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Vitaminevaganti recensisce Nuovissimo testamento

(fonte)

«Se l’uomo non si riconosce tra simili non riesce a dare un nome ai propri bisogni. Un uomo che non riconosce i propri bisogni non possiede il vocabolario della democrazia. Il potere che finge di istruire e invece governa con paternalismo ha la strada spianata. Il segreto del saper bene governare sta nel rendere i cittadini bene governabili, proni, incapaci di unirsi tra loro e con il mondo esterno».

Quando un libro si lascia divorare pagina dopo pagina, difficilmente delude. È quanto mi è accaduto qualche giorno fa con la lettura di Nuovissimo testamento, recentissimo romanzo di Giulio Cavalli, pubblicato a febbraio di questo anno. Non ne consiglio banalmente la lettura. Di più. Ne consiglio l’esplorazione appassionata di ogni pagina, addentando bramosamente capitolo su capitolo.

Il libro ci riporta nell’immaginario paese di DF, già luogo protagonista di Carnaio, l’altro suo bellissimo romanzo distopico che ho recensito per vitaminevaganti (https://vitaminevaganti.com/2020/10/17/carnaio-un-romanzo-di-giulio-cavalli/). È una distopia? Se restiamo al livello di analisi del genere letterario risponderei affermativamente, ma se leggiamo questo libro con la fame che chi — come me — ha di voler vedere realizzata una società più giusta, più empatica, più accogliente e meno aberrante, come quella che spesso ci circonda, allora ci si riscopre a non leggere una storia distopica, bensì la nostra storia attuale. Come già in Carnaio, Cavalli descrive il nostro tempo in modo spietato, senza sconti, metaforico solo per chi non sa leggere la realtà. Pagine memorabili, che spiegano quanto danno provoca il potere esercitato su una popolazione narcotizzata da una narrazione unica di questa realtà, ingannata e privata dell’empatia: «Nel governo di DF avevano infatti studiato a lungo il fatto che la mancanza di empatia fosse la garanzia più solida e importante per il mantenimento del potere e del governo».

La narrazione parte dal momento in cui alcuni cittadini di DF vengono portati d’urgenza al Pronto Soccorso perché manifestano segnali strani e preoccupanti: Fausto Albini ha disegnato un cerchio sulla spiaggia con un bastone, Manlio Cuzzocrea ha pianto per giorni senza motivo, Andrea Razzone è stato scoperto mentre leggeva, Angelo Siani sogna continuamente la madre biologica che non ha mai conosciuto. Già, perché a DF non esistono sentimenti, gli abitanti sono come narcotizzati secondo un programma del governo che prevede coniuge assegnato e variabile a rotazione, bambini e bambine che vengono solo concepiti e poi, una volta nati, affidati ai Centri per l’infanzia, anziani ed anziane spariscono una volta assolto il loro ciclo produttivo, esistono poche gradazioni di colore concesse per edilizia, arredamento, abbigliamento, il governo assegna ad ogni persona casa, lavoro, dieta settimanale, pacchetto di amicizie da frequentare. A DF, inoltre, non si possono leggere libri se non quelli assegnati per lavoro, non si possono ascoltare musica e guardare opere d’arte. Fino a quando questi ammalati, che manifestano evidenti anomalie agli occhi dei medici, non cominciano a pensare che dietro al sistema esistenziale di DF ci possa essere un preciso progetto previsto dagli «algoritmi del governo», dal quale si crede non ci si possa liberare. E invece Fausto, Manlio, Andrea, Angelo, insieme alla dottoressa Anna Cordio, a Bernadetta e all’uomo che indossa una giacca di velluto, cercheranno di innescare un vero e proprio movimento di resistenza fondando le Brigate sentimentali, per difendere il loro rigurgito di empatia e andare fino in fondo nella scoperta di cosa governa davvero DF e i suoi abitanti.

Lo stile è scorrevole, la pregiata scrittura mi ha rimandato molto al flusso di coscienza di James Joyce e Virginia Woolf e ricordato le migliori pagine distopiche di José Saramago, Dori Lessing e Aldous Huxley: penso in particolare ai libri Le intermittenze della morteDiscesa all’inferno e Il mondo nuovo.

