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R. Stampa politica

La mia intervista a Radio24 sull’uscita del mio romanzo “Mio padre in una scatola da scarpe”

CAVALLIGiulio Cavalli è un attore e uno scrittore che combatte le mafie attraverso l’utilizzo della forma artistica e delle parole.
Vive sotto scorta da molti anni, ma tira dritto e non demorde.
E’ partito con uno spettacolo su Genova 2001 e la morte di Carlo Giuliani. Ha poi messo in scena la narrazione sulla strage all’aeroporto di Linate, ha raccontato storie di bambini comprati e sfruttati. Poi è passato alle mafie al Nord, al processo Andreotti.
Il suo prossimo spettacolo sarà su Marcello Dell’Utri.
Proprio in questi giorni pubblica “Mio padre in una scatola di scarpe”, un romanzo ispirato alla vera storia di Michele Landa.

Il coraggio di “essere giusti”

In larghissimo anticipo. Ma si parla del mio romanzo che sarà in libreria dal 17 settembre. L’articolo (di Rossella Mungiello) da Il Cittadino:

CAVALLICavalli e il coraggio di «essere gusti»
12 agosto 2015

«Pochi nascono eroi, molti cercano di esserlo. Ma capita a tutti l’occasione di essere giusti». Anche nelle piccole cose, in un microcosmo reso asfittico dalla paura, a Mondragone, Italia del Sud. Raccontata da una voce del Nord, come quella del lodigiano Giulio Cavalli, autore e drammaturgo, giornalista e oggi anche scrittore, in libreria da settembre con il suo primo romanzo. Mio padre in una scatola da scarpe è il titolo, edito per Rizzoli (288 pagine, 19 euro), in uscita il 17 settembre, con la prima presentazione fissata al Circolo della Stampa di Milano, segno di una commistione tra le diverse anime narrative di Cavalli, che ha all’attivo numerose collaborazioni giornalistiche e che oggi abbraccia per la prima volta la formula del romanzo. In oltre 280 pagine di racconto scorre la storia (vera) della famiglia Landa, di Michele e dei suoi sogni, quello di coltivare un orto e di vivere sereno con la sua famiglia. Aspirazioni di un uomo che non è un eroe e neppure un criminale. Speranze di chi crede nell’amore e sta al fianco di Rosalba, la «silenziosa» da quarant’anni, diventando prima genitore, poi nonno, sognando una casa grande e un albero di mele. Una vita semplice, insomma in una terra difficile, dove serve coraggio anche per vivere tranquilli. E dove Michele, che ha perso il lavoro e molti amici, vivrà la sua occasione di essere giusto, confrontandosi con gli spari, le minacce dei Torre e l’omertà dei compaesani. Dopo cinque anni di gestazione, nei quali Cavalli ha conosciuto la storia di Landa, « prima da Sergio Nazzaro e Carlo Lucarelli», poi incontrando direttamente i suoi figli, «soprattutto Angela, con cui è nata un’amicizia», arriva il tempo del debutto da romanziere per il lodigiano, sotto scorta dal 2007 per il suo impegno contro le mafie. Già autore di libri di inchiesta, comeNomi, cognomi e infami del 2010 e L’innocenza di Giulio del 2012, Cavalli è stato membro dell’Osservatorio sulla legalità e consigliere regionale della Lombardia, mentre oggi vive a Roma. «Credo che il mio lavoro sia questo – ammette – , anche se non ho mai avuto occasione di farlo. Nasco come autore e drammaturgo, poi per i casi della vita sono finito in un ruolo più giornalistico e di denuncia. È come se oggi facessi qualcosa che avrei dovuto fare dieci anni fa». Sempre con il piglio libero del cantastorie, anche se non ci tiene a commentare stile e linguaggio: «Trovo ammorbanti gli autori che commentano il proprio romanzo», chiarisce l’autore nel solco di quanto già fatto negli anni, ovvero «esercitare il mestiere della scrittura: se poi si tratta di arte, saranno i lettori a dirlo». La storia di Michele Landa ha colpito Cavalli nella drammatica semplicità, perché «è la vicenda di una persona che si ritrova a combattere una guerra che non ha mai cercato». Ma anche è e soprattutto una storia «d’amore antica, tra due persone che credono che una cosa rotta vada aggiustata, non buttata», narrata attraverso il filtro, umano, dei loro figli, che hanno raccontato all’autore, anche padre di tre bambini, la vita di famiglia. «A differenza dei mestieri dell’attore, dell’autore, del giornalista – spiega Cavalli – , quello di padre è un ruolo in cui ho sempre il terrore di essere inadeguato. Ma il terrore è positivo, testimonia di essere sulla buona strada».

Rossella Mungiello

Intervista a Giulio Cavalli: “Con L’amico degli eroi racconto un’umanità di cui Dell’Utri è paradigma”

(L’intervista è uscita qui per Lostivalepensante.it)

20150507_Amico_Degli_EroiSi prepara a tornare in scena Giulio Cavalli, dopo una pausa artistica dovuta anche alla parentesi politica in Regione Lombardia. Lo fa con uno spettacolo liberamente ispirato alla vita di Marcello Dell’Utri, accompagnato dalle musiche di Cisco Bellotti, eseguite dal vivo. Lo spettacolo, insieme ad un romanzo, è una produzione sociale attivata su produzionidalbasso.com e conclusasi con successo. Il ritorno “molto teatrale” dell’attore, drammaturgo e scrittore di Lodi, partirà presto dal Nuovo Teatro Sanità di Napoli.

Marcello è un giovane e intraprendente siciliano, nato da una famiglia borghese, ma decadente, del centro di Palermo. Marcello e il fratello Alberto vivono in simbiosi una giovinezza di lusso apparente, mentre subiscono le difficoltà economiche di un padre che si ritrova fuori gioco negli ambienti che contano, per l’arresto di alcuni elementi a cui faceva riferimento. Per questo Marcello cresce con un insito odio nei confronti della magistratura, vista come la causa della decadenza famigliare. Silvio è uno studente prepotente, egocentrico e scaltro che è stato educato dal padre ad una continua ossessiva ricerca delle scorciatoie ad ogni costo. Vive in un paese della provincia milanese, ma lo stesso giorno che ha l’occasione di accompagnare il padre nella banca in cui lavora, nel cuore della Milano bene, si innamora di questa città di eleganza, soldi e affari e decide di diventare, da adulto, un uomo a cui tutti sognano di stringere la mano. Vittorio è mafioso, figlio di mafiosi. Senza giri di parole e senza nascondenti anzi: con una venerazione assoluta per i codici medievali che gestiscono i meccanismi sociali e imprenditoriali di Cosa Nostra in Sicilia. E’ conosciuto tra gli amici per la sua abilità nell’esercizio della prepotenza che sia vocale, manesca o armata. Si diletta in missioni di prepotenza che lo rendono temuto e affascinante per molti e sviluppa un astio per la borghesia siciliana a cui aspira. Come la volpe con l’uva. Tutti e tre amano il calcio.

