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Sara Cunial fa propaganda No Vax alla Camera per attaccare Conte. E la Lega la applaude

“Oggi siete qui, con la vostra faccia da vaccino, rei di aver fatto fallire il nostro Paese, aver imbavagliato l’onestà intellettuale, schiavizzato un popolo, riducendo l’Italia a campo di sperimentazione delle vostre terapie geniche”. Ha iniziato così ieri il suo intervento alla Camera dei Deputati Sara Cunial, fuoriuscita dal Movimento 5 Stelle (che non ringrazieremo mai abbastanza per avere infarcito il Parlamento di elementi del genere) e che oggi guida la truppa dei vari negazionisti (No mask, No vax, No 5G e tutto quello che vi può venire in mente) per ritagliarsi un po’ di popolarità.

E la discussione è interessante perché questi sono gli stessi che poi parlano di censura, badate bene, mentre abbaiano liberi in Parlamento. Ha detto Cunial: “Per distogliere l’attenzione sui brogli elettorali internazionali pilotati dal centro di comando della partecipata di Profumo, continuate a comprarvi tutti, riesumando spettri politici coerenti con la scelta di far gestire l’emergenza dal nipote putativo di Gelli”. Qui siamo a livelli di complotti e di poteri forti che potrebbero fare impallidire perfino gli attivisti di QAnon.

Ricordate lo sdegno per Trump che invitava alla guerra? Ecco qua Sara Cunial ieri: “A voi che osate mettere un cittadino contro l’altro, devoti al culto turbo capitalista del debito a tutti i costi, per condannare le nuove generazioni, dico: né Cadorna né Diaz, perché l’Italia ripudia la guerra, anche quella a base di virus e l’Italia non solo ripudia la guerra, ma condanna duramente voi che ne siete i mandanti”.

In questo momento in cui si dibatte molto sulla responsabilità (anche penale) di chi fomenta l’odio attraverso le fake news, sarebbe curioso sapere chi risponde delle parole pronunciate ieri dalla deputata Cunial.

C’è anche un altro aspetto interessante: quando si discute della qualità della classe politica, arrivando addirittura a corteggiare Mastella, ci si dimentica che le discussioni parlamentari sono ogni volta un abisso che ci tocca percorrere. Il resoconto stenografico della Camera, al termine dell’intervento di Cunial, riporta un altro aspetto significativo: “(Applausi di deputati del gruppo Lega-Salvini Premier)”, si legge.

Perché in fondo Salvini e compagnia cantante e Sara Cunial accarezzano gli stessi elettori, gli stessi pezzi di popolo, solo che l’ex grillina ha almeno l’impudenza di non fingersi statista. Delira felice dei suoi deliri. I leghisti, invece, giocano di sponda. Ma la matrice dell’irresponsabilità, sotto sotto, è la stessa.

Leggi anche: 1. La sindaca della Lega arrestata perché negava aiuti alimentari ad anziani soli e stranieri / 2. Dino Giarrusso (M5S) a TPI: “Avanti con Conte senza Renzi, ora trattiamo per un governo con altri partiti. Ma no impresentabili” / 3. Di Battista a TPI: “De-Renzizzare il governo val bene una messa. Ora il M5S è coeso, ripartiamo con Conte”

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La sindaca della Lega arrestata perché negava aiuti alimentari ad anziani soli e stranieri

Se vi serve la rappresentazione plastica del leghismo nella sua forma già truce, quello che in nome dello slogan “prima gli italiani” in realtà mette per primi gli interessi personali egoriferiti di chi sdogana l’egoismo come rivendicazione politica, allora basta fare un giro a San Germano Vercellese, dov’è sindaca Michela Rosetta.

La sindaca Rosetta è una che era finita sulle pagine di cronaca per le solite crociate razziste che serpeggiano tra i salviniani, una che aveva deciso di vietare i giochi del parco della città ai figli degli extracomunitari (badate bene: solo gli extracomunitari) che non pagavano la retta della mensa.

Rosetta è agli arresti domiciliari, col suo vice e due addetti comunali, con l’accusa di falsità materiale e falsità ideologica in atto pubblico commessa da pubblico ufficiale, abuso d’ufficio e distruzione di beni sottoposti a vincolo culturale.

