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rete

Mi ricordo

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Andrea Cardoni sta raccogliendo i ‘mi ricordo’ improvvisati che riesce a trovare in giro per il Paese. Una memoria condivisa e digitalizzata che è diventata un tumblr, una pagina Facebook e uno spazio su Medium. Il progetto nasce da una bella frase d Paul Aster che dice ”

«Fermatevi per un momento o due, date modo alla vostra mente di aprirsi, e inevitabilmente ricorderete, con una chiarezza e una specificità che vi stupirà».

Qui c’è il mio piccolo e breve contributo, sul tempo in cui all’oratorio si “facevano le squadre” prima della partita:

Il cookie (e il solito garante)

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Prendo pari pari le parole di Mantellini e come lui vi invito a leggere e sottoscrivere la petizione al Garante qui.

Questo blog non ha alcuna intenzione di adeguarsi alla normativa sui cookie che il Garante della Privacy ha predisposto e che entra in vigore domani. Trova che sia una iniziativa sproporzionata che occupandosi di un tema reale incasina (come al solito e con grande noncuranza) la vita a tutti. Piuttosto trasferisco il dominio a Tonga.

Gli imbecilli della rete

Illuminante Mantellini:

Il linguaggio d’odio quello no. L’hate speech è un tema rilevante che va affrontato con intelligenza. Non perché io creda che le parole d’odio in rete siano un problema rilevantissimo (non lo sono troppo, tranne che in alcuni casi molto particolari) ma perché le parole d’odio oltre ad essere codarde e oltraggiose saranno una scusa per fare altro domani. Da questo punto di vista credo che il contenzioso legale in rete al riguardo sia in Italia ancora troppo modesto e incentrarlo nella discussione pubblica su singoli fatti personali contribuisce a creare un cortocircuito pericoloso. Invece che portare il diffamatore davanti ad un giudice (ma ancora prima più banalmente all’attenzione di Facebook che gli chiuderà il profilo), si preferisce occuparsi del tema in senso generale con editti del tipo: ehi voi, guardate, mi hanno offeso on line. Dobbiamo fare qualcosa! (Laura Boldrini docet). Una quota di imbecilli che scrive “devi morire” in rete rimarrà sempre, ma la parte più rilevante della discussione sulle parole d’odio riguarda altre persone, la maggioranza, e meccanismi basici di controllo dell’interfaccia. Fino a quando questi verranno ignorati ci saranno due tipi di imbecilli nei commenti su Internet. Gli imbecilli imbecilli e gli imbecilli che se avessero avuto idea della propria imbecillità avrebbero fatto in modo di recuperarla prima che fosse troppo tardi.

Il Governo, gli sputi e internet

Aspettiamo da tempo un governo che conosca i modi e le parole per potere affrontare il tema della rete e tutti i suoi derivati. Da anni abbiamo intelligenze (e attività) che chiedono che l’Italia esca dalla preistoria tecnologica e di approccio per allinearsi agli Stati che finalmente hanno fatto pace con i luoghi comuni su internet e riescono ad utilizzarne i vantaggi senza sclerotizzarsi sulle paure. Il convegno sulla “violenza in rete” organizzato dalla Presidenza della Camera dei Deputati avrebbe potuto essere una buona occasione per cominciare a fare le cose seriamente: non è andata così.

Lo spiega bene Massimo Mantellini qui e Vittorio Zambardino:

Quindi me ne vado. E mentre scendo le scale della Camera ripenso che ognuno di noi affonda le sue convinzioni anche nella vita, nella conoscenza di ciò che ha visto o vissuto. Ripenso a un ragazzino di dodici anni, in una scuola in provincia di Napoli, pestato ogni giorno. Gli dicevano ” ricchione”. Lo pestarono fino a quando lui imparò a difendersi. Parlarne ai genitori o ai professori sarebbe stato solo moltiplicare la condanna e le botte. Come spesso oggi. Però era la prima metà degli anni ’60, più di 50 anni fa. Non c’era la Rete. Ma c’era già l’ odio. C’era il disprezzo, c’erano gli sputi, c’erano l’avvilimento e il ricatto. Andava in linea ogni giorno all’uscita. Ora vorrebbero farmi credere che c’entra la Rete, mentre io ricordo bene che c’entra quell’ abisso che è il cuore degli umani. (qui)

 

Scambiare il futuro per presente

twSuccede. Ed è un errore che ogni tanto paghi anche caro. Ieri discutevo nella cucina di un amico (le analisi politiche fatte nelle cucine degli amici mi appassionano molto di più delle liturgie da direttivi, ultimamente) di quanto sia facile credere che gli altri siano noi. Lo so, sembra una banalità detta così, a gli stessi risultati di Ambrosoli (vincente nelle città e sconfitto nelle valli e nelle periferie della Lombardia) dimostra come in fondo siamo caduti (tutti, io compreso, eh) nell’omologazione di credere che siano interessanti le cose che noi troviamo interessanti, che siano bisogni comuni i nostri bisogni personali, che il giusto linguaggio sia il nostro linguaggio. E così accade che ci immaginiamo l’elettore degli elettori (quella strana persona che è la gente) informato in rete, appassionato su twitter e accurato ricevitore di newsletter. Crediamo noi di essere tutti e che il futuro sia già presente e collettivo. Ed ho sbagliato anch’io.