Perché hai scelto di attivare una produzione sociale per “L’amico degli eroi”?

Guarda, perché la produzione di uno spettacolo in un paese così complesso per le produzioni teatrali come l’Italia, complesso nel senso peggiore del termine, cioè ricco di condizionamenti politici, non è una cosa facile. Questi ultimi, bene o male, poi ne dettano la linea. “L’innocenza di Giulio”, spettacolo a cui io sono molto legato, ci ha raccontato perfettamente come essere ospiti di un teatro “stabile” nel circuito teatrale convenzionale, risultasse molto difficile per questioni politiche, che poi fondamentalmente sono delle beghe tra assessori, il “mestruo” di un dirigente dell’ufficio cultura, non c’è un isolamento concordato e organico. Allora, a questo punto, poiché il mio circuito è sempre di più fortemente politico, non partitico, e molte delle mie date non sono organizzate da un teatro, ma il teatro è solo il luogo che viene affittato da comitati cittadini o associazioni, ci siamo chiesti: perché non stringiamo un patto fin dall’inizio direttamente con loro? Inoltre, credo che andare in giro, come è capitato a me con il logo di Regione Lombardia su una produzione, sia anche abbastanza ipocrita. Purtroppo vieni macchiato come colui che ha intrattenuto rapporti con la pubblica amministrazione e che, avendo beneficiato di contributi, spesso a pioggia e non elargiti da una precisa scelta artistica, va in scena grazie a loro.

E tra l’altro se metti in scena uno spettacolo che racconta di “Stato e politica” potrebbe esserci anche un lieve conflitto d’interessi nel ricevere fondi pubblici…

Si, perché poi o tu mi produci “Andreotti” (L’Innocenza di Giulio, ndr) perché concordi sull’idea civile dello spettacolo o altrimenti non funziona. Il teatro civile solo in Italia è l’ammorbidente dell’indignazione generale. Nasce in realtà per “essere contro” qualcuno, ognuno con le proprie modalità. Il 99 per cento delle volte la postura di chi ti ospita, parlo di una pubblica amministrazione, è solo un attestato di fiducia per il teatro civile come se fosse avulso poi il tema che vai a trattare. Quando ho messo in scena “Linate” (monologo sul “disastro aereo” dove persero la vita 118 persone, ndr), spettacolo prodotto da tanti piccoli comuni, quelle amministrazioni concordavano con noi sul fatto che fosse stata una strage e non un incidente. Andreotti, invece, non concorda nessuno di quelli che lo hanno prodotto o che sono stati costretti a comprarlo, sul fatto che sia stato un criminale etico di questo Paese. Ti dicono che è giusto dare voce anche a Cavalli che lo considera un criminale.

photo by www.giuliocavalli.net

Quindi avevi bisogno del crowdfundig per poter raccontare di Marcello Dell’Utri?

Credo proprio di sì. Dopo aver fatto politica l’isolamento a livello artistico, intorno a me, si è acuito. Quello che mi ero costruito, e parlo anche delle relazioni economiche poi, è andato via via sparendo. Ma non per la posizione politica. Gli isolatori in Italia sono tutti coloro che hanno paura di dover prendere una posizione, non che non condividono la tua, e quelli che condividono il tuo punto di vista hanno paura di sclerotizzarsi su quest’ultimo. E’ banale tutto questo. Inoltre, la mia attività quotidiana di giornalismo o blogging, prende molto spesso posizioni nette. Ogni scritto, magari aumenta la fiducia e la vicinanza dei lettori ma fa crescere anche il sospetto da parte delle istituzioni. Quindi, anche se sarebbe molto più eroico dire di no, dal punto di vista economico, senza il crowdfunding, avrei fatto più fatica. Sarei dovuto scendere a un compromesso, anche taciuto o sottointeso. E poi, mi fa piacere sapere che c’è stata della gente, non necessariamente miei elettori, che la mia pausa artistica dovuta anche alla politica, l’ha vissuta con tranquillità e che si è resa disponibile nel partecipare con me alla produzione de “L’amico degli eroi”.

Credo ci sia un po’ di confusione su quello che artisticamente sei, forse proprio perché hai fatto politica, o perché fai un tipo di teatro particolare in Italia…

Perché qui abbiamo bisogno di categorizzazioni semplici e facilmente leggibili. I teatranti non mi amano, al di là delle mie posizioni politiche, dicono che Cavalli è un giornalista. Se fai l’attore devi fare solo l’attore e così via. Se decidi di esprimerti su diversi fronti, quasi nessuno ha le chiavi di lettura per osservare se c’è una coerenza di base, un filo rosso.

La produzione, comunque, comprende oltre allo spettacolo anche un libro…

Si, sembra che in questo Paese ci sia una guerra tra editoria tradizionale ed “editoria a km 0”. Perché devo essere costretto a scegliere? C’è il Cavalli scrittore, quindi romanziere, e allora il mio libro uscirà con “Rizzoli”, ad esempio, e quella è una strada che mi interessa percorrere. Poi c’è il libro che invece nasce da un mio spettacolo e che inevitabilmente non sarà mai un romanzo, perché nascono insieme. E quando le persone mi chiedono se lo spettacolo è tratto dal libro, io rispondo che non lo so. Questa è una semplificazione che abbiamo noi operatori culturali e penso il pubblico non abbia. Il mio poi è un teatro che va molto letto, è poco recitato, vado in giro a fare lo spettacolo per promuovere la parola. Sono fratelli spettacolo e libro, secondo me.

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Ma quando andrà in scena “L’amico degli eroi”?

Entro la fine del mese dovremmo essere pronti. Saremo a Napoli e sarà una sorta di “numero zero” al Nuovo Teatro Sanità, poi cominceremo a girare l’Italia.

Perché hai scelto di fare teatro civile?