In sostanza le forze dell’ordine hanno scoperto che i soldi che avrebbero dovuto essere a disposizione per le derrate alimentari acquistate al Comune per lenire l’emergenza finivano a persone che non ne avevano bisogno (c’è da scommetterci, amichetti della suddetta sindaca), lasciando fuori invece alcuni anziani non autosufficienti e ovviamente gli stranieri.

Non solo: con quei soldi la sindaca e la sua cricca si compravano mazzancolle e capesante da portare a casa e consumare in famiglia. Perché, si sa, per loro “la famiglia” è tutto, soprattutto la loro famiglia.

A fare scattare le indagini è stata proprio una cittadina straniera in forte difficoltà economica che aveva denunciato il fatto di essere stata arbitrariamente cancellata dal registro degli aiuti (chissà perché anche questo non stupisce).

Tra le altre cose si è scoperto anche che la sindaca Rosetta avrebbe provocato un crollo di una porzione della facciata della chiesa (a proposito della religione che loro sventolano con presepi e crocifissi) per poterne giustificare poi la conseguente demolizione che tornava comoda per i piani della prima cittadina.

C’è dentro tutto: c’è la gestione egoistica della cosa pubblica per solleticare con un po’ di razzismo i proprio elettori e per riempire le pance della propria cerchia, c’è l’incapacità di rispettare le regole (proprio loro che gridano “ordine e disciplina”) per mungere soldi e occasioni, c’è la stortura di ritenere il proprio ruolo politico una possibilità di “pieni poteri” per fare ciò che gli pare.

E questi sono gli stessi che vorrebbero rivendersi come salvatori in questo periodo nero. Dai, anche no, grazie.

Leggi anche: L’assessore di FdI in Veneto canta “Faccetta nera” alla radio. C’è una destra ormai oltre la vergogna (di G. Cavalli)

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La marcia dei Mille, disperati

Nel gelo della Bosnia da settimane ci sono un migliaio di migranti che seguono la “rotta balcanica”. A pochi chilometri c’è la Croazia, la porta d’ingresso dell’Europa, ma chi prova a passare viene violentemente picchiato, spesso derubato, seviziato e rimandato indietro

Qualcuno di molto furbo e poco umano deve avere capito da tempo, dalle parti del cuore del potere d’Europa, che il primo trucco per sfumare l’emergenza umanitaria legata ai flussi migratori sia quello di fare sparire i migranti. Per carità, non è mica una criminale eliminazione fisica diretta, come invece avviene impunemente in Libia con il silenzio criminale proprio dell’Europa, ma se i corpi non sbarcano sulle coste, non si fanno fotografare troppo, non si mischiano ad altri abitanti, non rimangono sotto i riflettori allora il problema si annacqua, interessa solo agli “specializzati del settore” (come se esistesse una specializzazione in dignità dell’uomo) e l’argomento, statene sicuri, rimane relegato nelle pagine minori, nelle discussioni minori, sfugge al chiassoso dibattito pubblico.

In fondo è il problema dei naufragi in mare, di quelle gran rompiballe delle Ong che insistono a buttare navi nel Mediterraneo per salvare e per essere testimoni, che regolarmente ci aggiornano sui resti che galleggiano sull’acqua o sulle prevaricazioni della Guardia costiera libica o sui mancati soccorsi delle autorità italiane.

Nel gelo della Bosnia da settimane ci sono un migliaio di persone, migranti che seguono la cosiddetta “rotta balcanica”, che si surgelano sotto il freddo tagliente di quei posti e di questa stagione, che appaiono nelle (poche) immagini che arrivano dalla stampa in fila emaciate con lo stesso respiro di un campo di concentramento in un’epoca che dice di avere cancellato quell’orrore.

