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riciclaggio

I risparmi della mamma

Era immaginabile che la procura indagasse il presidente di Regione Lombardia (l’ipotesi di reato è autoriciclaggio e falsa dichiarazione in sede di voluntary disclosure, lo scudo fiscale) per il suo conto corrente in Svizzera di 5,3 milioni di euro, a detta del presidente “ereditati” dalla madre.

Bastava leggere con attenzione la storia raccontata nelle carte dell’altra indagine che vede coinvolto il presidente, quella dei famosi camici del cognato e della moglie prima venduti alla Regione, poi “donati” (perché si erano sbagliati, hanno detto, che sbadati) e infine sequestrati dalla procura. Proprio nel tentativo di pagare quei camici si scopre che Fontana aveva usato il suo conto svizzero per un bonifico di 250mila euro. Sia chiaro: detenere denaro all’estero non è un reato (tra l’altro quei soldi sono stati scudati nel 2015 grazie alla legge voluta dal governo Renzi) ma, al solito, ci sono questioni di responsabilità politica (al di là della questione giudiziaria) su cui basterebbe dare alcune risposte.

Dice Fontana che quel tesoretto siano i risparmi della madre, dentista. «Evasione fiscale? Ma figuriamoci, lei era superfifona», disse Fontana. C’è da dire che fosse piuttosto scaltra, questo sicuro, se è vero che a partire dal 1997 aveva trasferito i suoi soldi prima in Svizzera e poi alle Bahamas su un conto su cui il figlio poteva tranquillamente operare. Attilio Fontana tra l’altro in quegli anni era sindaco di Induno Olona, vale la pena ricordarlo.

Si è parlato poco anche del fatto che i suoceri del presidente (Paolo Dini, il patron della Dama, deceduto due anni fa, e sua moglie Marzia Cesaresco) avessero, con la società di famiglia, spostato circa 6 milioni di euro poi condonati. «L’istante Paolo Dini ha detenuto attività finanziarie all’estero in violazione degli obblighi di dichiarazione dei redditi e di monitoraggio fiscale», si legge nelle note di accompagnamento alla domanda di condono. Evasione fiscale, in pratica. A questo si aggiungono una serie di operazioni (che ha raccontato benissimo Giovanni Tizian per Domani) segnalate come sospette proprio da parte della moglie di Fontana che ha ereditato l’azienda insieme a suo fratello. Quella dei camici, per intendersi.

Eppure a Fontana basterebbe rispondere solo ad alcune semplici domande: quel conto svizzero è il suo unico conto all’estero? Può dimostrare la legittimità di tutte le operazioni effettuate su quel conto? Quando è stato acceso, nel 1997, era destinato solo a preservare i risparmi della mamma, dentista di Varese e all’epoca ultrasettantenne? Fontana ha usato quel conto anche per suoi interessi personali? Se sì, quali? Con che soldi?

Perché siamo sempre alle solite: l’etica dei rappresentanti politici è un tema che sta fuori dalle indagini giudiziarie e Fontana deve delle risposte agli elettori. Semplicemente questo.

Poi magari si potrebbe discutere di come stia governando la Lombardia ma su quello ormai il giudizio è quasi unanime ed è già Cassazione.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Il virus in Lombardia è l’amministrazione di Attilio Fontana

Nuova puntata delle incredibili avventure del signor Fontana che sta piano piano logorando la Lombardia seduto sul trono di presidente di Regione e del suo compagno di brigata Matteo Salvini che ormai rimpiange quelle belle estati in cui l’errore era semplicemente quello di bere troppo Mojito sulla spiaggia del Papeete.

Mettere in fila tutte le bugie della storia dei camici che non lo erano, che erano una donazione che non lo era, di cui sapeva e che non sapeva è qualcosa che provoca le vertigini. In piena emergenza Covid Regione Lombardia acquista mezzo milione di euro di camici da una società che appartiene alla famiglia della moglie di Fontana. La cosa, scoperta dalla trasmissione Report, risulta piuttosto inopportuna poiché l’acquisto di quei camici non avviene con una normale gara pubblica ma con una trattativa privata: viene quasi il dubbio che gli affari della Regione, per di più nel drammatico momento della pandemia, avvenissero nel salotto di casa.

Il cognato di Fontana, raggiunto dai giornalisti, dichiara di avere commesso un errore formale e che quella fornitura di camici era semplicemente una donazione. Toh, guarda che bravo, che cuore d’oro. Accade anche che venga emesso uno storno della fattura prodotta dall’azienda (in effetti era strano il modo di regalare fatturando, in effetti) e si pensa che la storia finisca lì. E invece la Procura decide di volerci vedere chiaro.