Dario Fo mi dice sempre che noi teatranti facciamo sul palco quello che avremmo dovuto fare nella vita. Probabilmente io nella vita avrei dovuto fare il giornalista d’inchiesta e quindi uso il palco per questo. Ho sempre sofferto la mancata contemporaneità del teatro italiano. Mi annoia tutto ciò che è elegiaco, quindi ho sempre pensato che il teatro, con lo spettacolo e i suoi spettatori riuniti, dovesse avere la valenza di un’agorà e dovesse essere “sul pezzo”. Ad esempio, mi capitava spesso di discutere dell’andreottismo e mi chiedevo perché queste discussioni molto spesso ricche e stimolanti, non dovessero andare in scena… Poi, purtroppo, la mia vicenda privata mi ha spinto ad una certa specificità anche nei temi, che però sono quelli che amo…

Quindi l’aver ricevuto minacce mafiose e l’essere diventato tuo malgrado testimonianza hanno solo accentuato la voglia di approfondire certe tematiche?

Bè, sì, ma penso che avrei fatto gli stessi spettacoli, forse sarebbero stati più puliti dal punto di vista scenico perché avrei avuto meno ansia di difesa sul palco. I temi però sostanziali anche oggi sono questi: corruzione, criminalità, uno Stato che non è credibile e soprattutto un Paese a cui sono stati sottratti i termini per riuscire a capire e raccontarsi ciò che sta accadendo. “L’ amico degli eroi” è un mio ritorno molto teatrale, dentro non c’è ansia di raccontare la mia storia declinandola su questa storia, capisci? Quindi è meno documentale di quello che si aspettano, non ci interessa raccontare gli episodi che indicano come colpevole Dell’Utri, c’interessa raccontare un’umanità di cui Dell’Utri è paradigma e che su ampia scala e con diverse potenze si esprime nella quotidianità.

All’inizio della tua carriera, ti saresti aspettato di andare incontro ad una vicenda così complessa personalmente e professionalmente, scegliendo questo tipo di teatro?

Sai, il teatro civile è complessità. E’ raccontare un qualcosa sotto una visuale talmente inaspettata da poter riuscire a scoprire lembi di quella storia che ci sono sempre sfuggiti. E’ quindi inevitabile che i protagonisti di quei lembi, all’interno di questa complessità, non siano felici. Però non vedo differenza tra il proiettile spedito o la querela promessa, cioè non mi ha colpito di più la minaccia mafiosa rispetto ai detrattori organici con cui mi trovo ad avere a che fare. E me lo aspettavo, si. Del resto, quando ho scritto “Linate”, in parte abbiamo scontentato anche i familiari delle vittime, a cui era stato dato in pasto come unico colpevole un controllore di volo, invece abbiamo scoperto l’esistenza di colpe istituzionali, questo è servito ad un confronto civile tra le parti. Per cui poi abbiamo ricevuto pressioni dai controllori, dall’aeroporto di Linate, dall’ENAC, una cozzaglia di scarti politici parafascisti, ricevuto minacce dall’ENAV, che non ha adempito ai suoi doveri come ente preposto a controllare la sicurezza… Poi c’è il parente del familiare che affronta l’argomento a cuore aperto e si confronta con te, l’ENAV ti fa scrivere dall’avvocato; il mafioso invece ha metodi più brutali nella forma ma non nella sostanza. Io ho ricevuto atteggiamenti mafiosi anche da illustri componenti di associazioni antimafia e li trovo più pavidi di quelli che almeno avuto il coraggio di mandarmi la lettera minatoria. Tutti questi tasselli creano la complessità e non sono altro che gli spigoli di un dibattito. Gli spettacoli li scrivo per aprire un dibattito, altrimenti scrivo un romanzo. Se uno spettacolo mette tutti d’accordo penso di aver fallito il mio obiettivo.

Non è difficile però gestire il tuo lavoro e le complessità a cui vai incontro? Quanto incide sulla tua vita privata?

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Indipendentemente dalle minacce, la storia ci racconta che giornalisti, attori, drammaturghi, politici, che hanno deciso di seguire un professionismo nel proprio lavoro, sono sempre ben consapevoli che la propria vita privata sia intrecciata anche con esso. Mi spiego, i nostri intellettuali sono stati testimonianza (quelli credibili) di ciò che hanno scritto o prodotto. Solo in Italia esiste la figura dell’intellettuale ad interim nei dieci minuti di parentesi del programma in prima serata. Nel bene o nel male, per esempio, una figura controversa ma che non posso non amare, è stata Oriana Fallaci. Lo stesso Dario Fo è Dario Fo. Non è tutti i suoi spettacoli ma è lui. Nella sua storia, la vita privata, e quindi nel suo caso Franca Rame, è una componente essenziale come il più bel quadro che ha dipinto o il più bel testo che abbia scritto.

In una conferenza con Nino Di Matteo, nelle scorse settimane, al Teatro Apollonio di Varese, hai deviato il discorso legato alla scorta. Perché?

Perché non mi interessa parlare di scorta. Ne sono stato travolto dalla cronaca e poi quest’ultima si è fossilizzata in una simbologia per me senza senso. Inoltre continuo ad essere vittima del fatto di essere sotto protezione, dal punto di vista del giudizio pubblico. Ma questo è solo un tassello, un elemento della complessità e affezionarsi solo a questo è pericoloso, per me e per il mio lavoro ma anche per l’opinione pubblica. La stampa dimentica che tutti i prefetti sono sotto scorta e dovrebbe parlare di questo. La normalizzazione avviene non solo perché si parla di una situazione come la mia, ma perché non si parla delle altre. In Italia ci sono 800 persone sotto scorta e testimoni di giustizia rischiano la vita perché non riescono ad avere una tutela. Tu diventi l’attore con la scorta, il fenomeno da baraccone. Io sono sempre stato aspramente critico con il “savianismo” che si è voluto creare intorno alla figura di Roberto Saviano. Ma attenzione, non ce l’ho con Saviano, credo solo che il fenomeno, per molti versi indipendente da lui, gli sia sfuggito di mano. Per esempio che si parli di Giovanni Tizian, come giornalista scortato, ma si dimentichi che il padre di Giovanni è stato ucciso dalla ‘ndrangheta, significa adagiarsi su una spettacolarizzazione che oltre a rendere il banale importante, non ti fa vedere tutto il resto. Se apriamo una discussione sul fatto che in Italia la potenza del teatro è quella di disturbare ferocemente i potenti, allora è un confronto che mi interessa.

Sei stufo di essere legato a questo tipo di discorso, vero?

Si, sono diventato completamente intollerante e nel momento in cui mi accorgo che la scorta diventa motivo di stima, quasi sempre questa cosa getta una luce inquietante sulla persona che ho di fronte, che sia il Presidente del Senato o che sia il direttore del più importante teatro italiano. E adesso siccome fa parte della mia natura e del mio percorso artistico comincio a dirlo.