Lo scorso 23 dicembre un incendio ha devastato il campo profughi di Lipa, un inferno a cielo aperto che proprio quel giorno doveva essere evacuato, e le persone del campo (nella maggior parte giovani di 23, 25 anni, qualche minorenne, provenienti dall’Afghanistan, dal Pakistan o dal Bangladesh) sono rimaste lì intorno, tra i resti carbonizzati dell’inferno che era, in tende di fortuna, dentro qualche casa abbandonata e sgarruppata, abbandonati a se stessi e in fila sotto il gelo per accaparrarsi il cibo donato dai volontari che anche loro per l’ingente neve in questi giorni faticano ad arrivare.

A pochi chilometri c’è la Croazia, la porta d’ingresso dell’Europa, ma chi prova a passare, indovinate un po’, viene violentemente picchiato, spesso derubato, seviziato e rimandato indietro. Gli orrori, raccontano i cronisti sul posto, avvengono alla luce del sole perché funzionino da monito a quelli che si mettono in testa la folle idea di provare a salvarsi. E le violenze, badate bene, avvengono in suolo europeo, di quell’Europa che professa valori che da anni non riesce minimamente a vigilare, di quell’Europa che non ha proprio voglia di spingere gli occhi fino ai suoi confini, dove un’umanità sfilacciata e disperata si ammassa come una crosta disperante.

«L’Ue non può restare indifferente – dice Pietro Bartolo, il medico che per trent’anni ha soccorso i naufraghi di Lampedusa e oggi è eurodeputato -. Questa colpa resterà nella storia, come queste immagini di corpi congelati. Che fine hanno fatto i soldi che abbiamo dato a questi Paesi perché s’occupassero dei migranti? Ai Balcani c’è il confine europeo della disumanità. Ci sono violenze inconcepibili, la Croazia, l’Italia e la Slovenia non si comportano da Paesi europei: negare le domande d’asilo va contro ogni convenzione interazionale, questa è la vittoria di fascisti e populisti balcanici con la complicità di molti governi».

È sempre il solito imbuto, è sempre il solito orrore. Subappaltare l’orrore (le chiamano “riammissioni” ma sono semplicemente un lasciare rotolare le persone fuori dai confini europei) facendo fare agli altri il lavoro sporco. Ma i marginali hanno il grande pregio di stare lontano dal cuore delle notizie e dei poteri. E molti sperano che il freddo geli anche la dignità, la curiosità e l’indignazione.

Buon mercoledì.

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Leghismo in briciole, a Lodi

Il regolamento del Comune a guida leghista discriminatorio nei confronti dei bambini stranieri, impedendo loro l’accesso a servizi essenziali come la mensa scolastica e lo scuolabus. Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Milano. Che ha anche condannato il Comune a pagare le spese legali sostenute da un comitato di cittadini

Il Canto di Natale quest’anno è stato scritto a Lodi, città incastrata nelle campagne lombarde e che ci porta un dono di fine anno significativo perché rimette i sensi a posto, restituisce alle parole il suo significato e perché racconta una vicenda che è un vocabolario politico per comprendere come il leghismo ma più in generale il cattivismo, la voglia di disgregazione e l’arroccamento ignorante franino di fronte alla realtà degli eventi e delle leggi.

Qui a Lodi nel 2017 la sindaca Sara Casanova aveva pensato di ritagliarsi un po’ di notorietà con un nuovo regolamento comunale che discriminava l’accesso dei bambini stranieri ad alcuni servizi essenziali come la mensa scolastica e lo scuolabus. Aveva pensato, quel gran geniaccio di sindaca, di imporre delle regole apposite per i genitori degli alunni stranieri prevedendo l’accesso alle tariffe agevolate (che in Italia vengono stabilite in base al reddito) richiedendo dei documenti aggiuntivi che certificassero chissà quali ricchezze nascoste nei loro Paesi di origine. Del resto era un ottimo modo per inoculare il dubbio che gli stranieri scappino dalla guerra lasciando enormi ricchezze. Una persona normale ci riderebbe su, i sovranisti invece, poverini, ci scrivono golosi teoremi e profondi editoriali.

