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R. Stampa politica

Che stampa?

Da qualche giorno, al mattino, provo a scorrere la rassegna stampa. Tutta. Buttando l’occhio anche su quei quotidiani che difficilmente, per sensibilità, mi potrebbe capitare di leggere.

Ciò che mi colpisce di più sono le notizie false. False, completamente. Notizie che non sono una lettura, anche forzata, della realtà ma che non corrispondono al vero. Poi ovviamente ci sono i toni ma sul bullismo lessicale di una certa stampa a braccetto con una certa parte politica direi che purtroppo non c’è la novità, purtroppo.

E allora, da qualche mattina, su twitter mi ci metto a mettere in fila qualche articolo o qualche titolo come una radiografia quotidiano di ciò che si stampa.

Ecco, vi do una notizia: c’è il “popolo del web”, lì fuori dal web.

Ecco la rassegna di oggi. Se piace e se serve proviamo a ritagliarci il tempo di farlo tutti i giorni.

 

«Scriverlo è stato salvifico»: una mia intervista su #Santamamma (e non solo)

(di Erika Pucci per VersiliaToday, fonte)

Sabato 22 Aprile lo scrittore e regista teatrale Giulio Cavalli ha incontrato i lettori alla libreria “La Vela” di Viareggio presentando per la prima volta in assoluto il suo ultimo libro “Santamamma” (Fandango, 2017). Un libro autobiografico in cui l’autore racconta la propria storia di figlio adottivo, bambino prodigio, “eroe” della legalità, gli anni della scorta fino al ritrovamento del proprio fratello. Condivisione e identità sono i due grandi temi di una storia appassionante e onesta. Il pubblico de “La Vela” ha accolto con calore, interesse e emozione l’autore. Prima dell’incontro ho rivolto a Giulio alcune domande per i lettori di Versilia Today.

Santamamma” a differenza di altri tuoi libri, ha la crudeltà dell’autobiografia. Quanto ti è costato scrivere questo libro e quali sono le motivazioni che ti hanno spinto a farlo?

Scrivere il libro non mi è costato, è stato salvifico, anche se sembra spigoloso e feroce per me è stato confortevole, prima di tutto. Perché sono nato come racconta storie e non come autore da inchiesta: con “Santamamma” sono tornato a fare il mio lavoro. Ho la fortuna di avere un pubblico che è molto più sensibile di me a ciò che mi riguarda, pertanto questo romanzo non è una risposta ma una domanda. Per esprimerlo con una citazione

” si vive soltanto nei momenti in cui si rivive qualcosa che si è vissuto nell’infanzia”.

Il tuo sito è uno spazio ben organizzato e efficace delle molteplici attività in cui sei impegnato, soprattutto emerge in modo deciso e convincente l’assoluta simbiosi tra parole e azioni nei vari temi in cui hai combattuto battaglie in prima linea: attraverso il tuo lavoro teatrale e di scrittore e giornalista, cosa significa impegno civile?

In un momento della mia vita mi hanno fatto credere che la mia complessità fosse un problema e io sono sempre stato innamorato della complessità. Sfogo nel giornalismo abusivo ciò che non riesco a esprimere nel palcoscenico così come nella scrittura di romanzi. Tra le azioni di cui sono fiero c’è quella di rivendicare la mia complessità. Il sito è lo spazio più libero da questo punto di vista. La scrittura è ciò che mi fa stare bene, è prendermi cura di me.

Recentemente il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini, con cui avevi scritto il monologo “L’isola che c’è“, ha ricevuto il premio Unesco per la pace. Che valore ha oggi la politica dell’accoglienza, ribadita dal riconoscimento, per il nostro Paese e per l’Europa?

L’Italia avrebbe potuto essere un avamposto culturale come è stata nei secoli, il tema non è l’accoglienza ma l’ umanità, quello che ritengo prioritario è un’impermeabilizzazione morale per gli stenti di questi tempi. Un grande intellettuale del nostro tempo ebbe una grande intuizione, Vittorio Arrigoni, e mi chiedo come racconterebbe questo tempo “restando umani”? Il premio a Giusi è importante, ci dovrebbe costringere a riflettere sulla cordialità nel senso letterale del termine ossia di sentire col cuore. Giusi ne è l’ultima testimone.