E Fontana? “Non ne sapevo nulla e non sono mai intervenuto in alcun modo”, disse lo scorso 7 giugno in un’intervista del Corriere della Sera. E invece mentiva. Eh, sì. Fontana con parte dei soldi di un conto in Svizzera a suo nome (nel 2015 aveva “scudato” 5,3 milioni detenuti fino ad allora da due trust alle Bahamas) il leghista cercò di effettuare già il 19 maggio, proprio nei giorni della famosa intervista di Report, un bonifico sospetto da 250mila euro in favore della Dama spa del cognato e, per il 10%, della moglie Roberta. Il bonifico viene bloccato per le norme antiriciclaggio e così viene scoperto.

Questa è la storia. Quella stessa storia che Salvini vuole derubricare come inchiesta a orologeria (ha imparato la frasetta dal suo padrone Berlusconi). Poi, volendo andare a parlare di politica sarebbe anche curioso sapere cosa siano quei 5,3 milioni di euro nascosti nelle Bahamas e recuperati con lo scudo fiscale.  Insomma tutta la storia fa acqua da tutte le parti.

Ma davvero in Lombardia ce lo meritiamo, Fontana?

Buon lunedì.

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Un Paese dopato

economia-criminaleInsomma l’economia è diventata da tempo il metro di giudizio della riuscita di un popolo. Non piace ma è così. E allora tutti a sciorinare numeri (avete notato che la ripresa è stata annunciata già una decina di volte da questo Governo, no?) e tutti a fantasticare dietro al feticcio del PIL. Io che lavoro con le parole non mi ci ritrovo ma questo srebbe il meno se non fosse che non ci si ritrova ultimamente chiunque abbia a che vedere con la felicità e la dignità. E quando ci illustrano i numeri continuano a parlare di un fatturato che non è reale poiché troppo appesantito dall’economia illegale che dopa la prestazione come nei peggiori sportivi olimpionici. Così oggi esce un articolo su Repubblica che dovrebbe almeno far vacillare le sicurezze dei capi di partito e dovrebbe rimettere in sesto le priorità e invece (scommettiamo?) rimarrà letto e incustodito come tutti gli altri:

Come una metastasi, l’economia nera, quella che reinveste, riciclandolo, il denaro pompato dal crimine, divora il Paese con percentuali di crescita spettacolari. Il denaro sporco immesso nel nostro circuito finanziario ed economico – secondo quanto documentato dalla Guardia di Finanza – ha abbondantemente superato nel 2013 il 10 per cento del Pil, ed è stimato in 170 miliardi di euro l’anno (75 dei quali sottratti al Fisco). Con margini di ricavo che oscillano tra i 17,7 e i 33,7 miliardi di euro e con una divisione del mercato che, sempre su base annuale, vede in cima all’istogramma della redditività il narcotraffico (7,7 miliardi di euro), seguito dalle estorsioni (4,7 miliardi), lo sfruttamento della prostituzione (4,6 miliardi) e la contraffazione (4,5 miliardi).

Il lavoro della Finanza ha consentito negli ultimi dodici mesi di sottrarre a questa immensa torta 3 miliardi di euro (si tratta del valore dei beni sequestrati alla criminalità organizzata). Un dato in sé lusinghiero e tuttavia infinitesimale se tradotto in percentuale (meno del 2 per cento) rispetto a quel valore assoluto – 170 miliardi – che definisce appunto il perimetro dell’economia criminale. Le mafie italiane e il loro fiorentissimo indotto di illegalità e riciclaggio nelle sue diverse forme – dall’usuraio di quartiere, alle società finanziarie, ai broker assicurativi – lavorano infatti in un mercato dei capitali aperto che cammina assai più rapido degli strumenti legislativi o amministrativi costruiti per aggredirlo. E a dimostrarlo basterebbero le 86 mila segnalazioni di operazioni finanziarie sospette girate nel 2013 dall’Uif della Banca d’Italia alla Polizia valutaria, il 40 per cento in più del 2012.

‘Ndrangheta in Valle (d’Aosta)

La ‘ndrangheta è arrivata anche in Valle d’Aosta. Anzi, ci vive da decenni. Ai piedi del Monte Bianco uomini legati ai clan calabresi gestiscono traffici internazionali di stupefacenti, ospitano latitanti illustri e riciclano montagne di denaro sporco lontano dai riflettori dei grandi media. Oggi, per la prima volta, un dossier rivela questa realtà pressoché sconosciuta. Il testo si intitola “L’altra Valle d’Aosta. ‘Ndrangheta, negazionismo e casi irrisolti ai piedi delle Alpi”, è stato realizzato da Libera Valle d’Aosta con la partecipazione di altre associazioni locali ed è pubblicato da Edizioni Gruppo Abele.