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E invece la scelta di occuparti di politica direttamente, dopo l’esperienza in Regione Lombardia, la rifaresti?

Si, l’ho fatta da uomo libero. Ho vissuto le appartenenze solo come un dovere di carta bollata per posizionarsi su una seggiola all’interno del Consiglio Regionale e perché penso che nella mia azione politica ci sia molto della produzione artistica e viceversa. Inoltre non credo che la stima in un campo debba essere collegata direttamente all’altra e quindi ho sempre apprezzato coloro che invece hanno giudicato buono un mio spettacolo e non buono un mio gesto politico. Però la rifarei. Io penso che questo sia un Paese che ha bisogno come il pane di visioni e di visionari nella politica. Non credo nell’antipolitica ma credo nell’ultrapolitica. Poi certo ho partecipato ad una legislatura deprimente e ho pagato lo scotto intellettuale, ma anche morale ed economico, quindi se tu mi dicessi lo faresti oggi, credo di no, però se la domanda è ti ricandideresti nel 2010 in quella situazione sì, lo rifarei.

Ho letto che hai condiviso e apprezzato il discorso del senatore dimissionario Walter Tocci, in disaccordo con il governo sul Jobs Act…

L’intervento di Tocci per me è cultura. La politica ogni tanto raggiunge i livelli della cultura. E io vengo stimolato nello scrivere con più impegno sapendo che esistono persone come Tocci. Quelli che ci stanno rovinando, in Italia, sono gli obbedienti.

Il problema poi nasce quando i disobbedienti non riescono a disobbedire fino in fondo, concretamente…

Il problema è che i disobbedienti acquistano valore nel momento in cui vengono seguiti. Io, per esempio, di mafia, posso cercare di parlarne nel modo più intellettualmente onesto possibile e preciso dal punto di vista documentale, ma poi la mia voce diventa importante e potente nel momento in cui fa rete. L’intervento di Tocci si fatica a leggere oggi in questo Paese. Inoltre, sulla contestazione del fatto che abbia votato comunque a favore e poi si sia dimesso, io dico che ho una grandissima idea di partito, vedo il partito con lo spirito e gli stessi valori di una comune artistica parigina. Il fatto di votare a favore e dimettersi, lo trovo coerente. Molto spesso i disobbedienti hanno il cattivo vizio, e capita anche a me, di non avere rispetto delle idee degli altri, di pensare cioè che la democrazia sia gestita da un peso numerico e qualitativo ed è la cosa che li rende in generale una minoranza cronica di questo Paese. E aver rispetto dell’idea che ritieni pericolosa e sbagliata degli altri perché espressa secondo dinamiche democratiche io lo trovo un gesto rivoluzionario. 

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Si potrebbe parlare di Pippo Civati allora in questo discorso…

Pippo è diverso. Lui ha avuto tra le mani e ha tra le mani, anzi forse aveva, strumenti molto più “ficcanti” di quelli di Walter Tocci. Il voto contrario di Tocci avrebbe cambiato questo Paese? No. Se Tocci avesse votato contro e fosse rimasto senatore avrebbe sicuramente toccato di più la pancia degli elettori del Paese e la sua sarebbe stata vissuta come scelta più radicale, io invece rivendico la radicalità del suo gesto, che rinuncia alla propria posizione, senza cadere, cioè rispettando il “luogo” che non condivide ma in cui è stato. Comunque questo è un Paese che non si salva con Tocci o con Civati, Vendola e Landini. Si salva se riesce a creare un blocco sociale. Non esiste un blocco sociale. Ancora una volta è tutto molto a cascata, è il leader che crea la base e non il contrario. In questo la forma partitica utilizzata con intelligenza e con etica rimane comunque la forma migliore.

Trovo, però, sia diventato piuttosto difficile poter poi sperare in un vero cambiamento politico e culturale in questo Paese…

In un Paese normale l’uscita di Tocci avrebbe dovuto far cadere in termini percentuali il PD. E’ vero che oggi in un’epoca di minus habens essere normale ti rende un intellettuale, però ha caratura politica il suo gesto, in un’Italia completamente “analfabeta”, che ha bisogno ancora di sentirsi dire che Dell’Utri è un mafioso. Non capisco come si possa pensare, infatti, che il processo sulla trattativa arrivi a qualche condanna, quando chiunque abbia un’infarinatura giuridica, ma anche semplicemente democratica, sa che difficilmente ci si arriverà e che il compito di Di Matteo e la valutazione su Nino di Matteo non è il riuscire a farli condannare ma l’essere riuscito a mettere per iscritto ciò che ha messo per iscritto. Quelli che celebrano Di Matteo non hanno nemmeno letto ciò che ha scritto. Lo celebrano perché la persona a rischio è quella con cui solidarizziamo molto più facilmente, ma non sono all’altezza dei contenuti che sta proponendo.

La tendenza all’omologazione politico – culturale è preoccupante e oggi sembra non esserci una credibile alternativa…

Infatti era l’idea di fondo di Licio Gelli, l’ha detto anche Di Matteo, ma è stato colto molto poco nel suo intervento a Varese. L’omologazione del Paese ne facilita il controllo. Ma ne facilita il controllo da un’oligarchia. Dal punto di vista culturale l’omologazione berlusconiana e quella renziana hanno gli stessi meccanismi. L’alternativa potrebbe essere un movimento politico che abbia una solida base culturale. Il problema è che non ci sono basi e visioni culturali dietro ai partiti.

Dietro a L’Altra Europa, però, le visioni culturali ci sono, o forse c’erano eppure in parte è stata un’esperienza deludente…

Certo perché poi anche quando c’è qualcuno che è portatore di valori culturali diventa spesso un cerimoniere di stesso. Abbiamo però comitati di cittadini che grazie allo studio, alla conoscenza e a visioni rivoluzionarie sono riusciti a bloccare progetti immensi, quindi l’attività politica ai livelli più bassi è ricca ancora di contenuti. Costa moltissime energie in tutti i sensi concretizzare un vero progetto politico.

Intervieni spesso sul tuo sito a proposito di Expo 2015. Cosa ne pensi? Perché non sei favorevole?