La vicenda era odiosa perché metteva di mezzo gli stranieri ma soprattutto perché se la prendeva con i bambini. Del resto è tipico dei leghisti fare i forti con i deboli, loro ci riescono solo così. E si sentono perfino dei condottieri, poveretti, quando sono solo gli scherani di una poraccitudine che affila i denti sulle prede indifese. Era andata a finire che molti genitori avevano chiesto di condividere i pasti dei propri figli con i bambini stranieri. Del resto dividersi il pane dovrebbe essere l’atto politico più alto e nobile. Dovrebbe.

Nel 2018 l’Asgi, associazione degli studi giuridici sull’Immigrazione, e il Naga, associazione volontaria di assistenza sociosanitaria e per i diritti di cittadini stranieri, rom e sinti, presentò un ricorso contro il regolamento del Comune di Lodi. Il 13 dicembre 2018, un’ordinanza del tribunale di Milano stabilì che il regolamento era discriminatorio e chiese il ripristino dei precedenti criteri di accesso alle agevolazioni per le mense e il trasporto scolastico.

La sindaca Casanova insiste, presenta ricorso. Ora la Corte d’appello di Milano ha respinto il ricorso. Nella sentenza si legge: “La differenziazione introdotta dal regolamento del Comune di Lodi introdotto con Dgc 28/2017 in punto di documentazione su redditi/beni posseduti (o non posseduti ) all’estero costituisce una discriminazione diretta nei confronti dei cittadini di Stati extra Ue per ragioni di nazionalità perché di fatto, attraverso i gravosi oneri documentali aggiuntivi richiesti, rende loro difficoltoso concorrere all’accesso alle prestazioni sociali agevolate, così precludendo ai predetti il pieno sviluppo della loro persona e l’integrazione nella comunità di accoglienza; ne consegue il respingimento dell’appello presentato dallo stesso Comune”. Il Comune di Lodi è stato anche condannato a pagare le spese legali sostenute dal Comitato Uguali Doveri, una rete di cittadini che in quei giorni si è costituita per difendere il diritto di essere uguali.

Sconfitti e costosi: eccoli i sindaci leghisti. E quei giorni orrendi sono diventati un manifesto d’umanità.

Buon giovedì.

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Le carceri diventano un vero e proprio inferno: detenuti contagiati e infreddoliti

La seconda ondata del virus si abbatte violenta sulle carceri e rende ancora più difficile la vita della popolazione carceraria registrando il cronico sovraffollamento oltre i limiti di guardia, un pesante aumento di positivi al Covid rispetto alla prima ondata e nuove misure coercitive ancora più stringenti in nome della sicurezza sanitaria mentre scompaiono del tutto le occasioni di socializzazione e vengono a mancare i servizi sanitari che da sempre sono affidati ai volontari, diminuiti drasticamente in questi mesi.

È il quadro drammatico che emerge da un documento elaborato dagli operatori dell’area Carcere della Caritas Ambrosiana sulla situazione degli istituti penitenziari di San Vittore, di Bollate e di Opera in Lombardia.

Secondo fonti della Caritas nei tre istituti sarebbero almeno 260 i positivi tra detenuti e lavoratori con una percentuale del 7,7% della popolazione carceraria. Numeri molto più alti di quelli della prima ondata e che solo in parte può essere spiegata con i trasferimenti delle persone contagiate dagli altri istituti della regione nei due Covid Hub allestiti nel frattempo a Bollate e San Vittore. Il tutto, ovviamente, a fronte di un sovraffollamento che conta 3.400 detenuti presenti con una capienza teorica di 2.923 posti. Nonostante la popolazione carcerari sia diminuita dell’8% rispetto a quella registrata l’inizio dell’anno la riorganizzazione degli spazi legata alla necessità di predisporre reparti sanitari per gli ammalati e per l’isolamento dei detenuti positivi al Covid-19 ha costretto molti reclusi a essere trasferiti in altri reparti e a condividere le proprie celle con più persone rispetto alla loro situazione precedente, soffiando su una tensione ormai sedimentata da mesi.