La Valle d’Aosta è stata rifugio sicuro per diversi ricercati per mafia sin a partire dai primi anni Novanta. Ha ospitato latitanti di rango come Carmelo Iamonte, boss di Melito di Porto Salvo, e Luigi Facchinieri, della Piana di Gioia Tauro, che qua hanno trovato riparo grazie all’aiuto di parenti e fiancheggiatori. Una tradizione che la regione ha mantenuto fino ai nostri giorni ospitando, a cavallo della strage di Duisburg, anche qualcuno della famiglia Strangio. Non è infatti un caso se le notizie circa gli omicidi della terribile faida di San Luca abbiano viaggiato anche su utenze telefoniche valdostane. La piccola regione del nord Italia è unita alla Calabria malavitosa da un legame più forte di quel che si riesce ad immaginare.

Uno dei primi ad accorgersene è stato Mario Vaudano, Procuratore di Aosta dal 1990 al 1994. Il magistrato, famoso per aver condotto alla fine degli anni ’70 la maxi inchiesta sullo scandalo petroli che fece da apripista a Tangentopoli, denunciò già nel 1994 la presenza nella regione di una “mafia di montagna”. “Già in quegli anni ebbi modo di riscontrare la presenza di persone e condotte che non potevano che fornire consistenti indizi di infiltrazione mafiosa, soprattutto di origine calabrese” scrive oggi il magistrato nell’introduzione al dossier. Per Vaudano il ripetersi nei cantieri di incidenti o danneggiamenti, il traffico di armi clandestine dalla Svizzera, la massiccia e costante presenza di pregiudicati che gravitavano attorno al Casinò di Saint Vincent e prima ancora, nel 1982, l’attentato dinamitardo contro il pretore Giovanni Selis che indagava proprio sul Casinò, costituivano indizi, allora come oggi, della presenza nella Valle di una criminalità non più di provincia”.

In Valle la ‘ndrangheta e i suoi presunti sodali sono, come sempre, insospettabili. Hanno il volto di Franco Di Donato, operaio della Cogne Acciai Speciali e allenatore della squadra giovanile di calcio del Saint-Christophe, comune limitrofo ad Aosta. Di Donato è stato condannato ad otto anni di reclusione, in primo grado, perché coinvolto in un gigantesco traffico di stupefacenti. È stato arrestato nel giugno 2009 insieme a Giuseppe e Domenico Nirta, anch’essi residenti in Valle e a loro volta condannati a 15 anni di carcere. A inchiodarli due partite di cocaina sequestrate dai Carabinieri e di cui nelle intercettazioni si parlava come di “una casa di 1.200 metri quadrati a 25 euro al metro quadrato”, ovvero 1.200 chili di cocaina a 25 mila euro al chilo.

Il quadro si complica quando gli amici degli amici hanno il volto di Giuseppe Tropiano, presidente del Comitato Festeggiamenti Santi Giorgio e Giacomo, la festa dei calabresi della Valle, la più importante ricorrenza dell’intera regione. Una kermesse di grande richiamo per la quale il comune di Aosta e la Regione stanziano ogni anno decine di migliaia di euro di fondi pubblici. Fondi che non sono mancati neppure nel 2012, quando il comitato organizzatore della Festa ha percepito i suoi quasi 40mila euro nonostante il suo presidente, Tropiano, fosse indagato per favoreggiamento nei confronti della ‘ndrangheta. Poco dopo, nel gennaio 2013, lo avrebbero condannato ad un anno di reclusione.

Tropiano, imprenditore, è stato coinvolto nell’inchiesta Tempus Venit, nata a seguito di una serie di incendi e danneggiamenti nei cantieri aostani. Alla sua conclusione, lo scorso gennaio, sette imputati sono stati condannati a pene complessive per trent’anni di carcere, con accuse che vanno dalla tentata estorsione aggravata da metodi mafiosi al favoreggiamento.