Bè, Expo per me è innanzi tutto una follia dal punto di vista economico ed imprenditoriale, perché in un paese in crisi, spendere così tante risorse (e non mi si venga a dire che sono risorse che vengono dal fuori perché significa comunque avere sprecato energie per raccogliere questi fondi), è irrispettoso. Expo oggi è una mancanza di rispetto per la situazione dello stato sociale italiano. Una scelta politica che ancora una volta è riuscita a far coagulare centro destra e centro sinistra, dimostrando che gli inetti sono sempre concordi. Dal punto di vista criminale, invece, è stata una grande festa per i presunti antimafiosi, che ancora una volta invece ci hanno dimostrato di non aver il coraggio legislativo (perché la criminalità organizzata nei lavori pubblici si sblocca con una legislazione che sia più severa) e hanno dimostrato anche di non riuscire ad amministrare. E’ un fallimento ambientale, un fallimento della classe dirigente, Pisapia incluso, e ancora una volta è una scatola preziosissima in cui al momento si cercherà di metterci dentro qualcosa di commestibile.

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C’è una forte incoerenza tra i temi proposti e le politiche adottate per l’organizzazione dell’evento. Se ne parla poco di questo, non trovi?

Sì, e quelli di Expo non si possono incazzare con noi che abbiamo un ruolo pubblico o con gli italiani perché sono troppo poco interessati ai temi. Io ho avuto un confronto anche pubblico con il capo ufficio stampa di Expo che mi accusava di non affezionarmi ai contenuti. Però se il modus operandi e la scatola sono così putridi, la gente ha tutto il diritto di fermarsi sulla soglia e inorridire lì, senza volere entrare. Capisci?

Mi dicevi che Expo è stata per te anche una festa per presunti antimafiosi. Non hai molta stima dell’antimafia in generale, vero?

No, per niente. Dei movimenti antimafia in Italia per niente. Del resto sai, Lea Garofalo è stata lasciata sola dalla più grande associazione antimafia italiana, Libera. Ci sono però molte personalità antimafiose anche più “semplici” come la casalinga di Castel Volturno o la pensionata coscientissima milanese. Abbiamo una ricchezza enorme. Soltanto non credo molto nell’immagine di rete che ci viene proposta e che in realtà rete non è. E’ solo una suddivisione di potere e di interessi.

Bè, la scelta di Rosanna Scopelliti, presidente della “Fondazione Scopelliti” e personalità di spicco dell’associazione antimafia “Ammazzateci Tutti “, di intraprendere l’attività politica è stata molto discussa…

Non me la sento di dire che Ammazzateci Tutti è stata un’impresa fallimentare perché lei si è candidata. Ho conosciuto ragazzi che da giovanissimi hanno intrapreso l’”hobby dell’antimafia” grazie ad Ammazzateci Tutti, però sai, siamo un Paese che ha una classe dirigente pessima in tutti i settori, quindi non vedo perché non si possa dire che anche nell’antimafia abbiamo espresso una classe dirigente non altezza degli impegni che ha avuto. Anche perché attenzione, si sceglie di essere classe dirigente, io decido di essere drammaturgo, scrittore e attore, e mi occupo di quello, ma qualcuno che invece decide di essere classe dirigente se ne deve assumere le responsabilità. Io in questo momento non mi assumerei mai l’onere di essere classe dirigente di nessuno, al massimo un buon produttore di contenuti per chi mi legge e per chi mi viene a vedere a teatro.

Solo un’intervista

La mia intervista rilasciata per gli amici di Tivoli Liberatutti:

11265401_875148892556424_1075474428854141994_ndi Davide Fabi 

Attore, politico, cantastorie, scrittore, attivista in prima linea contro la mafia e tanto altro.
Ma forse meglio di lui nessuno può presentarlo: “Io sono di sinistra. Della sinistra che sta nell’idea che preserva il suolo, l’ambiente, l’acqua e l’aria come bene comune. Che crede nell’impegno dell’uguaglianza: uguaglianza di possibilità, uguaglianza sociale e uguaglianza nei diritti e nei doveri. Della sinistra che trova inaccettabile questo paese come laboratorio del totalitarismo moderno. Che crede nel valore della laicità e vigila sulla libera professione delle fedi, che coltiva la ricchezza delle differenze, che pretende dignità nel lavoro, che crede nelle leggi come opportunità di convivenza e di tutela, che condanna lo sfruttamento e il mercimonio e che ha una storia di persone e di valori. Così, tanto per chiarire.”

Ci ha risposto a qualche domanda.

 

Iniziamo dall’EXPO. L’evento è iniziato da pochi giorni ed è già tempo di bilanci. 

14 Miliardi di euro. 

Il 5,4 % di quanto viene speso in un anno per le pensioni italiane. 

3,2 Miliardi di euro solo per la costruzione dei padiglioni. 

Il Padiglione ITALIA doveva costare 63 milioni di euro, ora ne costerà 92.”

Questi sono alcuni dati dell’EXPO. Ma s’è l’è giocata veramente così male l’Italia l’organizzazione di quest’evento?

Ci sono, secondo me, due considerazioni importanti: l’esborso economico, in primis, non mi pare in linea con la situazione economica italiana (ma diciamo pure europea) e ovviamente la politica “fa politica” nel momento in cui decide come destinare i soldi. Credo che il problema sia come quei soldi avrebbero potuto essere utilizzati altrimenti per cogliere nel pieno lo spirito dell’evento che fin dall’inizio dichiaratamente era di proporre un modo etico e nuovo per nutrire il pianeta. Certo è che solo alla conclusione di Expo si potranno tirare le somme, considerando non solo le “entrate economiche” ma anche e soprattutto se davvero si sarà riusciti a formulare una nuova cultura del cibo. E su questo mi arrogo il diritto di essere pessimista.

Poi c’è la sfida internazionale di riuscire a raccontare un’Italia che riesce ad affrontare un grande evento senza incappare in mafia e corruzione. Ebbene, nonostante l’impegno di Cantone e le promesse dei vari amministratori a tutti i livelli mi sembra che si possa serenamente dichiararsi sconfitti. Senza elencare gli innumerevoli micro casi basti pensare che tra gli indagati (con evidenti prove a carico) c’è il collaboratore più stretto di Giuseppe Sala. Può bastare?

Lotta alla criminalità organizzata. “La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.” queste parole sono di Giovanni Falcone, di cui pochi giorni fa è stato l’anniversario della morte. E’ vivo il tuo impegno contro le mafie, non solo quelle che operano nei ben noti territori del Meridione ma anche quelle che si spostano al Nord Italia passando per Roma, e si confondono dietro appalti truccati e infinite colate di cemento. Quanto è grave il problema delle mafie nelle zone in cui si crede non sia presente?