Leggete Nuovissimo testamento, fatelo leggere e diffondetelo, perché questo libro esercita la funzione di dire la verità, quella scomoda, sul nostro tempo e sulle nostre profonde ipocrisie, funzione ormai esercitata solo dai folli, dai visionari e dagli artisti, e Cavalli è magistralmente ognuno di loro.

Alla fine del viaggio della lettura, all’autore di un libro che ti entra così dentro l’anima non puoi che dire una sola parola, sperando possa ascoltare il tuo commosso sussurro: GRAZIE.

Terra Matta recensisce Carnaio

(articolo originale qui)

di Aurora
Lo Porto

Di migranti e migrazioni: racconti attraverso diversi generi letterari.

Carnaio di Giulio Cavalli, romanzo distopico.

DF è un paese senza collocazione geografica ma, forse perché tendiamo a vedere ciò che conosciamo bene, per me ha l’odore della Sicilia, del Mediterraneo.
Un giorno uguale a tutti gli altri giorni, in questo paese di pescatori uguale a tutti gli altri paesi di pescatori, Giovanni Ventimiglia trova un corpo incagliato nel porticciolo, l’ordinarietà da quel momento sarà solo un ricordo per gli abitanti di DF.

«“Questo non è un cadavere del nostro mondo, signor
commissario.” Sembrò a tutti una frase rotonda, perfetta.»

Da subito, il cadavere è etichettato non come qualcuno che è stato, che ha vissuto, che ha avuto un passato e avrebbe potuto avere un futuro, è un qualcosa di estraneo, non del nostro mondo.
Al primo cadavere ne seguono molti e molti altri, iniziano ad arrivare a ondate, ondate che la stessa scrittura di Giulio Cavalli dipinge con la sua prosa fluente e l’avarizia di punteggiatura, il racconto stesso ci arriva a ondate. E sono ondate che colpiscono e mettono a disagio, disturbano e intimoriscono quasi, per il loro realismo assurdo.

La narrazione si sussegue attraverso le testimonianze dei cittadini di DF, i quali fondano una sorta di impero di carne e sangue su questi corpi perfettamente identici tra loro, particolare che li rende sempre più “massa” e meno “individui”. La chiusura della città, l’indipendenza, la censura, non è altro se non il racconto della morte dell’empatia, della solidarietà, dell’umanità stessa.

«Chi non si adatta diventa straniero. Chi è straniero diventa un impiccio, anche se un’ora prima era tua moglie, tuo fratello, tua figlia.»

Carnaio è un libro che colpisce e in parte demoralizza, un libro che torna, come un’onda, ogni volta che si sente parlare di migranti e migrazioni, ogni volta che qualcuno pronuncia una frase populista e meschina, ogni volta che sulla pelle dei migranti si fa campagna elettorale, e proprio per questo è un libro che merita di essere letto. 

‘Volevo Essere Jo March’ recensisce Carnaio

(fonte)

Un’isola di un paese non specificato, il ritrovamento da parte di un pescatore di un cadavere in mare e da parte di una signora con cane di un altro sulla spiaggia, poi i cadaveri diventano un mucchio e persino lo scafato medico locale non regge lo spettacolo. Carnaio di Giulio Cavalli (Fandango) è un romanzo distopico che prima ci mostra lo sconcerto di una popolazione di fronte ai morti (tutti ragazzi neri tra i venti e i venticinque anni, tutti alti e muscolosi), poi la difficoltà a gestire la situazione (si succedono onde che depositano cadaveri su cadaveri) e infine la trovata: lo sfruttamento dei corpi. L’isola dichiara la propria autonomia da un governo centrale che non si è fatto carico del problema e il materiale umano che abbonda lo utilizza nelle concerie, macellerie, come carburante… Le poche voci di dissenso vengono soffocate con la violenza e il paese depresso dalla scarsezza di lavoro conosce un’enorme prosperità. Non finisce bene. Il merito di Cavalli consiste nel riuscire a dar corpo ai suoi personaggi che non sono solo, il pescatore, il sindaco, il giornalista ma persone con i loro problemi e le loro meschinità. Truce e di grande attualità.