Ma la condizione di sovraffollamento è resa ancora più intollerabile dalla chiusura dei reparti, dei piani e in diversi casi anche delle celle. Nel suo documento la Caritas denuncia che soprattutto nel carcere di San Vittore c’è stata una significativa rinuncia all’applicazione della sorveglianza dinamica che prevedeva nei reparti di media e di bassa sicurezza che le celle restassero aperte almeno negli orari diurni migliorando sensibilmente la vivibilità degli istituti. Le occasioni di socialità hanno subito una brusca frenata anche a causa della chiusura di gran parte delle attività lavorative, delle attività culturali e ricreative e delle occasioni di sostegno psicologico e sociale che nei tre penitenziari erano garantite dalla presenza di operatori esterni all’amministrazione penitenziaria e di volontari. «Le attività scolastiche sono ferme e non è, a oggi, stata attivata alcuna forma di didattica a distanza, le attività trattamentali sono ridotte al lumicino», scrive la Caritas nel suo rapporto.

È un girone infernale: la mancata presenza di volontari ha influito pesantemente anche sulla distribuzione di indumenti e di prodotto per l’igiene personale (che l’amministrazione penitenziaria non riesce a garantire nemmeno nella misura prevista dalla legge). A farne le spese ovviamente sono i detenuti più indigenti e più fragili. A San Vittore ci sono detenuti che non hanno nemmeno abiti adatti per proteggersi dal freddo invernale. Persino l’accesso degli avvocati è fortemente limitato e l’impossibilità di svolgere i colloqui con i propri famigliari è resa ancora più intollerabile dalla limitazione (e in alcuni casi addirittura la sospensione) di poter ricevere i pacchi con indumenti, prodotti alimentari e altri beni. «Nonostante siano chiare – scrive la Caritas Ambrosiana – le esigenze sanitarie che, in carcere come fuori, suggeriscono di limitare le occasioni di contatto interpersonale, quel che più preoccupa è il protrarsi della durata di questo regime d’eccezione, con il blocco proprio di quelle attività che più di tutte assolvevano alla funzione rieducativa della pena stabilita dalla Costituzione e che dunque sono indispensabili per un corretto funzionamento del sistema penitenziario». Si attende che il ministro batta un colpo.

L’articolo Le carceri diventano un vero e proprio inferno: detenuti contagiati e infreddoliti proviene da Il Riformista.

Fonte

Altro che culla della democrazia: Londra abbandona in carcere in Iran una sua cittadina

Il ministro degli Esteri britannico, intervenendo sul caso di Nazanin Zaghari-Ratcliffe, ha affermato di non essere “legalmente obbligato a fornire assistenza” alla donna britannica-iraniana detenuta in Iran. Il Regno Unito, in sostanza, decide di abbandonare una propria cittadina all’estero, disinteressandosi di giustizia e di diritti. Proprio loro che del diritto e della democrazia si ergono a cultori in Occidente.

Era il 3 aprile del 2016 quando Nazanin Zaghari-Ratcliffe fu arrestata mentre stava lasciando l’Iran con sua figlia Gabriella, che aveva 22 mesi, per tornare nel Regno Unito dopo avere visitato la sua famiglia a Teheran.

Dopo essere stata detenuta per oltre cinque mesi, di cui i primi 45 giorni in isolamento e senza avere nessuna possibilità di mettersi in contatto nemmeno con il suo legale, la donna ha subito un processo che molti osservatori internazionali hanno definito profondamente iniquo ed è stata condannata a 5 anni di carcere per “appartenenza di un gruppo illegale”, riconosciuta colpevole di voler rovesciare il governo del Paese.

Nel 2016 l’Iran, vale la pena ricordarlo, ha detenuto arbitrariamente almeno 200 difensori dei diritti umani condannandoli a carcerazione e fustigazione.

Fino al momento del suo arresto Nazanin lavorava come project manager della Thomson Reuters Foundation, un ente non-profit che promuove il progresso socio-economico, il giornalismo indipendente e lo stato di diritto.

Nel corso di questi anni di detenzione le condizioni fisiche e psichiche della donna sono continuamente peggiorate, fino a rendere necessario il suo trasferimento dalla prigione di Evin al reparto psichiatrico dell’ospedale Imam Khomeini, nella capitale Teheran.