Al nord si è riusciti nella disdicevole impresa di convincerci che mafie e corruzione siano due fenomeni distinti e quindi ha avuto gioco facile chi si è appoggiato alla retorica della coppola e della lupara per negare l’esistenza del fenomeno. La pervasività delle mafie è larga ovunque lo Stato perda sul campo dei servizi e delle rassicurazioni sul futuro rispetto alla criminalità organizzata: credo che su questo versante il nostro Paese sia abbastanza unito. Ora, dopo la fase della presa di coscienza, mi auguro che si passi all’analisi e alla costruzione di chiavi di lettura collettive: questo è compito anche della scuola, della politica oltre agli operatori culturali.

Il Teatro. Hai fondato nel 2001 la “Bottega dei Mestieri Teatrali”, dalla tua biografia (https://www.giuliocavalli.net/chi-sono/) ti dipingi come un cantastorie, cosa ti ha spinto a raccontare a teatro tanti avvenimenti della storia italiana recente?

Forse per una mia stortura credo che la contemporaneità sia un dovere morale per chi ha il privilegio di fare il mio mestiere. Farsi ascoltare è cosa talmente rara che non si può sprecare raccontando storie che non siano utili per leggere meglio il presente.

Le storie/1. Tra i tanti temi trattati, hai portato a teatro la tragica storia di Carlo Giuliani e di quel luglio genovese. Il 7 aprile 2015, in merito ai fatti della scuola Diaz, i giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno condannato all’unanimità lo Stato Italiano per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”) ritenendo che l’operato della Polizia di Stato “deve essere qualificato come tortura. Che ricordo hai di quei giorni caldissimi?

La mia esperienza con le forze dell’ordine deriva da un angolo di osservazione piuttosto atipico: sono sempre stato “vicino” a molti movimenti di protesta (per un mio vecchio vizio di prendere posizione, parteggiare appunto) e allo stesso tempo ho un rapporto quotidiano con le forze dell’ordine che mi proteggono. Io credo che in un Paese democratico le critiche agli abusi e alle prepotenze (soprattutto se perpetrate da forze pubbliche) siano l’unico reale rispetto che si possa avere. Quindi non sopporto i “difensori” per postura e allo stesso modo i “colpevolisti” per pregiudizio.

In questa posizione dico che Genova (parlo della Diaz e di Bolzaneto) è stato uno dei momenti più bassi di democrazia. Anzi, concordo in pieno nella definizione di “sospensione della democrazia” ed evidentemente, come succede spesso in Italia, hanno pagato solo i pesci più piccoli. In quei giorni (come avviene ancora oggi) la criminalizzazione dei manifestanti sparata a cannonate dai principali network televisivi ed editoriali è riuscita nell’impresa di nascondere le reposnabilità e addirittura i fatti.

Le storie/2. È in corso un progetto di autofinanziamento per il tuo prossimo spettacolo “L’amico degli Eroi” (https://www.produzionidalbasso.com/pdb_3875.html). Lo spettacolo, scritto diretto ed interpretato da te e con le musiche di Cisco Bellotti, è “liberamente ispirato alla vita di Marcello Dell’Utri”. 

Come sta andando la raccolta fondi? Cosa puoi dirci di più sullo spettacolo?
Quanto influirà ancora questo modo di intendere la Politica? Per quanto ancora pagheremo lo scotto di aver permesso e concesso a questi personaggi di avere il potere?

Dopo aver lavorato su Giulio Andreotti (con un libro e con uno spettacolo) era inevitabile scivolare sull’andreottismo moderno portato avanti da Marcello Dell’Utri nella sua doppia veste di servitore imprenditoriale e servitore politico. Ricordo che Gian Carlo Caselli, eravamo ancora all’inizio della stesura de “L’innocenza di Giulio”, predì che il passo successivo avrebbe dovuto essere uno studio su Dell’Utri. Io non temo tanto Andreotti o Dell’Utri, sia chiaro, quanto l’andreottismo e il dellutrismo che hanno proposto un metodo di gestione del potere in cui le mafie vengono trattate come soggetti autorevoli per il confronto, lo scambio e l’eventuale convergenza di obiettivi.

Questa volta poi abbiamo deciso di organizzare una “produzione sociale” che mettesse insieme tanti piccoli coproduttori piuttosto che amministrazioni pubbliche e fantomatici bandi: credo che il metodo di produzione di uno spettacolo sia una caratteristica fondamentale dell’etica di preparazione del prodotto culturale e trovare così tanti sostenitori tra il mio pubblico e i miei lettori inevitabilmente mi responsabilizza molto di più tenendomi tra l’altro ben saldo con i piedi per terra piuttosto che perdere energie e tempo in assurdi, patafisici rapporti politici con amministratori troppo spesso incompetenti nel campo culturale. Siamo vicini al raggiungimento della quota che ci permetterà di andare in scena e di dare alle stampe il libro con il copione e le informazioni giudiziarie del processo di Dell’Utri a Palermo. Io credo che finché non riusciremo a riconoscere i “dellutrismi” oltre a Dell’Utri non saremo capaci di disinnescare questo stillicidio di politici indegni.

PS Siamo in dirittura d’arrivo del nostro crowdfunding per il mio prossimo spettacolo e libro. Se volete darci una mano potete farlo qui. E passatene parola. Se potete e se volete. Grazie.)

 

Intervista a Giulio Cavalli: “L’antimafia si fa innamorandosi dello Stato e non dei salvatori”

da ArticoloTre

articolotre_newlogo-G.C.– Giulio Cavalli: attore, politico, scrittore  da sempre in prima linea nella lotta contro le mafie. Tanto da volerle denunciare pubblicamente, scatenando la rabbia delle cosche che ora vorrebbero eliminarlo. L’ex consigliere lombardo di Sel vive ora sotto scorta e in una località protetta, ma, non per questo, ha scelto di tacere e di abbandonare il proprio impegno per la legalità.

“Mafie al nord” è un’espressione che finalmente comincia ad essere utilizzata. Si tratta però di una mafia “imprenditoriale”, in grado di esasperare i principi del capitalismo e, per questo, appare ancora più difficile da riconoscere. Se in meridione si parla di contiguità e convivenza, al settentrione è più opportuno parlare di connivenza o ignoranza?

Connivenza e ignoranza: perché non è vero che al nord ci sono solo mafie imprenditoriali difficili da riconoscere e lo dimostra bene il fatto che insieme ai soldi sono stati esportati anche i riti di affiliazioni e le dinamiche interne dei clan, sia per ‘ndrangheta che camorra che Cosa Nostra. L’ignoranza (mi piace di più chiamarlo “analfabetismo”) è soprattutto tra la gente che non ha contatti “diretti” ma semplicemente benefici indiretti o danni collaterali mentre la connivenza è evidentemente politica e finanziaria e imprenditoriale. Parlare di “mafia al nord” diventa quindi molto pericoloso se serve per chiedere una certa indulgenza di giudizio rispetto alle mafie del sud.

