Vai al contenuto

relitto

Questo è il naufragio dei nostri scheletri.

medium_160630-122803_to300616cro_02

Mentre ripeschiamo il peschereccio che il 18 aprile dell’anno scorso ha inscatolato e disperso i corpi di 700 persone nel canale di Sicilia mi viene da pensare al relitto che è poi i relitti che siamo noi. Relitto è ciò che resta ai bordi della strada, in fondo al mare, sulle pendici di una montagna sorvolata con incuria o arrugginito in una collina di rifiuti. Ci sono, nel relitto, tutti i segni della consumazione, dell’usura affaticata e dell strada percorsa: la potenza del relitto è che ha disegnata addosso la curva della sua fine. Anche per questo quel peschereccio che ha trasportato cadaveri fino al fondo al mare sarebbe da esporre nelle piazze come monumento in memoria di tutto ciò che inosservato ci affonda intorno.

Verrà un giorno, credo, che questo Mediterraneo cimitero liquido di fuggitivi (perché non viaggia chi non sa dove arrivare, chi s’imbarca solo per scappare) muoverà nel ricordo le stesse pinze delle camere a gas, quei becchi di disperazione da cui non riusciamo ad assolverci, le stesse punte di una tragedia che ha pascolato prepotente in mezzo alla quotidianità impermeabile e anafettiva. Quando davvero la storia riuscirà a mostrare le dimensioni della tragedia il barcone ripescato in queste ore sarà il museo della vigliaccheria. Ci saranno scolaresche in gita ad Auschwitz e sul ponte di questa nave. Cammineremo là dove si i corpi sono sdraiati asfissiati sott’acqua e racconteremo quanto l’uomo possa diventare un’isola quando puzza di disperazione e di paura.

Ci chiederanno dov’eravamo noi. Sicuro.

(continua qui)

Una vergogna trasformata in fierezza nazionale

Ripensando, ieri, alle immagini ed al fragore intorno alla Costa Concordia ho pensato di essere un barboso pessimista poiché trovavo stonato questo clamore per un relitto che si porta dietro così tanti morti e feriti. Oggi va meglio, non sono pazzo, perché anche Francesco Merlo (su Repubblica, eh!) mette per iscritto un giudizio simile:

Non si era mai vista una vergogna trasformata in fierezza nazionale. La carcassa del Comando Marinaro Italiano è stata esibita come una bandiera. E il colore della ruggine e i residui d’olio esausto erano spacciati per polvere di stelle. Nel bel mezzogiorno genovese di ieri l’Italia si è inchinata — il contrappasso dell’inchino! — dinanzi alla rovina della sua secolare Storia Navale.

Lo smantellamento della carcassa, che da sempre è la forma di sopravvivenza degli accattoni di tutto il mondo, frutterà infatti al consorzio Saipem e San Giorgio del Porto 100 milioni di euro, 2 mila lavoratori per 22 mesi di divoramento: soldi, soldi, soldi, i maledetti soldi della disgrazia; le estreme, illusorie fortune della sventura.

Ecco perché non sembrava, quella del presidente del consiglio Matteo Renzi sul molo di Genova, la visita allo scheletro di una nazione, ma aveva invece il tono della passeggiata allegra, dell’autopromozione: l’industria, la scuola, l’ingegneria italiana… E sempre dicendo di non voler fare passerella, Renzi finiva col farla.

E va bene che queste sono le comprensibili leggi della politica-spettacolo, ma qui la rottamazione non è più metafora. Sempre premettendo che «non è un giorno lieto e nessuno mette le bandiere per festeggiare», l’evidente gioia di Renzi era fuori luogo, e le pacche sulle spalle, gli abbracci, i sorrisoni e gli scherzi, «ragazzi, siete peggio che in Parlamento», erano quelli delle Grandi Opere, ma da costruire e non da demolire; delle Industrie che nascono e non di quelle che muoiono, dell’inizio e non della fine (anche) di una retorica.