A seguito del fermo in Turchia del giornalista Gabriele del Grande sei stato tra i primi a prendere una posizione netta sul tema con un articolo in cui sottolineavi che la liberazione di Gabriele e il suo lottare per essa riguarda tutti. Perché?

C’è un aspetto personale in questa mia scelta ossia l’ enorme lutto che ho vissuto per Vittorio Arrigoni, conosciuto al grande pubblico da morto e infangato. Vittorio, Gabriele sono troppo poco ottundibili: l’ho vissuto sulla mia pelle che in certe circostanze sei preda dei cannibali non per quel che sei o che hai fatto ma per quel che ti è successo. E questo capita spesso quando scrivi, lavori fuori dai circuiti “istituzionali”: da questo l’ urgenza di scrivere subito di Gabriele, scrivere significava frenare i meccanismi che si erano attivati con Arrigoni e Baldoni. Fuori dai circuiti istituzionali: l’ urgenza di scrivere significava frenare subito i meccanismi che si erano attivati con Arrigoni e Baldoni. La fidelizzazione col pubblico.

Come sai qui a Viareggio siamo a pochi passi da S. Anna di Stazzema, luogo di eccidio nazista e famosa anche per gli incartamenti finiti nell’armadio della vergogna. Sulla tua bio ti definisci “Partigiano”: cosa significa oggi per te questo?

Partigiano oggi è colui che decide esattamente da che parte stare, che è uno dei vizi che ci chiedono di non frequentare. Essere partigiani significa non pensare che esistono storie o cose su cui non abbiamo diritto di parlare. Scegliere, dire la propria significa perdere ogni volta una parte di pubblico. A seguito della scorta che mi è stata assegnata mi sono ritrovato un grande pubblico, come accadde a Saviano che stimo ma di cui non condivido le ultime scelte. La fidelizzazione del pubblico è importante per chi sceglie da che parte stare.

Fra le varie attività che porti avanti c’è l’assiduo contatto con le generazioni più giovani attraverso gli interventi nelle scuole. Di cosa hanno “fame” i ragazzi che incontri?

Hanno fame di autenticità e incontrare i ragazzi soprattutto delle scuole professionali è il modo migliore per testare te stesso. Loro non ci cascano, con loro non puoi barare. Le scuole di frontiera mi piacciono. Spesso sono frequentate da alunni provenienti da altri paesi, da altre storie e strade che credono ancora nell’istruzione perché vedono l’ usibilità del sapere, cerco, se possibile, di evitare i licei classici.

Per finire tornando al libro: “Santamamma” è edito da Fandango, che è anche una casa di produzione cinematografica importante, è previsto un film tratto dal tuo romanzo?

Il romanzo drammaturgicamente si presta a diventare un film.

Sono quasi le 18,00, l’ora di andare in libreria. Per tutto il tempo dell’intervista gli occhi di Giulio Cavalli hanno brillato di onestà a confermare con lo sguardo ogni parola detta. Per tutto il tempo dell’intervista mentre muoveva le mani nel raccontarsi le parole “Stay Human “ tatuate sul suo polso ci hanno accompagnato così come nell’intenso incontro che Giulio ha avuto col suo pubblico in libreria. Forse sono proprio quelle parole, tatuate anche oltre la pelle, che rendono i suoi libri, le sue chiacchierate, i suoi monologhi, i suoi articoli, le sue parole così penetranti e necessari.

Mafia, antimafia, politica e calcetto: una mia piccola intervista

Mirco Sirignano mi ha intervistato qualche giorno fa per Italianews24. Ecco qui:

Giulio Cavalli, “per brevità chiamato artista”. È un attore, scrittore, regista, giornalista e politico, da anni impegnato soprattutto nel raccontare le mafie al nord. Dopo un suo spettacolo, nel 2009, gli viene assegnata la scorta. Ma questa per lui è solo una delle “caratteristiche meno interessanti poiché non è un pregio, non è un vizio o un difetto ma solo una conseguenza”. Ha pubblicato di recente il suo ultimo romanzo, Santamamma (Fandango Libri).