E’ interessante l’analisi su rete e retorica fatta da Valigia Blu:

In definitiva, ci siamo innamorati di una retorica nuovista e dipendente da una presunzione di efficacia nei confronti della tecnologia che ha inficiato le nostre capacità analitiche rispetto al quadro complessivo di ciò che stava sedimentando nel corpo e nella testa dei cittadini. Non l’unico fattore, ma certo uno tra quelli di cui prendere nota per evitare che la prossima volta il risveglio dalle urne sia un incubo di irrilevanza dei media da cui non vediamo la via d’uscita. E che non eravamo stati in grado di anticipare in nessun modo, non certo calcolando la traiettoria di qualunque foglia si fosse mossa su Twitter.

L’articolo completo di Fabio Chiusi è qui.

Coprire il logo. Di fico.

23318692_fiumicino-atr-fuori-pista-sparito-il-logo-dell-alitalia-0Occhio, perché la questione sollevata non è meramente di brand e anzi va ben oltre un aereo finito nel fango. La questione riguarda infatti, più in generale, il rapporto tra poteri e cittadini.

Siamo infatti in un’epoca in cui l’assenza di trasparenza, il sotterfugio ingannevole e il trucchetto nascosto non sono più tollerati. Non c’è niente da fare, è così. Siamo in un’epoca in cui i cittadini (anche nelle loro vesti di consumatori, sì, ma non solo) stanno uscendo e in parte sono già usciti dalla condizione infantile, quella nella quale prendono per buono tutto, passivamente.

E così, in termini di reputazione, Alitalia ha avuto più danni dai suoi fraudolenti e goffi espedienti – l’aereo col suo nome pietosamente ricoperto di una pellicola bianca una volta spiaggiato – che non dall’incidente in sé.

Leggevo questa mattina Alessandro e mi chiedevo se ancora siano in molti a non avere capito che grazie alla rete e alla fame di trasparenza i travestimenti imprenditoriali e politici sono un giochetto che non funziona più. Penso a quanto questo proliferare di prodotti diversamente marchiati (o liste “civicizzate” all’ultimo secondo) sia un insistere in una bugia che funziona sempre meno. Il problema quindi non sono più gli errori e gli incidente quanto piuttosto la “piccolezza” nel metterci una pezza. E l’atteggiamento difensivo svela il modo di essere, di agire e di considerare gli altri che si scioccano sempre molto meno ma si scocciano ormai da troppo. E per molto meno. Davvero.

Suicidi, omofobia e rete

Mi ha molto turbato la vicenda del quindicenne suicidatosi (si dice) per la frustrazione dovuta all’ironia sulla sua omosessualità. La regola del buon blogger e dell’opinionista sempre sul pezzo comanderebbe di costruirci subito un opinione dopo avere letto i primi lanci di agenzia, tipo “fast news” da pagare alla cassa del seguito e del consenso. Sarebbe bastato leggere il resoconto della deputata Paola Concia che ha incontrato i compagni di classe del ragazzo per capire che le semplificazioni (anche quelle giornalistiche) in questi casi rischiano di essere dannose.

Poi ovviamente oggi si titola che “la rete uccide”, che “i social sono troppo pericolosi” e tanto altro sulla stessa linea. Come scrive Fabio Chiusi sul suo blog:

E quindi, è il passo ancora successivo, sceglierebbero l’unica strada possibile: i filtri preventivi. Con questo non si vuole minimizzare o banalizzare il problema del cyber-bullismo, degli insulti che alimentano spirali di disperazione la cui profondità è insondabile a chiunque non ne sia mai stato almeno sedotto. Si vuole semplicemente – e banalmente – dire che «la Rete» non uccide nessuno, che sono le persone a farlo. Che prima di emettere sentenze bisognerebbe cercare, con molta umiltà, di capire. E che, specie in casi delicati come questi, le esigenze giornalistiche dovrebbero lasciare il passo al rispetto per l’umanissima complessità dei fatti.