“laletteraturaenoi” recensisce Carnaio

(fonte)

Carnaio di Giulio Cavalli (2018, Fandango). DF è un paese sulla costa, che vive di pesca, piccoli ristoranti, qualche turista, pettegolezzi e poco altro. Un pescatore, di rientro da una notte di lavoro alquanto infruttuosa, rinviene il cadavere di un giovane scuro di pelle e forte di corporatura e, pur consapevole che questo gli costerà anche i pochi guadagni al mercato e il malcontento della moglie, denuncia il ritrovamento alla polizia, che accoglie la notizia con fastidio e impazienza, più che con autentica preoccupazione. La faccenda inizia a destare scalpore quando un secondo cadavere – identico per età, fattezze, provenienza apparente – viene ritrovato riverso sulla spiaggia dalla pluridivorziata e chiacchieratissima vamp del luogo: il caso rimbalza alla TV locale, dove un abbronzato azzimato sedicente giornalista lo rilancia, avido di uno scoop. Ma i riflettori si accendono davvero solo quando, durante una camminata, il medico condotto, abituato da sempre alle vicende ordinarie di nascite e morti di DF, scopre che una intera insenatura è stata ricoperta da cadaveri: a strati, si sono ammassati i corpi senza vita di giovani uomini incredibilmente tutti simili fra loro. Nonostante le insistenti richieste d’aiuto da parte del sindaco e dei maggiorenti locali, parroco incluso, in una replica grottesca di dinamiche politiche cui la cronaca ci ha drammaticamente abituato, nessun provvedimento “dall’alto” interviene a fronteggiare il problema – innanzi tutto cinicamente pratico – dello smaltimento dei cadaveri, mentre la burocrazia impone in modo intransigente la conservazione di essi. Il diapason della esasperazione, che è anche il punto di rottura (o lo sconcertante punto di svolta) della storia, si raggiunge quando, dopo ulteriori ritrovamenti, DF viene interamente sommerso (strade, giardini, usci delle case) da un’ondata di cadaveri. Di fronte alla indifferenza del Governo, e al ripetersi cronico delle ondate, DF decide allora di autodeterminarsi e, sganciandosi anche istituzionalmente dal potere centrale, trasforma quella che è una calamità in una risorsa, il dramma in profitto, diventando, in brevissimo tempo, una piccola potenza economica: una ricchezza mai vista che finirà per distruggerla. Estremo, provocatorio, sconcertante, questo romanzo si impone all’attenzione di chi – coraggiosamente e dolorosamente affrontando le imposture grandi e piccole dei nostri giorni e di sempre – si interroghi con urgenza sui nuovi doveri e sul significato di essi per la coscienza, così come voleva il Gran Lombardo (di Sicilia).

«Un libro potentissimo»: “a clacca piace leggere” recensisce Carnaio

seguo giulio cavalli da poco, non lo conoscevo fino a qualche mese fa.ho iniziato ascoltando i suoi podcast e leggendo gli articoli, quindi quando ho iniziato a trovare in giro le recensioni di carnaio, evitando il più possibile gli spoiler, mi sono detta che dovevo assolutamente leggerlo, sapevo che non ne sarei rimasta delusa.

e infatti.

carnaio è un libro potentissimo, uno di quei racconti che ti rimangono dentro, ti fa immaginare le scene che descrive come se fossero pezzi di un film o stralci di un telegiornale.

sì, esatto, di un telegiornale.

perché nulla è più spaventoso di quello che si trova ad appena un passo dell’orrore che vediamo ogni giorno e a cui ci stiamo abituando, nulla di più spaventoso se non li fatto che ci stiamo abituando, che bisogna darsi uno schiaffo per non cadere nella tentazione di pensare con leggerezza oh, un’altra volta, per non cedere ai toni monocorde degli speaker che contano i morti, giorno dopo giorno.

c’è chi ironizza, chi addirittura festeggia a queste notizie.

non è facile riconoscere il limite tra la realtà è l’invenzione a volte. o meglio: a volte vorremmo questa confusione per credere che non sia possibile tanto orrore.

e forse il merito più grande di giulio in questo libro è sottolineare quanto l’orrore sia banale e vicino a noi e comprensibile e, nel peggiore dei casi, persino condiviso.

l’orrore dell’abitudine, dell’indifferenza, della mancanza di empatia.