Giulio Cavalli, scrittore, attore, regista, politico impegnato soprattutto contro le mafie. Ne parla nei tuoi libri, nei suoi spettacoli. A che punto è il suo racconto?

Se parliamo di risultati, io credo che abbiamo fatto passi da gigante. Senza fare filosofia, vivo in un territorio in cui dicevano che la mafia non esistesse e finisco sotto scorta perché minacciato dalla mafia (quindi per una cosa che non c’è). Poi però, in quello stesso territorio (Lombardia, nda), mi capita spessissimo di andare nelle scuole, che ritengono l’educazione alla legalità, la conoscenza dei temi mafiosi e antimafiosi, davvero indispensabile. E quindi secondo me uno scatto c’è stato. L’aspetto triste della vicenda è che, ancora una volta, lo scatto è stato solo sociale. Tutto ciò che politicamente è stato fatto, nasce sulla spinta di un movimento sociale che ha obbligato la politica a prendere, o simulare di prendere, posizione. E questo è un pessimo segnale.

Ecco, storicamente al nord le mafie non sono percepite come un problema serio e reale. E’ cambiato il vento?

Sicuramente un’evoluzione c’è stata. Il problema è che ancora oggi il tema mafia non si riesce a declinarlo. Mi sembra incredibile che la politica non capisca che parlare di diritti significa parlare anche di mafie. E parlare di crescita economica, di sviluppo del mondo del lavoro, significa anche parlare di mafie. Invece molto spesso il tema è chiuso in un angolo. È solo una delle bandierine che tutti i movimenti politici vogliono avere.

Qual è il ruolo che gioca il teatro nel racconto delle mafie?

La politica prende decisioni quando semplicemente è troppo impopolare far finta di niente. E quindi il mio ruolo è quello di rendere pop (nel senso pulito del termine) l’indignazione e la pretesa di un’azione politica. Credo soprattutto nel mezzo teatrale, perché ci permette di avere un’attenzione di ascolto che molti altri mezzi non hanno. Oggi il teatro è lo spazio dell’approfondimento.

Già da qualche anno ha intrapreso un percorso politico. Per Lei è stato un passaggio naturale, quello dell’impegno politico, oppure è stato sofferto? Perché magari chi come Lei proviene dal mondo della cultura, sui due binari, quello della politica e quello (appunto) della cultura, si viaggia a velocità diverse.

Il mio è un lavoro molto politico. Perché alla fine, sia che avvenga su un palcoscenico, con un romanzo o con un articolo giornalistico, le mie attività auspicano sempre un cambiamento generale. E le trasformazioni sociali sono politiche. Dal punto di vista dell’esperienza istituzionale, credo di avere fatto molta più politica con la mia professione che da consigliere regionale. Ma questo perché sono convito che ci siano dei meccanismi di scelta della classe dirigente che per me non sono assolutamente potabili. Richiedono compromessi che a me risultano molto difficili. Ma l’impegno poi politico lo ritengo assolutamente indispensabile. Anche la vicinanza a Pippo (Civati, nda) e a Possibile, penso che sia naturale.

La mafia e la corruzione, in un connubio ormai indistinguibile, generano soprattutto ingiustizie e ineguaglianze. Ecco, crede che la sinistra di oggi stia facendo abbastanza?

Mi dispiace, ma sono sconvolto dalla mancanza di responsabilità da parte della sinistra. Prima di tutto perché una parte del popolo è assolutamente analfabeta del tema. Ecco, l’alfabetizzazione di fenomeni così gravi, dovrebbe essere un obbligo per i partiti. Siamo passati dall’avere partiti con una funzione anche pedagogica (Pio La Torre era quello che raccontava la mafia a contadini, questo era il PCI), a sperare che gli stessi partiti “fingano” di imparare. C’è stato un periodo storico in cui la sinistra sul tema delle mafie ha dimostrato una responsabilità superiore. Oggi invece noto un totale distacco.