Nazanin ha intrapreso scioperi della fame e ha anche mostrato preoccupanti segnali di suicidio. La sua è una storia come quella di tanti attivisti dei diritti umani che si ritrovano ingiustamente oppressi in Iran, ma è anche una vicenda di pressioni diplomatiche dell’Iran nei confronti del Regno Unito.

A marzo di quest’anno Nazanin Zaghari-Ratcliffe è stata rilasciata con un permesso temporaneo, ospite in casa della madre con un braccialetto elettronico che non le permette di allontanarsi oltre i 300 metri e il governo iraniano aveva lasciato intendere una sua possibile liberazione.

Tutto invece precipita quando la donna è accusata di essere una spia: ora rischia un nuovo processo e una condanna fino a 16 anni. Il Regno Unito, dal canto suo, lascia intendere di volerla abbandonare al proprio destino.

Leggi anche: 1. La Regina delle capre felici. Storia di un’etiope in Italia e del suo sogno infranto / 2. Alla vigilia di Natale, nel silenzio generale, l’Italia ha consegnato una nave militare all’Egitto. Con buona pace di Regeni

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Caserma, manette, botte

Troppe cose non tornano nel caso di Emanuel Scalabrin, morto a 33 anni nella caserma dei carabinieri di Albenga

Ci sono tutte le caratteristiche per essere una di quelle brutte storie a cui purtroppo ci siamo abituati e per questo la vicenda di Emanuel Scalabrin va raccontata per bene, punto per punto, compresi i lati oscuri che ci sono tutti intorno.

Emanuel ha 33 anni e fa il bracciante agricolo. Ha problemi di dipendenza. Il suo arresto lo raccontano i suoi famigliari nelle parole pubblicate dalla Comunità San Benedetto al Porto, fondata da don Andrea Gallo, «Secondo il racconto dei parenti il 4 dicembre Emanuel verso le 12.30 si trova nella sua casa di Ceriale insieme alla compagna Giulia, mentre il loro figlio minore di 9 anni si trova presso una famiglia di amici. Ad un certo punto mentre si apprestano a pranzare viene a mancare la corrente elettrica ed Emanuel esce dalla porta di casa per verificare se si tratta di un’interruzione o altro. Improvvisamente viene spintonato all’interno dell’alloggio da alcuni agenti in borghese che erano lì appostati per l’irruzione, lui viene trascinato all’interno della casa fino alla camera da letto e qui gettato sul materasso dove viene colpito in ogni parte del corpo torace, addome, schiena, viso ed estremità».

Emanuel urla e chiede aiuto, dice che non riesce a respirare mentre Giulia la sua compagna implora i carabinieri del nucleo di Albenga di fermarsi.

L’arresto dura 30 minuti. Il ragazzo viene portato nella cella di sicurezza della caserma dei carabinieri di Albenga. Non si sente bene. Alle 21 viene chiamata la Guardia medica che lo visita per un’ora e che chiede di trasferire Emanuel in ospedale. Viene portato con l’auto di servizio dei Carabinieri e al Pronto Soccorso ci rimane per 5 minuti. Cinque. Non viene fatto nessun accertamento. Gli viene solo dato del metadone perché i medici del Pronto soccorso ipotizzano che si tratti di una crisi di astinenza.

Rientra in cella verso mezzanotte. Da lì, il buio. Verrà ritrovato morto alle 11 del mattino del giorno successivo, il 5 dicembre. Cosa sia successo quella notte non si può sapere perché la videocamera di sorveglianza della cella non aveva l’hard disk e quindi le immagini non sono state registrate.

La Procura di Savona ha aperto un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti. Il pubblico ministero Chiara Venturi, appena giunta sul posto, ha prontamente chiesto non solo una ispezione del corpo al medico legale, ma anche un confronto con il fotosegnalamento con l’obiettivo di rilevare eventuali ecchimosi successive all’arresto.

Cosa è successo? Sperando di non ritrovarci di fronte ancora alla retorica delle mele marce. Intanto lo raccontiamo, vigiliamo, aspettiamo.

Buon venerdì.

