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Rete Disarmo

Cecilia Strada a TPI: “Vendere armi all’Egitto vuol dire sostenere torture e uccisioni come quella di Regeni”

Cecilia Strada a TPI: “Vendere armi all’Egitto vuol dire sostenere torture e uccisioni come quella di Regeni”

Cecilia Strada è una filantropa e saggista italiana, ex presidente di Emergency e figlia dei fondatori Teresa Sarti Strada e Gino Strada. La guerra la conosce perché l’ha vissuta da sempre in prima persona. L’abbiamo intervistata per TPI.
Cecilia Strada, alla fine l’Italia ha deciso di vendere armi all’Egitto. Come la vede?
Molto molto molto molto male. Sposo in toto la richiesta di Amnesty e di Rete Disarmo che chiedono almeno che se ne parli in parlamento. È una cosa contraria agli interessi dei cittadini italiani, qui si tratta di essere furbi non semplicemente disarmisti. C’è la legge 185/90 che dice che non si vendono armi a chi ha interessi contrari all’Italia e questo è il caso dell’Egitto, poiché in Libia non sostengono la stessa parte in causa: è una cosa poco furba oltre che poco etica. Vendere armi significa sostenere quello che l’Egitto sta facendo al suo interno (torture, ragazzi scomparsi, ammazzati, studenti come Regeni e Zaky). La legge dice che non potresti vendergli armi salvo diversa delibera del Consiglio dei ministri sentite le Camere, quantomeno che se ne parli in parlamento, è la legge, non è un sogno da pacifista. Gli interessi dell’Italia sono maggiori degli interessi delle fabbriche d’armi.

Di Maio ha definito l’Egitto un “partner imprescindibile”…
Partner imprescindibile su cosa? E poi bisogna decidere quali sono gli standard, chiediamo ai nostri partner il rispetto dei diritti umani? C’è un ragazzo italiano morto, le autorità hanno ostacolato le indagini, ridurre tutto al fattore economico è miope, non si fa l’interesse del proprio Paese.
Il pacifismo è sparito dall’agenda politica?
Il pacifismo non occupa spazio se non quando viene usato per dare del sognatore a qualcun altro. Il pacifismo è la non violenza, è riflettere sul modo in cui stiamo insieme, cercare il modo di evitare i conflitti, immaginare delle società alternative. Questo non c’è mai stato ed è un peccato. Sono comunque soldi, si dice, servono per l’economia italiana, ma se si investe nel civile il ritorno è maggiore rispetto al militare: se l’obbiettivo è creare posti di lavoro allora si investano fondi nel civile, come nelle energie alternative, l’investimento dà più posti di lavoro dell’industria bellica.

Intanto rimane in piedi la questione libica e continuano gli sbarchi…
Il Covid faceva paura e non c’era bisogno di inventarsi il nemico, Ong o migrante. Però gli sbarchi sono continuati, in numeri piccoli – poco più di 3mila persone da gennaio a oggi – ma ci sono stati, come anche le segnalazioni di naufragi difficilissimi da verificare perché non ci sono navi in mare che possano testimoniare, ci sono diversi casi di omissione di soccorso e almeno una strage a Pasquetta di una nave lasciata alla deriva con 12 persone morte dopo 5 giorni che chiedevano aiuto. Altri casi di cui non si saprà niente. Ora Mediterranea è tornata in mare, Sea Watch è ripartita poche ore prima con imponenti misure di sicurezza.
L’immigrazione tornerà a essere tema di scontro politico?
Dipende da quanto i politici sentiranno il bisogno di strumentalizzare facendo politica sulla pelle della gente. Io sto ancora aspettando la discontinuità promessa da questo governo, io ero in mezzo al mare sulla Mare Jonio di Mediterranea quando si insediò questo governo. I decreti sicurezza sono ancora lì. Non permetteremmo mai che dei bambini bianchi rimanessero su una nave dopo essere stati torturati, violentati e tenuti prigionieri. Discontinuità vuol dire stracciare gli accordi con la Libia: c’è una gravissima violazione dei diritti fondamentali dell’uomo, delle leggi, della Costituzione. I lager andrebbero evacuati e il sistema smantellato e bisognerebbe aprire canali d’accesso sicuri e legali sconfiggere il traffico di uomini. Tra l’altro non va bene che il soccorso in mare non venga fatto dagli Stati ma dalle Ong, non è normale.

Però in Parlamento alcuni si sono inginocchiati
Su questo ci penso da qualche giorno. I nostri parlamentari sanno chi è George Floyd, benissimo. Ma cosa sanno di Soumayla Sacko? Cosa sanno delle vittime del razzismo qui? Le vittime del nostro razzismo sistemico qualcuno le conosce? Possiamo interessarci a questo? Se sentiamo questo problema sollevato negli Usa allora dobbiamo guardarci intorno: i neri sono quelli nel Mediterraneo e quelli schiavi delle mafie nei campi a disposizione della grande distribuzione. Altrimenti inginocchiarsi servirà a poco.