Quello che sembra mancare è la credibilità. Come la sinistra (o comunque, in generale, chi governa) può essere credibile se poi quando si deve votare su particolari casi (tipo Minzolini, l’ultimo in ordine cronologico) si tirano i remi in barca? Poi le politiche nascono viziate dal pregiudizio della gente.

Esattamente. Tieni conto che essere antimafioso significa essere contro il reato di mafia. Pippo Fava lo raccontava benissimo. Il reato di mafia è sostanzialmente un grumo di egoismo che insegue degli interessi particolari, piuttosto che gli interessi generali. E per essere antimafioso bisogna essere sostanzialmente solidali. Bisogna essere disponibili anche a perdere diritti particolari, se questo permette di raggiungere una crescita dei diritti di tutti. La credibilità si costruisce così.

Manca il senso della collettività.

Certo, la cosa che mi preoccupa non è tanto il federalismo salviniano, che è pittoresco e pericolosissimo, per carità. Però mi sembra assolutamente minoritario. Quello che mi preoccupa è quel federalismo per cui anche molte persone di sinistra sono convinte di dover curare la propria sopravvivenza, di doversi adoperare per le persone più vicine a loro, piuttosto che avere una visione generale.

Mi ha fornito un assist su Salvini. Perché è come se si fosse ribaltata anche l’assunzione delle responsabilità. Parliamo di un partito che negli ultimi venti anni ha governato e tanto. Però quando scende giù a Napoli e la città protesta, Salvini rinfaccia alla gente di protestare solo contro di lui, e non contro la camorra. Quando poi è soprattutto la politica a non ritenere prioritario il contrasto alla criminalità organizzata, che è un tema sistematicamente fuori dal dibattito.

Questo perché dietro il perbenismo, molto spesso, si nascondono le proprie responsabilità. Negli ultimi anni si è abbastanza sbriciolato anche il concetto di lotta. Una parola nobilissima. La storia del movimento antimafia in Italia è una storia di lotta, di scioperi, di recriminazioni, a volte alzando la voce per affermare i propri diritti. Tutte quelle modalità che hanno spinto il movimento antimafia sono improvvisamente divenute fuori moda, se non addirittura osteggiate, anche dalla sinistra. I benpensanti ci dicono che dobbiamo essere collaborativi.

Però c’è anche da dire che negli ultimi anni il movimento antimafioso non gode proprio di ottima salute. C’è stato, forse, anche un po’ di autolesionismo? Mi viene in mente, per esempio, il caso di Maniaci. Crede ci sia, ormai, una mancanza di fiducia anche verso il movimento antimafioso?

È colpa del movimento antimafia o è colpa di un Paese che, a un certo punto, ha pensato che più lunga era la scorta e più credibile era l’antimafioso? Perché Pino Maniaci è diventato, anche a livello internazionale, il profeta unico dell’informazione antimafiosa? Di chi sono le responsabilità?

Certo è un’attitudine tutta italiana quella di delegare ai singoli le massime responsabilità. È successo più o meno lo stesso, almeno dal punto di vista mediatico, con Raffaele Cantone, divenuto ultimo baluardo per il contrasto della corruzione e del malaffare.

Personalmente vorrei un paese in cui Raffaele Cantone (in quanto “Raffaele Cantone”) non esista, ma che tutto il grumo che gli è stato caricato sulle spalle, sia condiviso con i lavoratori pubblici, impiegati bancari, tassisti, eccetera. Da questo punto di vista, a mio avviso l’antimafia ha delle grosse responsabilità. Perché a un certo punto è diventata molto televisiva, ne ha seguito i canoni della comunicazione. Si è molto “mondadorizzata”.

Per concludere, Lei di solito con chi gioca a calcetto?

(Ride)

Come ha interpretato la metafora di Poletti?