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993

Ieri, 3 dicembre, sono morte 993 persone di Covid. La cifra più alta in un solo giorno in Italia. Ma i numeri sono diventati muti, non condizionanti, si sommano e si continuano a sommare come cifre nude e vuote

Ieri 993 famiglie hanno pianto la morte di un loro famigliare. Non l’hanno potuto salutare, non lo possono vedere nemmeno da morto perché quei 993 sono stati sigillati e ora vengono messi in coda per la cremazione. Ieri 993 famiglie hanno smesso di pensare alle feste, agli addobbi, ai menù, a tutto.

Per dare un’idea delle proporzioni, negli Usa il dato più alto di morti in un solo giorno, in tutti gli Usa, è di 2.880.

Questa seconda ondata che per alcuni non doveva arrivare è arrivata e si rivela più mortifera della prima. In Italia non ci sono mai stati così tanti decessi. Novecentonovantatré morti mentre ancora qualcuno gioca a dipingere come disfattisti quelli che parlano di Covid. Novecentonovantatré morti in un Paese che ci diceva che avevamo imparato la lezione, che ora sappiamo come curarli, che sono state migliorate le prestazioni, le cure e l’assistenza sanitaria.

Dal 10 ottobre sono morte 21.898 persone. Dall’inizio della pandemia sono morte 58.038 persone. È sparita una città come Agrigento.

Ma i numeri sono diventati muti, non condizionanti, si sommano e si continuano a sommare come cifre nude e vuote, una sopra all’altra. Anche di fronte a questa pandemia continuiamo a non riuscire a restare umani, a sentire le store che ci sono dietro, a leggere con un vocabolario che non sia burocratico, medico, politichese.

Sono 760mila gli attualmente positivi al virus; 760mila.

Se ci fosse un segreto perché i numeri non cancellino le storie bisognerebbe usarlo ora, subito. Restituire il dolore, su numeri così grossi, diventa un’impresa così titanica che sembra non volerla fare nessuno. Superare i lutti scavalcandoli senza farsene carico è la reazione meno consapevole e meno etica, anche se viene facile facile. Chissà se troveremo le parole per raccontare questo tempo. Chissà se conieremo parole nuove per descrivere la levità con cui siamo passati attraverso un giorno così.

Buon venerdì.

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L’omofobo seguace di Orban beccato nell’orgia gay: il lato oscuro (e represso) dei moralisti

Uomo e donna, famiglia tradizionale, valori cristiani, una dichiarata omofobia sventolata con fierezza: Joseph Szajer, eurodeputato ungherese del partito di Orban, è uno di quelli che ha puntato tutta la sua carriera politica sugli orientamenti sessuali degli altri, uno di quelli convinti che il compito della politica sia quello di gestire gli aspetti più personali degli elettori come se fossero affare di Stato e addirittura indice di salute pubblica. Peccato che il contrappasso sia degno di un film, uno di quei film dove il protagonista vien sonoramente sbugiardato secondo l’antico adagio “fate quello che dico ma non fate quello che faccio”.

Szajer è stato beccato dalla polizia in un pub nel pieno centro di Bruxelles mentre brigava in un festino sessuale con altre 24 persone, un’ammucchiata in piena regola con un alto tasso alcolico e di droghe. Con lui diversi diplomatici e funzionari della Commissione europea: due degli arrestati hanno addirittura invocato l’immunità diplomatica mentre la polizia li denunciava per avere violato le norme sanitarie disposte per il Covid e per possesso di stupefacenti.

Sono spesso così i moralizzatori: pretendono di giudicare gli altri confidando di non essere giudicati. Ma basta grattare poco poco sotto la superficie per scoprire, spesso, che sono semplicemente dei repressi che ardentemente desiderano ciò che condannano, si costruiscono intere carriere su principi (spesso retrogradi e restrittivi delle libertà degli altri) che infrangono nel buio della propria cameretta e interpretano il ruolo dei conservatori professando una fede che loro stessi riconoscono restrittiva.

Immaginatevi la scena: la polizia ha fatto irruzione nel locale e Joseph Szajer, codardo come sono spesso codardi da quelle parti ideologiche, ha tentato di fuggire (pure ferendosi una mano) per poi invocare un’immunità parlamentare che invece per legge non gli spetta (perché loro sono dei gran saggi dei comportamenti ma spesso fallaci sulla conoscenza delle leggi).