Nei giorni scorsi ha parlato di una “antimafia disorganizzata”, che si contrappone ad una criminalità, invece, organizzata. Qual è dunque, a Suo parere, la strada da imboccare per poter contrastare in maniera adeguata l’illegalità?

Un ruolo a cui la politica e la pubblica amministrazione non può rinunciare: non serve fare decine di conferenze stampa per protocolli in nome della legalità che poi non vengono applicati o si rivelano assolutamente antieconomici e allo stesso modo non può bastare un’iscrizione ad un’associazione antimafia per risultare aprioristicamente credibili. L’antimafia deve porsi degli obiettivi concreti e deve stare lontana dalla devozione mafiosa per cui siamo solidali sono con i nostri sodali. L’antimafia deve essere inclusiva e concludente altrimenti è semplicemente imprenditorialità di immagine.

Portare l’antimafia a teatro ha una valenza importantissima, in quanto sottintende, sostanzialmente, un rapporto tra cultura e legalità. In un’Italia che dimentica o consapevolmente ignora, non vi è però il rischio che l’antimafia si trasformi dunque in un valore elitario?

Certamente. Io però posso fare antimafia nei mestieri che so fare. Se tutti facessero semplicemente così risulterebbe facile. Credo che se fossi stato un idraulico avrei comunque inteso la mia professione allo stesso modo.

Il pentito Bonaventura ha illustrato il piano che la ‘ndrangheta aveva per eliminarLa. Nello specifico, ha parlato di un attentato che non dovesse apparire in alcun modo di matrice mafiosa, per evitare la creazione di martiri. La mafia ha dunque paura della memoria?

La mafia ha paura della consapevolezza e di tutto ciò che nel proprio piccolo prova a costruire chiavi di lettura collettive.

A seguito delle numerose minacce di morte ricevute, Lei vive sotto scorta. Altre centinaia di persone, in Italia, conducono una vita simile alla sua. Alcune vengono definite “eroi”: c’è speranza che arrivi il momento in cui gli individui che hanno scelto di combattere il fenomeno mafioso vengano ritenuti non straordinari ma, semplicemente, giusti?

Certo. Basterebbe parlare meno di scorte, ad esempio.

Tra i motivi che l’hanno resa una figura “scomoda” per la mafia vi è la denuncia dei rapporti tra politica e criminalità organizzata. Quanto è ancora forte il legame che intreccia lo Stato e l’antistato per eccellenza, e come è possibile reciderlo?

Le mafie stanno in ottima salute e hanno bisogno della politica per stare bene: la risposta quindi mi sembra evidente. Forse bisognerebbe innamorarsi di più dello Stato, delle sue leggi e della sua Costituzione e meno dei ciclici salvatori della Patria che ci vengono propinati.

Concorda con l’appello lanciato da Teresi, secondo cui i capi-mafia dovrebbero sganciarsi dai propri referenti politici in quanto semplicemente strumentalizzati da essi?

E’ una provocazione, ovvio. Io amo le provocazioni.

Dopo mesi di ritardo, è stata finalmente istituita la commissione antimafia. Tra i membri, spiccano nomi noti per le proprie posizioni controverse in merito al contrasto alle mafie. Come si pone un politico e un uomo di legalità di fronte a quello che potrebbe apparire un paradosso?

E’ la perfetta fotografia dello spessore della nostra classe dirigente. Perfetta: desolante ma precisa.

Infetto interno

L’antimafia, invece, spesso dimentica che prima di combattere il nemico esterno, bisogna imparare a combattere contro i sentimenti bassi, le disgregazioni, le delegittimazioni e l’isolamento che la infetta all’interno.

Vale la pena leggere Massimiliano Perna, oggi, qui.

Giulio Cavalli con la Mehari di Giancarlo Siani a Napoli

di Anna Copertino (qui)

“C’e un’italia diversa da quella che si vorrebbe… È quella dei servi, dei venduti, degli omertosi, dei vili, dei collusi e camorristi …. Un’italia figlia dei colletti bianchi, dei gattopardi, dei para-politici … Un’italia che non tutela la libertà d’espressione e parola…. Un’italia che tutela e da voce ad un corrotto, un lurido che, ancora continua a dire la sua… Un’italia che tacita chi, ha solo deciso di dire la verità nel rispetto degli altri e di se stesso, senza paura ed al di la delle minacce. Questa è l’italia… che non ha più nulla di legale, di libero, di dignitoso, d’umano… Che non tutela le persone vere … quelle che sono sempre, e da sempre, a dire senza reticenza e timore… Un’italia che non tutela chi continua a fare impegno antimafia anche nel suo lavoro d’attore… e non si presta al gioco “delle tre scimmiette” … perché sente, vede e parla… perchè si è stanchi di subire e si desidera un’italia che sappia riprendersi l’identità, la dignitá e la “maiuscola”.

L’attore Giulio Cavalli con il suo spettacolo “L’Innocenza di Giulio- Andreotti non è stato assolto” scritto con il procuratore della repubblica di Torino Giancarlo Caselli e lo scrittore Carlo Lucarelli, sta girando l’Italia, tra “soste forzate” per altre minacce che vanno ad aggiungersi a quelle già esistenti e che lo costringono a vivere sotto scorta dal 2009. Martedì 15 ottobre alle 18 al Pan — Palazzo delle arti di Napoli , Giulio Cavalli ha chiuso gli incontri della rassegna “In viaggio con la Méhari”. Cavalli per la giornata conclusiva con il suo recital “Esercitare la Memoria” ha ricordato Pasquale Romano, vittima innocente di camorra, nel primo anniversario della sua morte, e Giancarlo Siani, che perse la vita 28 anni facendo semplicemente il suo lavoro, il giornalista.