Leggi anche: 1. L’Egitto acquista 2 navi militari italiane e tappa la bocca all’Italia sul caso Regeni /2. Regeni, Di Maio risponde alle accuse: “La vendita delle armi all’Egitto non è conclusa” /3. Patrick Zaky, gli affari con l’Egitto possono diventare un’arma per l’Italia

4. “Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego /5. Torino, aggredita a 15 anni sul bus perché nera: “Il razzismo c’è anche in Italia”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Li armano e poi li combattono /5

popolimissione

A far discutere, di recente, è soprattutto l’invio di armi e di uomini dall’Italia all’Iraq, in funzione anti Isis – inchiesta di Ilaria de Bonis per “Popoli e Missione”
Il nostro Paese non solo spende una fortuna per il settore della Difesa (nel mirino della società civile per l’improvvido acquisto degli F35), ma è anche tra i Paesi europei che più esportano armi in Medio Oriente. Quest’anno l’Italia ha persino superato Francia e Germania nella vendita di armi verso Israele: il dato viene dall’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa. Per impedire di “gettare benzina sul fuoco” in aree del mondo in cui l’equilibrio è già molto precario – alla vendita si è aggiunto anche l’invio gratuito di armi all’Iraq la Rete Italiana Disarmo ha chiesto al governo chiarimenti. I centri di ricerca che vi aderiscono producono periodicamente analisi puntuali delle relazioni governative, segnalando le numerose vendite di sistemi militari nelle zone di conflitto, ai regimi autoritari e anche ai Paesi fortemente indebitatati che spendono rilevanti risorse in armamenti.

Solo lo scorso anno – informa Rete Disarmo – su un totale di poco più di 2,1 miliardi di euro di esportazioni autorizzate, comprensivo dei “programmi intergovernativi”, quasi il 51,5% ha riguardato Paesi non appartenenti né all’Ue né alla Nato, cioè un insieme di Paesi che non fanno parte delle principali alleanze politiche e militari dell’Italia. In particolare, oltre 709 milioni di euro, pari al 33% delle autorizzazioni sono state rilasciate ai Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Ma soprattutto nel 2013 sono stati effettivamente esportati verso questi Paesi (in cui non è inclusa la Turchia) sistemi d’armamento per quasi 810 milioni di euro pari al 29,4% del totale.
«L’Italia – spiega l’analista Giorgio Beretta – è il maggiore esportatore dell’Unione europea di sistemi militari e di armi leggere verso Israele: si tratta di oltre 470 milioni di euro di autorizzazioni per l’esportazione di sistemi militari rilasciate nel 2012 (dati del Rapporto Ue) ed oltre 21 milioni di dollari di armi leggere vendute dal 2008 al 2012». In percentuale, oltre il 41% degli armamenti regolarmente esportati dall’Europa verso Israele sono italiani. Ma a far discutere, di recente, è soprattutto l’invio di armi e di uomini dall’Italia all’Iraq, in funzione anti Isis. Il nostro governo ha deciso di inviare: un aereo Kc-767 per il rifornimento in volo, due velivoli senza pilota Predator, 280 militari, tra istruttori delle forze curde che contrastano l’Isis ad Erbil e consiglieri degli alti comandi delle forze irachene. Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo, ci ha spiegato che le obiezioni a questa decisione sono svariate: anzitutto c’è il non trascurabile dettaglio della provenienza di queste armi che sarebbero parte di uno stock di munizioni ed armi dell’ex Unione Sovietica, confiscate nel 1994 alla nave Jordan Express. Con ogni probabilità oggi poco efficaci. E dunque la funzione di questo invio sarebbe puramente simbolica: dimostrare ai Paesi della coalizione che l’Italia è presente sul campo. In ogni caso, «uno dei rischi più grossi è che quelle più operative finiscano nel buco del mercato nero. C’è il forte timore che possano andare nelle mani sbagliate», ha spiegato Vignarca. E anche nell’universo curdo le “mani sbagliate” non mancano.

«La sparizione di armi in quella regione è un dato di fatto ampiamente documentato dai rapporti del Pentagono e da Centri di ricerca come il Sipri di Stoccolma», scrive la Rete Italiana Disarmo. Insomma «il rischio è che si vada ad ampliare un incendio», aggiunge Vignarca. Ma l’obiezione assunta non solo dai movimenti pacifisti, suggerisce che in questo contesto mediorientale così incerto e magmatico, armare il nemico del nostro nemico non paga. In generale, la guerra all’Isis andrebbe fatta con altre armi, suggeriscono ricercatori, analisti e docenti. Ad esempio quella del taglio alle risorse finanziare. Isolare finanziariamente l’Isis, impedendogli di rivendere il petrolio estratto o di commerciare con i Paesi del Golfo, sarebbe una vittoria ben più grande. In un bel libro collettivo, dal titolo “La crisi irachena. Cause ed effetti di una storia che non insegna” (a cura di Osservatorio Iraq e Un Ponte per…), la ricercatrice dell’Università di Pavia, Clara Capelli, scrive proprio questo: che l’Isis non è un mostro invincibile e che è da combattere facendo appello alla strategia. Tra le possibili alternative per sottrarre risorse c’è quella di individuare i mediatori tra l’Isis e gli acquirenti del petrolio,e costringerli a non fare da tramite per lo smercio di petrolio le cui risorse vengono impiegate per arricchire i terroristi.

(fonte)