Parliamo di un uomo di punta di Orban, quell’Orban che ha voluto aggiungere alla Costituzione la frase “L’Ungheria proteggerà l’istituzione del matrimonio come unione di un uomo e una donna …”. Complimentoni, davvero.

Ma c’è un altro punto interessante in tutta la vicenda: nel suo comunicato con cui annuncia le proprie dimissioni dal Parlamento europeo, il moralizzatore decaduto Joseph Szajer chiede scusa alla sua famiglia, ai suoi colleghi e ai suoi elettori chiedendo loro “di valutare il mio passo falso sullo sfondo di trent’anni di lavoro devoto e duro” e dicendo di avere tratto con le sue dimissioni “le conclusioni politiche e personali”. Capito? Sono fatti suoi. E quello che ha giudicato tutti ora chiede di essere giudicato secondo il suo metro di giudizio: niente, non ce la fanno proprio, fino alla fine.

Leggi anche: Orgia in un bar di Bruxelles durante il lockdown: denunciato Joseph Szajer, europarlamentare di Orban

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I diritti cominciano pretendendoli

Quando si iniziò a chiedere il diritto al divorzio in Italia ci credevano in pochi. Così come avvenne per la fine dell’apartheid negli Usa. Perché i diritti restano sotto la brace per anni, e prima o poi trovano la scintilla

Quando nasce un diritto? Quando viene riconosciuto? Ma no, dai, su. Sessantacinque anni fa Rosa Parks su un autobus a Montgomery, in Alabama, si rifiutò di cedere il proprio posto ad un bianco. Stava tornando a casa dopo aver lavorato tutto il giorno in un grande magazzino come sarta, faceva molto freddo, e non aveva trovato posti liberi nel settore riservato agli afroamericani e per questo decise di avere il diritto di sedersi nel settore dei posti comuni. Salì un uomo bianco che rimase in piedi e l’autista del bus dopo alcune fermate le chiese di alzarsi. Disse di no. Venne arrestata. Iniziò una protesta che poi è storia: il boicottaggio dei mezzi pubblici di Montgomery durò 381 giorni, i tassisti afroamericani abbassarono le loro tariffe a quelli dei bus, le piazze si riempirono di sostenitori. Il 13 novembre 1956, la Corte suprema degli Stati Uniti dichiarò fuorilegge la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici poiché giudicata incostituzionale.

Cinquant’anni (e 1 giorno) fa fu approvata la legge che prevedeva il diritto al divorzio alla Camera dopo una seduta parlamentare che durò oltre 18 ore. La riforma era richiesta a gran voce dai movimenti delle donne e dai radicali. Quando si cominciò a chiedere il diritto al divorzio in un Paese clericale come l’Italia non ci credeva quasi nessuno. Nel 1878 ci provò il deputato Salvatore Morelli. Nel 1902 il governo Zanardelli elaborò una proposta che però non venne mai approvata.

La legge sul divorzio fu realizzata durante una stagione di diritti: furono gli anni dell’abrogazione del reato di adulterio (’68), del divorzio (’70), della riforma del diritto di famiglia (’75), dell’aborto (’78), dell’abrogazione del delitto d’onore (’81). Ne siamo usciti migliori.

Il punto è proprio questo: i diritti cominciano nel momento in cui si comincia a pretenderli. Non è vero che non siano mai esistiti prima: semplicemente non esisteva qualcuno capace di dire “no” e poi di moltiplicare la sua pretesa. E accade così ancora oggi, ogni volta che qualche conservatore ci vorrebbe dire che ci si “inventa” diritti. I diritti sono lì, sotto la brace per anni, e prima o poi trovano la scintilla. Ed è una brace da tenere con cura perché passano gli anni ma continuano a insistere quelli che vorrebbero negarli, i diritti, esattamente come decenni fa.

Disse Fanfani in merito al referendum sul divorzio, il 26 aprile 1974 a Caltanissetta: «Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. E dopo ancora, il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva».

Gli auguriamo di avere avuto ragione.

Buon mercoledì.

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