesti di violenza, di tortura, di discriminazione, di disprezzo, consideratemi pure un controrivoluzionario, o un piccolo borghese da buttar via alla prima occasione.
Non sono, infatti, d’accordo. L’etica del sacrificio, della lotta eroica, della catarsi violenta mi ha semplicemente rotto le balle; come al “buon padre di famiglia”, al compagno chiedo una cosa prima d’ogni altra: di vivere e d’essere felice. Penso, personalmente, che avendo un certo bagaglio di speranze, di idee e di chiarezza non solo questo sia possibile, ma che non vi sia altro modo per creare e vivere davvero la felicità. Ma esser “compagno” (come esser padre) non è scritto nel destino né prescritto dal medico. Se le vie divergono, lo constateremo e cercheremo di comprendere meglio. Ma basta con questa sinistra grande solo nei funerali, nelle commemorazioni, nelle proteste, nelle celebrazioni: tutta roba, anche questa, nera: basta con questa “rivoluzione” clausevitziana, con le sue tattiche e strategie, avanguardie e retroguardie, guerre di popolo e guerre contro il popolo, di violenza purificatrice e necessaria, di necessarie medaglie d’oro; la rivoluzione fucilocentrica o fucilocratica, o anche solo pugnocentrica o pugnocratica non è altro che il sistema che si reincarna e prosegue. Non solo il “Re” ma anche questa “Rivoluzione” vestita di potere e di violenza è nuda, Andrea. Tollera ch’io lo scriva nel tuo libro, se questa lettera sarà accolta come prefazione. E tollera molto altro…
Siete, sei “antifascista”, antifascista della linea Parri-Sofri, lungo la quale si snoda da vent’anni la litania della gente-bene della nostra politica. Noi non lo siamo. Quando vedo nell’ultimo numero di “Re nudo”, ultima pagina, il “recupero” di un’“Unità” del 1943 con cui si invita ad ammazzare il fascista, dovunque capiti e lo si possa pescare, perché “bisogna estirpare le radici del male”, ho voglia di darti dell’imbecille. Poi penso che tutti sono d’accordo con te, tranne noi radicali, e sto zitto, se non mi costringi, come ora, a parlare e a scrivere. Capisco le vostre ragioni: anche voi dovete dimostrare (a voi stessi?) che il Pci è oggi degenerato; che ieri era meglio d’oggi; che quando aveva armi e potere rivoluzionario era più maschio, più coraggioso, più duro e puro. Invece (come Partito, qui non parliamo dei “comunisti”) era semmai, peggio, perfino molto peggio d’oggi. Comunque non era migliore sol perché teorizzava qua e là l’assassinio politico e popolare come atto di igiene e di garanzia contro “il male”. Per chi l’ha ammazzato, certamente, Trotzkij era peggio e più schifoso d’un fascista, e ancor più profonda radice del male. Ma, per voi che riesumate, a onta dell’“Unità” di oggi, quella di ieri, credendo di legarvi così alle tradizioni di classe, popolari, operaie, non c’era davvero nulla di meglio da recuperare che questi concetti controriformistici, barbari, totalitari, contro le “radici del male”?
Tu che hai “compreso”, ti sei sentito “compagno” di Notarnicola (e hai fatto bene); tu che hai vissuto almeno quanto me fra sottoproletari, paria, emarginati, come puoi non comprendere il fascismo di questo antifascismo? Come puoi, ancora, sopportare l’inadeguatezza dell’ingiuria, dell’insulto, del disprezzo, del manicheismo dozzinale, classista, non laico, fariseo, nello scontro di classe che cerchiamo di vivere e di sostenere, nel viver diverso e nuovo che presuppone e che genera? Perché, anche tu, fra fucile, antifascismo e poteri-al-popolo-a-pugno-chiuso, continui a vivere di quella vecchia nuova-sinistra che così puntualmente e efficacemente denunci nel libro?
Come noi radicali, voi renudisti sostenete che non esistono dei “perversi”, ma dei “diversi”. Nelle famiglie, nelle scuole, nelle fabbriche o negli uffici perfino i torturatori sono anch’essi, in primo luogo e, generalmente delle vittime. Tranne che per certi psikanalisti, uccidere il padre non è la soluzione, non aiuta a superare l’istituzione, la famiglia; o non basta e non è comunque necessario.
Sosteniamo, insieme, che non esistono nelle carceri, negli ospedali, nei manicomi, nelle strade, sui marciapiedi, nei tuguri, nelle bidonville, dei “peggiori”, ma anche lì, dei “diversi” malgrado la miseria (che è terribile proprio perché degrada, muta, fa degenerare: e se no, perché la combatteremmo tanto?), malgrado il lavoro che aliena (che rende “pazzi”), malgrado che lo sfruttamento classista sia “secolare”, quindi incida sull’ereditarietà. Sognamo – e v’è rigore e responsabilità nei nostri sogni – una società senza violenza e aggressività o in cui, almeno, deperiscano anziché ingigantirsi e esservi prodotte. Sosteniamo che è morale quel che tale appare a ciascuno. Lottiamo contro una “giustizia” istituzionale (e “popolare”) che ovunque scambia diversità per perversione, dissenso per peccato.
Come possiamo, allora, recuperare proprio in politica, nella vita di ogni giorno nella città, il concetto di “male”, di “demonio”, di “perversione”? Quel che voi chiamate “fascista” si chiama “obiettore di coscienza”, “divorzista”, “abortista”, “corruttore radicale”, “depravato”, per altri. La “stella gialla” dei ghetti è un emblema terribile, ma non meno per chi l’impone che per chi l’indossa. Ma chi sono, poi, questi “fascisti” contro i quali da vent’anni vi costituite (non dirmi che non c’entri, che sei troppo giovane: qui parliamo di generazioni politiche, le uniche che contino), in unione sacra, in tetro e imbelle esercito della salvezza?
Mussolini, Vittorio Emanuele III, Farinacci, i potenti che seppero imporre un regime vincente, senza più vera opposizione, qual era il fascismo in Italia, furono spazzati via dalla guerra; senza la quale essi sarebbero ancora al potere come i Franco e i Salazar. Furono abbattuti solo perché ritennero che, entrando nel conflitto, avrebbero guadagnato “con poche migliaia di morti” il diritto di sedersi al tavolo della pace dalla parte dei vincitori.