Siamo in un paese in cui alle domande “chi sei?” e “che cosa sai fare?” si è sostituita la domanda “chi ti manda?”. Ma questo ben prima di Poletti. Il ministro non è il problema, ma l’effetto. Ogni tanto qualcuno mi accusa di essere troppo vicino alla politica. E la cosa che mi fa sorridere è che sono gli stessi che poi accusano Pippo Civati di essere una percentuale infinitesima nel panorama politico. Quindi diciamo che, da amico di Pippo, da tifoso del Torino, da persona di sinistra, probabilmente ho sviluppato una affezione per l’essere “minoritario”. Per cui ho giocato a calcetto sempre nel campetto sbagliato.

Restando sempre nella metafora, quale partita sta giocando adesso il nostro Paese? Quali sono le due squadre in campo?

Secondo me in campo c’è un pezzo di politica, che nonostante i sondaggi, sta cercando di giocare con la formazione della coerenza, augurandosi che torni prepotentemente di moda. Dalla parte opposta invece centrodestra e centrosinistra giocano insieme (al massimo si dividono le fasce) con il catenaccio, per l’autopreservazione. L’arbitro di questa partita è la Costituzione. E direi che sta funzionando anche abbastanza bene, nel senso che il più grande oppositore politico dei governi degli ultimi dieci anni è stata la Carta.

Forse per questo hanno cercato di “influenzare” l’arbitro.

Che Renzi, alla Moggi, abbia cercato di chiudere nello spogliatoio la Costituzione, mi ha preoccupato fin da subito. Ma è andata bene.

Quando scappa una video

Natalina Rossi intervista Giulio Cavalli sul libro (e spettacolo) “L’amico degli eroi” sul processo a Marcello Dell’Utri.

Il libro si può acquistare qui.

Un’intervista. Su tutto.

intervista

Dialoghi Resistenti tra Ultimo Teatro Produzioni Incivili e Giulio Cavalli (fonte)

Ciao Giulio, benvenuto tra noi. Sono felice che un uomo come te, che ha deciso di metterci la faccia in prima persona di fronte al cancro – chiamato banalmente mafia – abbia aderito a questa nostra operazione di conoscenza reciproca e di scambio, tra coloro che si muovono giorno per giorno nella creazione del migliore dei mondi possibili e di questa società – che sempre più – dimentica i propri figli ed i propri padri, in nome di una giustizia e di uno status che sembra essere incancrenito, malato, alla deriva.

Come primo passo, vorrei che tu mi raccontassi chi è Giulio? Da dove viene? Quali le sue origini? Quali le sue aspettative?

Vengo dal profondo nord, dalla piccola provincia ultracattolica e medioborghese che sogna di sculettare come un città. Forse molto del fastidio per l’oppressione intesa in tutti i sensi nasce proprio dal fatto di essere cresciuto in un luogo in cui l’osare è di per sé sempre sconveniente. Fin da piccolo ho cominciato a studiare pianoforte, ho sempre amato la lettura e poi ho scoperto quel magico mondo che è il teatro dove entrambe le cose possono meravigliosamente convivere. E mi ci sono ritrovato dentro.

Autore, attore, scrittore, giornalista: quale il tuo obbiettivo nella società? E quali sono i risultati delle tue operazioni di denuncia e/o di sensibilizzazione?

Sinceramente il mio obbiettivo è semplicemente osservare e raccontare le storie che credo valga la pena raccontare. Non ho mai pensato al fine se non alla bellezza. Bellezza nel suo senso più etico e morale, quella bellezza che riesce a salvare e salvarci dalle brutture più ostinate. Devo ammettere che ancora oggi molto spesso rimango stupito di quanta forza possano avere le parole.

Perché hai scelto il teatro per parlare di mafia?

Perché il teatro non ha mediazioni: c’è l’attore, la sua parola, il pubblico. Basta. Nessuno si può infilare in mezzo. Quindi è il luogo più genuino dove poterci mettere la faccia e dare anche a chi ti ascolta la responsabilità di ascoltare nomi e cognomi. Usciti da un teatro non si può dire «non sapevo».

Dopo le minacce subite per il tuo monologo “Do ut Des”, ti è stata assegnata una scorta. Cosa vuol dire per un uomo di libertà, vivere sotto protezione?