Giulio appena presa la parola, con grande prontezza ha subito ironizzato scartando le sedie con i cuscini viola, per scaramanzia teatrale e provocando grande ilarità tra i tanti intervenuti, e poi con la sua semplicità, con la sua faccia da “giovane pulito”, con parole sagaci e battute senza veli, senza omertà… raccontandosi.. giovane Arlecchino, menestrello del ‘500 ai giorni nostri… ha incantato la sala…. ha raccontato la verità.. quella stessa che viene punita, perché scomoda… nel ‘500 impiccavano… oggi minacciano…. ti costringono a fare l’attore scortato non per timore delle fans ma perché se decidi di fare impegno civile a teatro non va bene… rischi di essere sparato… e non perché stai recitando ma perché devi essere messo a tacere…. Ma Lui continua… imperterrito, la sua voce senza fine… è anche un po’ la nostra…

A proposito di candidati e di programmi – Byoblu intervista Giulio Cavalli

di Valerio Valentini (da Byoblu.com)

Il voto in Sicilia ha aperto le danze. Da qui alle elezioni nazionali del 2013, si delineerà la fisionomia della nuova classe politica. Il prossimo appuntamento saranno le consultazioni elettorali in Lombardia, terra di ‘ndrangheta e di corruzione. E anche lì, a giudicare dallo sfacelo prodotto da Pdl, Lega, Pd e Cl negli ultimi vent’anni, i cittadini esprimeranno un giudizio severo nei confronti dei politicanti che torneranno a infestare le strade con i manifesti pieni di vane promesse. La Lombardia era una delle zone più ricche e avanzate d’Europa, ed è stata consegnata da una politica oscena alle cosche e ai palazzinari dediti al narcotraffico e alla speculazione edilizia.

Eppure, di fronte a queste macerie, c’è chi ha deciso di proporre un riscatto ai cittadini lombardi. Si tratta di Giulio Cavalli, che è ormai un ospite ricorrente del blog, e che sta lanciando in questi giorni la sua “rivoluzione”. Che poi è anche quella di tutti noi, che ancora crediamo in un’Italia diversa.

Giulio Cavalli, quindi hai deciso di candidarti per l’elezione a governatore della Regione Lombardia. Davvero?

Abbiamo deciso (e uso il plurale perché siamo in tanti: pezzi consistenti dei partiti ma non solo, cittadini, comitati, professionisti e associazioni) che non possiamo permetterci di non cogliere questa grande occasione di ripensare completamente la Lombardia, di uscire dal tranello di questi ultimi diciassette anni che ci hanno convinto che questo sia l’unico modello di gestione politica possibile. Abbiamo deciso che oltre a buoni amministratori, la Lombardia ha bisogno di una fantasia rivoluzionaria. Se non una rivoluzione, una prepotente evoluzione verso una Lombardia laica, che si ripensa sulle infrastrutture, che rimette al centro le persone prima delle cose. Per rispondere alla tua domanda, quindi: sì, davvero!

Dunque, una candidatura che cerca di aggregare una larga parte di quella società civile – in particolar modo composta da giovani – disgustata dalla politica attuale, che magari gravita intorno a movimenti creati dal basso o che addirittura rischia di confluire nel sempre crescente partito dell’astensionismo.

Certo. Se la politica non riesce ad accendere la speranza e non riesce a raccontare una visione rivoluzionaria del futuro è semplicemente autopreservazione dello status quo. E ormai i cittadini non sono più disposti a non accorgersene o interessarsene.

Ma è una candidatura, la tua, che dovrà tener conto dell’iter pre-elettorale che il centro-sinistra deciderà di intraprendere. Quali sono le prospettive in tal senso? Sai già azzardare date e candidati di eventuali primarie di coalizione?

Credo che le date siano più o meno in linea con quelle delle primarie nazionali. Anzi, secondo me sarebbe il caso di sfruttare i seggi e la partecipazione di quelle primarie per accorparle a quelle regionali, ma la discussione è in corso. Sui candidati circolano i nomi di Pizzul per il PD, Zamponi con IDV e la Kustermann per i cosiddetti “arancioni” (i quali, vale la pena ricordarlo, qui a Milano sono legati all’ex socialista D’Alfonso, che di arancione ha solo il colore).

Veniamo ai progetti che hai in mente per attuare una vera rivoluzione. La Giunta Regionale è di fatto crollata a causa di ‘ndrangheta e corruzione. Per quanto riguarda la lotta alla criminalità organizzata, che ormai in Lombardia nessuno può permettersi di ignorare, la tua esperienza personale è una garanzia. Ma quali sono tre provvedimenti concreti che adotteresti il giorno dopo la tua eventuale elezione, per arginare lo straripante potere delle cosche?

Adottare il codice etico europeo che non è ma stato messo in pratica in Italia, una legge anticorruzione e una commissione antimafia permanente.

Sul modello di quella milanese presieduta da Nando Dalla Chiesa?

No, io preferisco una commissione consigliare: la politica si deve prendere la responsabilità politica delle proprie azioni. Gli esperti sono una risorsa importante a disposizione, ma le soluzioni sono legislative.

E come sarebbe un’ipotetica legge anti-corruzione lombarda varata dalla giunta Cavalli?

Prevedrebbe innanzitutto una diversa pianificazione urbanistica: nuova legge sul consumo di suolo, niente aree commerciali ma zone boschive intorno alle infrastrutture; e poi appalti con obbligo di videosorveglianza della movimentazione terra, recupero del costruito, responsabilità dei funzionari e decentramento dei poteri (e controlli) dalla Giunta verso il Consiglio. Tanto per dirne alcune.

E sulla vicenda Expo? Come si muoverebbe quella stessa giunta Cavalli?

Ripensandolo profondamente. Costruire il minimo indispensabile, rivendicare il ruolo agricolo della Lombardia e cogliere l’occasione per edilizia pubblica e servizi ai comuni ospitanti. Meno cemento e più servizi che non abbiano bisogno di essere riconvertiti. E poi concentrarsi sul tema coinvolgendo il mondo della cultura e dei saperi lombardi piuttosto che gli edificatori.

La cultura, appunto. Il Teatro Valle di Roma è autogestito ininterrottamente dagli artisti da circa due anni. Anche a Milano, nel maggio scorso, gli artisti di Macao hanno cercato di appropriarsi di spazi abbandonati per farne luoghi di cultura e di spettacolo. Un uomo di teatro come te, quali idee ha in mente per riportare la formazione e l’arte al centro della politica?

Le risorse. Finché non riusciamo a pensare alla cultura come ambiente di occupazione e produttività rimarremo incollati a questa visione della cultura e dell’arte come testimonianza. Per quanto riguarda il mondo del teatro, ad esempio, in Lombardia ci sono migliaia di professionisti che il mondo ci invidia. Bisogna costruire una rete teatrale che riparta dalle esperienze storiche ma che riesca ad abbracciare le nuove realtà (penso alle residenze teatrali, alle nuove compagnie di danza, agli interpreti delle arti visive e molto altro) e che voglia essere anche meno milanocentrica. C’è una legge sullo spettacolo da ripensare completamente che non tiene conto degli ultimi vent’anni.

E’ una grande responsabilità, quella che intendi assumerti. In bocca al lupo.

E’ una generazione intera che deve spendersi. Quindi in bocca al lupo a noi.