Il vero fascismo fu il loro, non quello della Rsi; nato morto, senza potere autonomo. Dal 1948, in Italia, tutte le forze politiche si sono mobilitare per “ricostruire lo Stato”: questa “ricostruzione” fu la bandiera degli anni cinquanta. In questa ricostruzione che continua ininterrotta, in questa oppressione che si è riaffermata, che ha ritrovato la sua continuità e aumentato la sua forza, dove sono mai i “fascisti” se non al potere e al governo? Sono i Moro, i Fanfani, i Rumor, i Colombo, i Pastore, i Gronchi, i Segni e – perché no? – i Tanassi, i Cariglia, e magari i Saragat, i La Malfa. Contro la politica di costoro, lo capisco, si può e si deve essere “antifascisti”, cioè “antidemocristiani”. Noi radicali lo siamo. Lo sono anch’io, il più laicamente e spassionatamente, cioè il più chiaramente e duramente, possibile.
Poiché non siamo fatti di sola razionalità, verso e contro costoro è giusto che anche la nostra emotività venga mobilitata, secondata. Quanto di sdegno, d’istinto, possiamo avere non può che essere pienamente indirizzato contro i successori reali, storici, del fascismo dello Stato. Questo, e non l’altro, è il concreto fronte politico sul quale oggi si lotta.
Invece, sotto la bandiera antifascista, si prosegue una tragica operazione di digressione. Come se, negli anni in cui il fascismo si affermava, si fossero mobilitate le energie democratiche e popolari innanzitutto contro i Dumini e gli altri assassini materiali di Matteotti, dei Rosselli, degli antifascisti; o se pensassimo davvero che fu “fascismo” quello dei ragazzi ventenni che casualmente e “stupidamente” indirizzarono la loro generosità e la loro sete di sacrificio verso la Repubblica sociale, divenendo poi “oggettivamente” sicari dei tedeschi e dei nazisti, assassini e torturatori. Scatenando, rilanciando la caccia contro gli Almirante e gli altri ausiliari di classe, di chiesa, di Stato, facendone i demoni, dando loro dignità di “male”, dirottando sdegno, rabbia, rivolta, contro di loro, servite oggettivamente il potere, il fascismo, quali oggi concretamente vivono e prosperano nel nostro paese. In tutta questa vostra storia antifascista non so dove sia il guasto maggiore: se nel recupero e nella maledizione d’una cultura violenta, antilaica, clericale, classista, terroristica e barbara per cui l’avversario deve essere ucciso o esorcizzato come il demonio, come incarnazione del male; o se nell’indiretto, immenso servizio pratico che rende allo Stato d’oggi e ai suoi padroni, scaricando sui loro sicari e su altre loro vittime la forza libertaria, democratica, alternativa e socialista dell’antifascismo vero. Il fascismo è cosa più grave, seria e importante, con cui non di rado abbiamo un rapporto di intimità. Altro che roba da “vietare” con la “legge Scelba” (serve a “sciogliere” la Dc?), da reprimere con qualche denuncia a qualche carabiniere, per legittimare meglio la funzione antioperaia, o da linciare a furor di popolo! Il rapporto fra fascismo-capitalismo e sinistra è complesso, allarmante, incombente, presente, ambiguo, da oltre cinquant’anni, 1973 compreso.
Ma basta. Se tutto quello su cui sono andato scrivendo finora ci divide, Andrea, nulla di ciò è essenziale nel tuo libro, o nell’esistenza che vi si affaccia e si esprime, e che conosco. Tu, a Milano, noi altrove, abbiamo dovuto e forse saputo, ogni giorno per anni quanto lunghi, inventare tutto, rifiutare ogni strumento esistente, ogni scorciatoia, ogni facilità, per poter avanzare almeno di un poco. I mezzi che ci si offrivano già pronti, che facevano la forza apparente di tanti altri, non erano omogenei, non prefiguravano quel che cerchiamo, e cerchiamo di costruire.
La fantasia è stata una necessità, quasi una condanna, piuttosto che una scelta; sembrava condannarci a esser soli, voi lì, noi ancora più sparsi e con più fronti addosso. Così abbiamo parlato come abbiamo potuto e dovuto, con i piedi, nelle marce, con i sederi, nei sit-in, con gli happening continui, con erba o con digiuni, obiezioni che sembravano “individuali” e “azioni dirette” di pochi, in carcere o in tribunale, con musica o con comizi, ogni volta rischiando tutto, controcorrente sapendo che un solo momento di sosta ci avrebbe portato indietro di ore di nuoto difficile, troppo spesso considerati “diversi” dai compagni e colmi invece d’attenzioni continue, di provocazioni, di colpi da parte dei pula e non dei minori.
Abbiamo durato, rifiutando di sopravvivere, ricominciando sempre, facendo anche delle sconfitte materia buona per dar volto e corpo alle nostre testarde, e alla fine semplici e antiche, speranze. Noi abbiamo colto qui qualche successo che tutti ora riconoscono. Tu anche, ma eri più solo. Ho sempre pensato a te come a un compagno impegnato in un’opera comune, in lotte necessariamente convergenti e da organizzarsi insieme. Tu no, è questa la differenza. Quando accettai, e tenni a lungo, la “direzione responsabile” di “Re nudo”, fra decine d’altre, non era per abitudine, o con indifferenza. Non eri un nome di più, un ennesimo compagno di un’ora o d’una occasione. Un compagno assente, certo. L’altra faccia del tuo libro, vorrei che tu lo comprendessi, sono le lotte che abbiamo dovuto condurre senza di te, su cui era giusto e naturale contare, perché le condividevi e le condividi. Le battaglie per i diritti civili sono mancate a tutto il Movimento: un inconsapevole razzismo di generazione, un rifiuto di “politica” (quella senza kappa) un po’ da struzzi, in proposito, un rozzo paleo-marxismo (in moltissimi, non in te), un’indifferenza che era cecità dinanzi a concreti scontri di classe e libertari, hanno fatto strage soprattutto a Milano. (…)