Sinceramente questa moda di scorte e scortati mi lascia piuttosto indifferente. Le privazioni alla propria libertà in questo Paese sono molte e molto più quotidiane di quello che si pensa. Non credo che una persona sotto protezione debba per forza avere un’eroicità maggiore rispetto ad un padre di famiglia che fatica a mantenere la propria casa o ai tanti piccoli o strazianti soprusi che ognuno di noi deve ingoiare nella vita. Vivere sotto protezione è diventato un circo a cui non mi interessa partecipare.

Hai dei rimpianti, rispetto alle scelte che hai fatto? Quali i fallimenti? Quali i successi?

Rimpianti moltissimi. Ma mi ci sono talmente affezionato che forse rifarei gli stessi errori per non privarmi di loro. I fallimenti invece credo che siano dei sentimenti che hanno bisogno di sedimentare e quindi posso averne avuto molte sensazioni ma sarà il tempo, più di me, a setacciarli e mettermeli sotto al naso nei prossimi anni. Di sicuro ho cercato sempre di non farmi accalappiare nelle diverse correnti che mi avrebbero voluto offrire garanzie. Se dovessi sentirmi garantito diventerei muto.

Da giornalista, come vivi la manipolazione che se ne fa nell’informazione dei media Italiani? Quali le sue origini? Quali i suoi risultati?

L’aspetto peggiore della nostra classe giornalistica è l’autocensura. Qui siamo un gradino oltre la paura, siamo nel campo del servilismo. Si scrive, o meglio non si scrive, ciò che non smuove troppo i poteri in campo. Brutta cosa.

Rispetto alla lotta contro la mafia e la mentalità mafiosa, qual è – secondo la tua esperienza – il ruolo dello Stato e quale, il ruolo del comune cittadino?

In realtà una buona lotta contro le mafie prevederebbe nessuna distinzione tra cittadini e Stato ma la piena consapevolezza dell’uno e dell’altro di essere la stessa cosa. Il cittadino non è mai ‘comune’ a meno che non scelga di esserlo per vigliaccheria.

Appurato che il mondo della mafia, non è più un mondo relegato all’ignoranza, al sud Italia e alla violenza fisica del potere o di un certo tipo di potere, ma che anch’esso si è “evoluto” in modo più raffinato e colto, “contribuendo” così alla creazione di questa società che noi tutti viviamo: chi sono oggi i mafiosi e – sempre che sia possibile – come si identificano? E quali i loro campi d’azione, i loro metodi, le loro tecniche?

Sono coloro che credono che si possa usare la minaccia e l’intimidazione per raggiungere i propri scopi personali a danno del pubblico. La mafia, dai per sé, non è molto diversa nella sua natura dai molteplici egoismi che si solidificano in sacche di potere e oligarchie. Pesa solo la differenza della forma dell’intimidazione ma non la sostanza. E sui grumi privatistici direi che il nord Italia ha di sicuro la leadership e quindi trovo normale che le mani ci si trovino così bene.

Cosa consigli a coloro che pensano che le mafie, non siano un problema che riguarda tutti?

Gli chiederei di guardare fuori dalla propria finestra, sotto dal proprio balcone per scoprire quanto vivano in città piene di case invendute, faraoniche opere rimaste vuote, ipermercati così vicini l’uno all’altro oppure di bar e pizzerie bellissimi e vuoti. Dove c’è una città “dopata” significa che ci sono soldi che devono nascondersi prendendo altre forme. E spesso dietro c’è la mafia.

Chi sono le vittime della mafia?

Tutti coloro che non possono aspirare ad esercitare il diritto di avere diritti. Quindi molte di più di quelle che comunemente pensiamo.

Cosa rende la mafia così potente e cosa la rafforza?

La convergenza di interessi con un pezzo di politica, di imprenditoria e di borghesia. La mafia per alcuni è il socio migliore che possa capitare.

Come uomo di parola e di scrittura, hai un legame forte con il mondo del web e soprattutto con i social network. Quale senso dai a tutto questo comunicare – giornalmente e passo passo – i tuoi pensieri o le tue filosofie? Ed a cosa serve o a cosa dovrebbe servire l’incontro delle diversità all’interno del mondo virtuale?