Perché quando non sono più le persone ad essere il soggetto dell’analisi e dell’opinione la cautela è un dovere morale.

Il senso dei politici (e di Gasparri) per la rete

Gasparri l’ho messo tra parentesi perché annoverarlo nella schiera dei politici mi farebbe passare la voglia di provare a crederci, alla politica ma la riflessione di Francesco su Non Mi Fermo pone un tema che viene sempre affrontato fumosamente (o furiosamente) dagli eletti che salgono sulla giostra dei social come se fosse un’auto blu parcheggiata in pieno entro per comprarsi il pane fresco.

Perché ha ragione Francesco quando scrive:

Perché qui non parliamo solo di Gasparri. Gasparri è il bulletto Polifemo che ha avuto la sfortuna di esagerare in un atteggiamento che però hanno quasi tutti i politici, un errore largamente diffuso: pensano che i Social Network siano come la televisione. Enunciano e quando si rivolgono a qualcuno, lo fanno dall’alto in basso. Oppure semplicemente non considerano, non rispondono.
Le cose, invece, stanno un po’ diversamente da come la pensano. Internet, come ho scritto in passato, è una bestia che ti si può rivolgere contro. Che ti risponde. Non è una platea nascosta dietro una regia televisiva. Attraverso Internet i politici potrebbero finalmente rendersi conto di quello che la gente dice quando da casa li guarda in TV.
Ripenso a mio nonno, che di fronte alle tribune politiche rispondeva incazzato a quei pagliacci in TV, e ai tempi mi chiedevo: chissà cosa penserebbero, se potessero sentirlo.
Ora i social network hanno dato a tutti la facoltà di rispondere, tutti sullo stesso piano. Le regole del gioco è che siamo tutti qui, io e te, noi e voi, con lo stesso diritto di pubblicazione. Questa è Internet, bellezza, e non puoi farci niente, quindi o stai al gioco, oppure te ne vai e lasci spazio a quei politici (soprattutto locali e regionali) che invece i social li usano correttamente, li usano non solo per enunciare, ma anche per interagire, per ascoltare.

Una volta mi chiesero se secondo me i politici dovrebbero avere gli account gestiti da uno staff o fare personalmente. Io risposi che  una regola non c’è, perché anche gli staff, se sono composti da persone che non hanno il “senso” della Rete, possono fare più danni che altro, aumentando quella distanza che certe macchiette della politica pensando di continuare asetticamente ad avere. L’ideale sarebbe una situazione mista, dove il politico sappia partecipare, coadiuvato da una o due persone (di più non ne servono, a nessun livello) in grado di dare presenza, garantire la diffusione e la raccolta di opinioni e anche di insulti, perché ci stanno anche quelli, se hai scelto di fare un certo tipo di vita.
Ma ogni giorno che passa, osservando con occhio da web-antropologo i comportamenti, a volte goffi, a volte sbracati, altre volte completamente insensati, dei nostri politici online, mi ritrovo a disperare sempre di più in un utilizzo corretto del mezzo. E non ci vogliono scienziati della comunicazione, esperti di social media marketing o altre cose esoteriche.
Basta il buon senso.
Internet è una piazza, con le persone tutte lì intorno, senza palchetti. Quello che non faresti in una piazza, non farlo neanche online.
Perché è vero che comunque dietro un monitor si sta belli riparati, ma è meglio non approfittarne, no?
Siamo tutti dei Nessuno.
I Polifemo, qui, si fanno male.

C’è una classe dirigente in questo Paese che sta toccando con mano la propria perdita di cittadinanza per scollegamento dalla realtà. Se succede anche con l’aiuto della rete (e noi possiamo accorgercene e giudicare), tanto meglio.

L’ovvietà sotto l’ombrellone

Giornalisti che si lagnano perché sui social i loro articoli vengono commentati in calce da gente che mette commenti da bar, dimenticandosi che da sempre nei bar i giornali vengono letti ogni mattina e commentati.

Sociologi che si stupiscono perché, quando un movimento politico si ingrandisce, toh, arriva un sacco di gente che nei primi anni non c’era, e prima, pure, votava altro.

Politici che dicono che è meglio se i voti che comunque non prendono loro vanno al Pdl che ad altri, invece di chiedersi preoccupati perché quei voti da anni il partito loro se li sogna e non riesce ad intercettarli.

Colonnine di quotidiani nazionali che ogni santo giorno trovano un pretesto diverso per pubblicare le foto di consigliere regionali ed ex ministre in bikini, salvo poi alzare alti lai contro lo sfruttamento dell’immagine delle donne.

La banalità del banale secondo Galatea.

ps: il titolo è ovviamente banale.

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