Più che un’isola felice la Valle d’Aosta si mostra come una terra complessa dove un diffuso clientelismo tende a nascondere i problemi sotto il tappeto. Dove l’evasione fiscale raggiunge cifre record e colloca la regione agli ultimi posti della classifica nazionale, vicina a quelle del sud. Per dirla con le parole della referente di Libera Valle d’Aosta Marika Demaria, “incendi, attrezzi edili combusti, negozi che chiudono per riaprire il giorno successivo o che mantengono la loro attività nonostante siano sempre deserti, evasione fiscale sono la spia di una società permeabile (quando non addirittura permeata) alle mafie, che non si manifestano più con la coppola e la lupara”. Un mondo che resta ancora in gran parte da scoprire e che neppure ad Antonio Ingroia, se davvero si trasferisse alle pendici del Monte Bianco, lascerebbe certo il tempo d’annoiarsi.

(via)

30 euro al voto

Succede a Milano. Con di mezzo la camorra:

polizia-arrestoMaxi operazione dei carabinieri di Monza tra la Lombardia e la Campania per smantellare un’organizzazione camorristica che aveva stretti rapporti con ambienti della politica brianzola. L’indagine, denominata ‘Briantenopea’, ha avuto inizio nel 2010, da una rapina a un punto Snai a Gorgonzola nel mese di maggio, a cui sono seguiti altri due simili episodi a Brugherio ed Arcore, che hanno permesso, con intercettazioni e pedinamenti, di mettere in evidenza l’operatività di una “radicata associazione per delinquere composta, prevalentemente, da soggetti italiani di origine campana di elevato spessore criminale, in contatto con esponenti di clan camorristici del napoletano come Gionta e Mariano. Il nome più in evidenza è quello di Giuseppe Esposito, detto ‘Beppe ‘u curtu’. 

I carabinieri del gruppo di Monza hanno eseguito 43 ordinanze di misura cautelare, di cui 35 in carcere e 8 arresti domiciliari, nelle province di Monza, Milano, Lecco, Padova, Napoli, Avellino, e Salerno. Tra gli arrestati c’è anche l’ex assessore all’Ambiente e al Patrimonio del Comune di Monza, Giovanni Antonicelli (Pdl), a cui è stato contestato il reato di associazione a delinquere, come ad altri 20 soggetti. In sostanza, in cambio di voti, l’ex assessore avrebbe favorito gli affari del clan. Proprio sulla compravendita dei voti l’organizzazione avrebbe addirittura stilato un tariffario che andava dai 30 euro per il singolo ai 50 euro per il voto di un’intera famiglia. 

Due i fronti sui quali la magistratura di Monza, coordinata dal sostituto procuratore Salvatore Bellomo, ha concentrato le attenzioni nei confronti dell’ex assessore Antonicelli. Il primo è relativo alla manutenzione degli alloggi Aler, incarico affidato alla Pmg; il secondo riguarda la raccolta dei rifiuti nel capoluogo brianzolo, da anni affare della Sangalli. A giugno, la guardia di finanza si era presentata in Comune per acquisire materiale proprio sugli appalti delle case popolari e della raccolta rifiuti. Un passo a cui si era arrivati dopo che i carabinieri di Monza avevano messo in relazione una serie di scenari anomali su tutto il territorio. Scenari che hanno portato gli inquirenti a parlare di una vera e propria ‘enclave’ camorristica sul territorio di Monza in grado di respingere perfino tentativi di espansione della ‘ndrangheta.

I reati contestati in generale vanno dall’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di gravi delitti quali rapine, estorsioni, usura, furti, ricettazione, al riciclaggio, spaccio di banconote false, detenzione illecita di sostanze stupefacenti e di armi e di reati contro la pubblica amministrazione. Citato ma non indagato, anche un ex consigliere comunale milanese del Pdl Renzo De Biase, in carica nella scorsa legislatura.

Magari con le figure funziona

Vediamo se si riesce con le figure. Perché a parole lo ripetiamo da anni nelle scuole, nei libri, nelle piazze e negli spettacoli che i centri commerciali (e, soprattutto qui in Lombardia) stanno così tanti e così vicini da non avere abbastanza clienti. Mentre la politica e le associazioni di categoria non sanno mai trovarci una giustificazione credibile. Che l’ipermercato vicino a casa spesso è il monumento di pezzi di imprenditoria che hanno bisogno di spendere piuttosto di guadagnare. Soldi che devono assumere una forma qualsiasi l’importante è che non puzzino più di soldi, che non abbiano la forma riconoscibile dei soldi: come le case costruite nei nostri paesi che non vengono vendute, le zone industriali nuove di fianco a quelle vecchie tutte disabitate. Legambiente ne parla, con le figure. Magari così è più chiaro.

Le mafie fanno shopping

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Grazie a Paolo Pinzuti per la segnalazione. Qui la sua riflessione su ipermercati e mobilità.