Non vedo differenza tra il raccontare una storia su un libro, in uno spettacolo o dentro un blog. Mi interessa l’esercizio della parola e della memoria. In tutte le sue forme. Ritengo il web un luogo in cui stanno persone reali, come un ristorante, un chiesa o un teatro. Appunto.

Quanto, il teatro, subisce i condizionamenti della società ed in che modo?

Sempre, anche quando non se ne accorge. Uno spettacolo teatrale è uno pezzetto di vita vissuta che vogliamo mostrare agli altri perché ci appare così spaventosamente significativo.

Come definisci i tuoi spettacoli?

Mi dicono che siano civili. Io preferirei “incivili”, visto la stomachevole situazione del civilismo e del teatro in Italia.

Come vedi la situazione dei finanziamenti alla cultura ed a cosa porta questo processo – quasi clientelare –, sul lato etico e pionieristico?

Ma come possiamo aspirare ad una buona culturale se ci troviamo di fronte alla peggior classe dirigente degli ultimi cinquant’anni? Com’è possibile parlare di teatro con politici che valgono un’unghia dei loro funzionari e perseguono solo posizioni all’interno della loro ristretta realtà partitica? Il teatro va maneggiato con cura e sapienza.

“Mio padre in una scatola da scarpe” è il tuo nuovo libro, ma anche il tuo nuovo reading. Un romanzo che prende ispirazione dalla famiglia Landa. Perché hai scelto proprio loro e cosa si cela dietro la frase che si trova in copertina “Capita a tutti l’occasione di essere giusti”?

Perché credo che mi sia necessario affezionarmi alle storie minime che non hanno bisogno di grandi volumi o ricercati aggettivi per arrivare comunque al cuore. La vicenda della famiglia Landa ci descrive quanto sia difficile essere giusti. Per tutti.

Chi sono – per la maggior parte e senza doverne fare un ammasso informe – i politici che ci governano oggi e chi dovrebbero essere in realtà gli uomini e le donne di politica?

Sono quelli che governano con i sodali di Marcello Dell’Utri, gli amici di Nicola Cosentino e i figliocci (fieri) di Andreotti. Serve dire altro?

Cos’è il coraggio?

La consapevolezza di avere paura. E gestirla.

Uno degli argomenti che mi piacerebbe affrontare, è il fenomeno di pentitismo, cioè quel fenomeno che ha sostituito la dicitura “collaboratori di giustizia”, probabilmente molto più giusta e meno patetica. Certo, non dico che in alcuni casi non ci sia stata una sorta di redenzione e ammissione dei propri peccati o per meglio dire delle proprie atrocità, ma come tu ben sai, “il confino” di molti boss in altre regioni, ha permesso loro di prenderne possesso, ricreando quello strato di potere che con il tempo ha permesso loro, di invadere il nord con le stesse dinamiche sanguinarie e mafiose, già presenti quasi da tre secoli nel sud Italia.

Dove tale prassi, cioè l’utilizzo dei pentiti senza una corretta gestione e certezza che lo siano veramente, ma solo come mezzo di smantellamento delle ‘ndrine o delle cosche o dei clan, mostra le sue falle?

Per questioni di lavoro mi è capitato negli ultimi anni di interessarmi del fenomeno dei falsi pentiti, vere e proprie teste di ponte tra la criminalità organizzata e gli uomini sotto protezione. Devo ammettere che il sistema ha delle falle che sicuramente chiederebbero una riorganizzazione. Al di là del fatto che la pratica del confino sia stato un enorme errore storico di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze c’è il problema di una sicurezza che viene garantita in modo troppo discrezionale. E così finisce che veri “collaboratori di giustizia” si trovino spesso in serio pericolo mentre i pentiti per calcolo usufruiscono di tutti i privilegi.