l’orrore di chi usa le tragedie degli altri, deumanizzandoli all’estremo, per il proprio interesse.

vi ricorda qualcosa?

protagonista della storia di carnaio è l’intero paese di df, un ipotetico paese di pescatori del sud italia, abitato da gente normale, da brava gente, quella che pensa alla famiglia, al lavoro, al futuro dei figli, ognuno con i suoi piccoli segretucci, nulla di che, roba che in fondo non fa male a nessuno.

gente come noi.

un giorno giovanni ventimiglia, pescatore da qualche anno in crisi per colpa di un mare sempre più avaro di pesce, trova un cadavere mentre attracca la sua barca al molo.

un ragazzo nero, giovane, alto, in salute. un cadavere lavato dal mare, chissà da quanto tempo lasciato a marinare nell’acqua salmastra, chissà da dove arriva ché non si è saputo di nessun naufragio.

una bella rogna per giovanni, che deve perdere tempo al commissariato e non arriva a vendere il pesce in tempo quel giorno al mercato. e poi sorbirsi pure i rimproveri – meritati, certo – di sua moglie

nei giorni successivi i cadaveri si trovano sempre più spesso, sempre più numerosi.

sono tutti uguali: maschi, neri, giovani, tutti più o meno la stessa altezza, più o meno lo stesso peso, più o meno lo stesso tipo di vestiti, niente documenti, nessuna storia, tutti sbiancati dall’ammollo.

sono fastidiosi questi cadaveri che spaventano i turisti e creano disagio ai cittadini, fanno paura tutti così uguali.

e poi, a un certo punto, i cadaveri cominciano ad arrivare a ondate.

letteralmente.

centinaia, invadono le strade, i giardini, le piazze, schiacciano la gente. tonnellate di carne, corpi fatti quasi con lo stampo, carne senza nome e senza storia, carne che con prepotenza decide di riempire il tranquillo paesino di df sconvolgendone la vita.

quello che succede a df è tanto abominevole da torcervi lo stomaco senza nemmeno preoccuparsi di aprirvi la pancia, una bella telestrizzata: nessuna domanda su chi siano, da dove vengono, perché sono così tanti, come sono morti, cosa si può fare per aiutarli, nulla.

non importa a nessuno, non sono neppure umani – e il particolare di dare a tutti caratteristiche fisiche così poco realisticamente uguali è una delle metafore più crudeli e forse più riuscite di tutto il romanzo – agli occhi degli abitanti di df, preoccupati solo del loro angolo di cortile.

le energie si concentrano tutte prima su come difendersi da quest’invasione di carne frollata dal mare.

e poi come farne profitto.

df, tranquillo paesino sulla costa, abitato da pescatori e gente comune, ognuno con la sua vita banale e comune diventa, nel giro di poco, l’inferno. si trasforma un posto orrendo dove le leggi della più basilare civiltà e umanità vengono sopraffatte dalla bieca necessità, dall’opportunismo, da un nuovo sistema organizzato nel nome del cinismo, della dicotomia noi/loro, dove quel loro non vale niente.

sono tante le voci che raccontano la storia, le voci degli abitanti di df.

solo a una di loro – flebile, piccola, impotente – è affidato barlume di umanità:

quello che voglio è non diventare come loro, con tutte le mie forze. mi sforzo di tenere a memoria il giusto e lo sbagliato, il tollerabile e l’intollerabile, la normalità e la ferocia.

questo libro è prezioso, tremendo, importantissimo, doloroso, necessario. fatevi forza e leggetelo, scoprirete che la differenza tra l’orrore che ci distrugge, quello abilmente narrato, e quello che ormai siamo abituati a sentire, quello asettico della cronaca, non è affatto così netta.