(Marco Pannella, prefazione a “Underground: a pugno chiuso” (Arcana editrice) scritto da Andrea Valcarenghi, 1973)

L’ineleggibile. Del PD.

Se avete tempo e voglia andate a rileggervi questo post (che mi hanno contestato in molti, “alleati”, del resto).

Poi leggete la notizia qui e il comunicato stampa del consigliere regionale del PD Angelo Costanzo che dice:

“Sono sereno – dichiara – perché i 5mila 642 voti che ho ottenuto sono arrivati per consenso politico e radicamento sul territorio e nulla hanno a che fare con la mia presenza nel Consiglio di amministrazione dell’Aler. Il problema sorto sulle mie dimissioni dall’Aler non fa venire meno il consenso avuto. Un risultato, arrivato nelle elezioni regionali nel marzo del 2010 dopo anni d’impegno sociale e politico. Questa è la verità e lo sanno anche gli esponenti del Partito Radicale che dopo un anno dalla mia elezione hanno proposto un ricorso sulla base di una normativa che prevede l’ineleggibilità di candidati che ricoprono cariche nei Consigli di amministrazione di enti regionali perché potrebbero trarne vantaggio rispetto ad altri candidati. Da lì non ho tratto nessun vantaggio. Spiace che i Radicali, con la loro azione, facciano venire meno la rappresentanza del territorio di un esponente dell’opposizione che in questi due anni e mezzo ha fatto del proprio meglio per svolgere il proprio lavoro con serietà e impegno, come a volte è stato riconosciuto anche dagli esponenti della maggioranza”.

Ora, Angelo Costanzo è un collega serio, impegnato e competente. Uno di quelli che nel Consiglio Regionale della Lombardia fa bene il suo lavoro e (secondo me) rende onore ai bisogni dei cittadini lombardi.

Ma qualcuno mi spieghi perché poi abbiamo un atteggiamento bifronte sulle firme false di Formigoni a cui il celeste sempre risponde mettendoci di fronte i voti che sono arrivati per consenso politico e radicamento sul territorio. Dice così anche lui.

Perché dobbiamo metterci d’accordo sul rispetto delle regole. O sì o no. E secondo me sono ineleggibili coloro che non rispettano le regole. Punto. Anche se tra Formigoni e Costanzo mi auguro di avere solo il secondo, presto, nella prossima Regione Lombardia.

Radicali liberi

Sono d’accordo con Massimo sulla sfacciata passeggiata di Pannella tra il corteo di Roma. “È molto evidente l’intento provocatorio dell’anziano politico, un misto di sfacciataggine, non violenza, pelo sullo stomaco ed aterosclerosi. Poi immediatamente dopo mi colpisce la violenza e la mancanza di freni inibitori dei suoi contendenti che fa disperare sul futuro di questo paese: che per sputare in faccia di un uomo di 80 anni ce ne vuole”.