Nella storia internazionale delle detenzioni, l’Italia non ha proprio una posizione a suo vantaggio. Più volte sanzionata per il degrado ed il maltrattamento che si subisce al suo interno, continua a ripudiare la pena di morte, ma gestisce e condanna “i fuori legge” con l’Ergastolo. Naturalmente il subire il “fine pena mai”, forse a molti può sembrare giusto, ma in molti dei casi – così come descrive bene Carmelo Musumeci, condannato all’ergastolo ostativo – la punizione è molto più grave del reato. E vivere rinchiuso a vita, senza la possibilità di quella reintegrazione che la legge italiana prevede, può essere molto più crudele di una sedia elettrica o di una iniezione letale. Il giudicante – con molte sfumature diverse – assume tutti gli aspetti del carnefice.

So, che l’argomento è molto più complesso della domanda che ti pongo, ma come pensi vengano gestite – in linea di massima – le carceri? E dove esse non rispettano i buoni propositi – cioè il reinserimento nella società – che tanto viene sbandierato? In breve. Quali sono quei limiti oggettivi che non possono sicuramente ottenere altri risultati?

Non possiamo correre il rischio di combattere l’inciviltà con l’inciviltà e nemmeno la violenza con la violenza. Credo in uno Stato che riesca ad essere guida e ispirazione per il valore etico che riesce ad esprimere nelle proprie scelte. Devo ammettere che la mia esperienza personale di vita con tutte le limitazioni che ho dovuto affrontare per la mia protezione mi spingerebbero ad una risposta vendicativa. Ma sarebbe ingiusto. Facciamo in modo, piuttosto, che il reinserimento sociale parta da una netta presa di distanza con il proprio passato criminale e un reale servizio alle indagini e alla giustizia. Tieni conto che molto spesso il figlio di un mafioso nasce e cresce dentro una scala di valori completamente distorta e non ha gli strumenti culturali per riconoscere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto: credo che la detenzione debba essere la scoperta esplosiva di una reale alternativa. Allora davvero ha svolto il suo compito.

Ringraziandoti ancora per il tuo tempo, ti lascio con il frammento di un’intervista fatta a Assata Olugbala Shakur (attivista e rivoluzionaria statunitense di origine afro-americana), apparsa nel 1991 su Crossroad e che in un certo senso potrebbe essere modificata – cancellando la parola bianchi, e sostituendo le parole razzista/i con mafiosa/i e razzismo con mafiosità –, indirizzandone così il messaggio a noi tutti senza distinzione di sesso, colore o credo ideologico politico religioso: << Penso che sia disonesto dire che la gente bianca, che vive in una società razzista, che ha un’educazione razzista da parte di maestri razzisti e spesso con parenti razzisti, che legge libri razzisti, che guarda una televisione razzista, etc, etc, non è affetta da razzismo. Chiunque vive in una società razzista è affetto da razzismo. La gente bianca deve preoccuparsi del razzismo su due piani: a livello politico e a livello personale. E questa è una battaglia di tutta la vita per chi è seriamente interessato a lottare contro il razzismo. >>

A proposito di Bruno Caccia.

header_Caccia-300x225Non si può che essere felici per la (bella) svolta che hanno preso le indagini sull’omicidio di Bruno Caccia e anche se sono passati troppi anni (ma con una vittima di mafia sono troppi anche i primi cinque minuti, se ci pensate) credo che questo risultato sia una soddisfazione per la famiglia, per gli ex colleghi e per i tanti che ne ricordano quotidianamente il nome. E sono proprio tanti, a partire dai meravigliosi ragazzi che abitano tutti i giorni con l’impegno e il lavoro Cascina Caccia. Se passate dalle loro parti passateli a salutare e a vedere che bella forma ha preso quel cascinale che apparteneva all’immondo mandante di quell’omicidio. Bruno Caccia è stato tra i primi a vedere l’odiosa ‘ndrangheta (ne ho scritto per Fanpage qui) e che se ne parli può solo fare bene a questa nazione. Certo l’arresto di ieri è solo il primo passo, come raccontavo oggi agli amici di RadioPopolare (il podcast è qui).

E per questo il mio buongiorno stamattina per Left l’abbiamo voluto dedicare a lui e al suo sorriso, qui.