(fonte)

Unlibroneltaschino recensisce Carnaio

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#grazie a @unlibroneltaschino ・・・ Se a volte gli scrittori elaborano un raffinato gioco di seduzione, raccontando al lettore quello che vuole sentirsi dire, avvolgendolo con parole confortevoli come coperte nelle domeniche d'autunno, altre volte gli scrittori scrivono storie per fare del lettore una preda e di sé stessi dei cacciatori. L'obiettivo non è catturare soltanto la preda/lettore, ma sbaragliare le sue difese e spingerlo a mettersi in discussione. Ad ogni nuovo capitolo, un nuovo colpo di bulldozer nelle certezze morali dell'indifeso lettore. Giulio Cavalli con “Carnaio” dimostra di essere questo genere di scrittore. Una scrittura furba e sarcastica, che trascina il lettore dentro un faccia a faccia col suo senso dell'umano: “Guarda lo vedi? Quello sei tu e non sei diverso dagli altri”, e lo costringe alla resa, a gettare il dito puntato e giudicante. In un'emblematica cittadina italiana, chiamata DF, accade il surreale: 1 cadavere, 2 cadaveri, migliaia di cadaveri. Occhi da pesce, occhi sfocati, altri. Una disgrazia, un'apocalisse di carne ammassata, un problema di morti per i vivi. Corpi senza nome, tutti uguali, identici. Sono carne, nessuno che ci veda anche la tragedia, l'orrore di qualcosa che si è spezzato, lacerato, abbandonato alla marea e perduto. Sono solo carne da spalare, da nascondere, da approfittare. Ma DF non è lontana, è facile vederci l'Italia che viviamo, che anche noi siamo, anche se vorremo distinguerci. Non basta solo schierarsi, costruire una barriera tra l'Italia e noi, per essere salvi. L'orrore ci raggiunge, bussa alla nostra porta e ci aspetta. E' “l'altro” e non ha nessun altro posto dove andare. Carnaio non racconta una realtà distopica, è una metafora di una realtà che è già, adesso. Ci sono storie che ci confortano, ci mettono a nostro agio, ci rimboccano le coperte. E storie che ci fanno stare sulle spine, ci fanno stare male e ci rovesciano giù dalle poltrone. Giulio Cavalli racconta questo secondo tipo di storie, portando il lettore a guardare dalla prospettiva dell'uomo: da lì, il panorama non è poi così lontano, diverso, altro. @giuliocavalli @libreriadovilio @fandangolibri #unlibroneltaschino

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Donnatinuzza recensisce ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

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Ho da poche ore terminato la lettura di “Mio padre in una scatola di scarpe” di Giulio Cavalli, ma non ve ne parlerò.

No, perchè è un libro che va letto, impossibile da raccontare; il rischio è quello di sminuire la tragica bellezza di una vita vissuta onestamente e privare chi ascolta della potenzialità del racconto tessuto da Giulio Cavalli.

Quindi se vi aspettavate la solita “pseudorecensione” … vi va male.

La storia di Michele Landa e della sua famiglia mi ha portato per l’ennesima volta a riflettere sulla bellezza che si nasconde nel fare IL PROPRIO DOVERE.

Come essere umano in termini generali, ma ancora più semplicemente come madre, amica, moglie, insegnante.

Come amante, perchè ci vuole amore per fare il proprio dovere, soprattutto verso se stessi.

Alzarsi al mattino e sapere che sarà magari dura, ma con la consapevolezza che, una volta coricati, la sera, a letto, sentiremo la soddisfazione di aver contribuito, anche solo con una piccola e insignificante goccia, a rendere migliore il mondo (?).

Non mi spingo a tanto.

Forse solo il clima all’interno della nostra famiglia e del luogo di lavoro.

L’aver regalato quella carezza di cui il nostro amico taciturno ha bisogno, un gesto semplice, capace però di rendere meno dura la giornata.

Il preparare una lezione con serietà, non oso neppure pronunciare la parola passione, nella convinzione che, non subito, ma magari tra un decennio, un milligrammo di quanto noi abbiamo investito abbia dato anche un solo piccolo frutto.

Già, perchè il problema è che se tutti, e dico tutti, iniziassimo a dare il nostro contributo nel quotidiano, con piccoli gesti, quasi sempre invisibili, allora sì che si potrebbe credere in un cambiamento generale.

E’ ciò che ha confermato in me la piccola e ancora troppo sconosciuta vicenda di Michele Landa, un uomo semplice che non aspirava a fare l’eroe, solo ad andare in pensione dopo una vita di duro lavoro e tanta onestà.

Ecco, diventiamo tutti un po’ il Michele Landa della nostra vita, sarà più bello per noi e per gli altri.