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ricostruzione

Se va a un matrimonio vorrebbe essere la sposa

Invece di rispondere in conferenza stampa sui suoi rapporti con l’Arabia Saudita (come aveva promesso), Matteo Renzi si è inventato l’autointervista. E che fa? Mischia le carte e naturalmente si dimentica di farsi domande importanti

«È così egocentrico che se va a un matrimonio vorrebbe essere la sposa, a un funerale il morto». Rubo le parole che Longanesi dedicò a Malaparte per provare a raccontare come Matteo Renzi abbia pensato di risolvere la questione dei suoi rapporti a pagamento con il principe ereditario Mohammed bin Salman.

Ricapitoliamo. Nel pieno della crisi di governo (da lui provocata) Matteo Renzi conduce un’intervista con il principe saudita in cui magnifica il regime, magnifica il principe (lo chiama più volte “amico mio” e “grande” principe), basta guardarsi il video dell’intervista, parla di un «nuovo Rinascimento» e addirittura ammette di invidiare “il costo della lavoro” dei sauditi. Tutto questo alla modica cifra di 80mila euro (o dollari, Renzi non ricorda esattamente) all’anno.

Quando esce la notizia del suo essere al soldo del principe saudita lui si difende, piuttosto goffamente, dicendo che rientra tutto nella sua normale attività di “conferenziere”: falso. Conferenziere non significa essere pagato per contribuire alla ricostruzione di una credibilità che i sauditi faticano a mantenere: molti grandi gruppi dei media – come New York Times e Cnn – dopo l’omicidio di Khashoggi, editorialista del Washington Post, hanno boicottato la Future Investment Initiative del principe bin Salman. L’ingaggio di Renzi evidentemente è tornato molto utile per coprire un buco che altri non erano disposti a coprire. È legale? Sì, purtroppo, perché in Italia (e solo in pochi altri Paesi) c’è un evidente buco legislativo. È legittimo? Ognuno ha la sua idea.

Poi accade che Renzi, incalzato, affermi letteralmente: «Prendo l’impegno di discutere con tutti i giornalisti in conferenza stampa dei miei incarichi internazionali, delle mie idee sull’Arabia saudita, di tutto; ma lo facciamo la settimana dopo la fine della crisi di governo».

La crisi di governo si è risolta e intanto Biden ha reso pubblico il rapporto dell’intelligence Usa che conferma la diretta responsabilità del principe saudita nell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Una brutta botta per il leader di Italia Viva.

Arriviamo finalmente a questi ultimi giorni, Renzi risponde, bene, e come risponde? Intervistandosi da solo. Badate bene: aveva parlato di «discutere con tutti i giornalisti in conferenza stampa» ma furbescamente si inventa l’autointervista per avere a che fare con l’unica persona di cui è interessato e che stima davvero: se stesso. E che fa? Mischia le carte, come molti dei suoi fan sui social in queste ore, confondendo attività politica e attività professionale personale. Il trucco è quello di equiparare l’attività politica di rappresentanti politici in carica (su cui poi ci sarebbe parecchio da scrivere) con il suo lavorare per la propaganda di regime di un Paese straniero mentre è senatore pagato dai cittadini italiani. Peccato che su questo punto il Renzi giornalista non abbia avuto la prontezza di interrogare il Renzi intervistato. Scrive Renzi che è «giusto e anche necessario» avere rapporti con l’Arabia Saudita, Paese «baluardo contro l’estremismo islamico e uno dei principali alleati dell’Occidente da decenni» confondendo il lavoro diplomatico con l’attività di un privato cittadino. Insomma, il solito Renzi.

Nella sua risposta ovviamente non cita mai il principe (non sia mai, che non si irriti “amico mio”), spende ancora parole d’elogio per la famiglia reale saudita ma si dimentica di farsi la domanda sugli interessi economici dei sauditi in Italia e in Europa. Che distratto. Sarebbe stata una bella domanda. In compenso si fregia di pagare le tasse, come se fosse una cosa straordinaria. Grandioso.

E infine, come sempre, la butta sul vittimismo politico: questo però è sempre un classico. Renzi infine rivendica di essere sempre pronto a parlare di diritti umani ovunque sia necessario: benissimo, ma ci faccia sapere su mandato di chi e se poi emette fattura. Così ci viene più facile.

Buon lunedì.

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Omicidio Regeni, l’Egitto prende a schiaffi i pm italiani: il Governo faccia qualcosa

Ma che altro deve succedere perché l’Italia e la storia di Giulio Regeni non vengano usate come zerbino dall’Egitto? Ma che altro deve succedere perché il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, abbia un sussulto di dignità – lui e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte – perché venga difesa non solo la memoria di un ragazzo che muore quasi ogni giorno sotto i colpi dell’impunità del governo di Al-Sisi, ma almeno la credibilità della Giustizia italiana, che viene addirittura definita “illogica” e basata su “fatti e prove errati, che costituivano uno squilibrio nella percezione dei fatti”?

È notizia recente la consegna di una fregata militare da parte dell’Italia all’Egitto che ecco subito dopo che la procura egiziana si diverte ad attaccare la procura di Roma, il procuratore capo Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco.

In sostanza l’Egitto, quello stesso Egitto che nel corso di tutti questi mesi ha inscenato le più improbabili storture per nascondere l’omicidio di Stato del giovane ricercatore friulano, ora vorrebbe farci credere che qualcuno lo scorso 25 gennaio del 2016 avrebbe ucciso Giulio Regeni per poi addossare la colpa al governo egiziano.

Ma avete capito fino a quanto si possa spingere l’ipocrisia omicida di un governo? Dicono in pratica che Regeni sia morto per creare danno a loro. Loro, che continuano a stringere mani insanguinate con pezzi di governo italiano per scambiarsi armi, loro che insistono nel prendersi gioco bellamente dei nostri rappresentanti di governo che non riescono a produrre nulla di più di qualche pelosa dichiarazione d’indignazione da consegnare alla stampa e da dare in pasto all’opinione pubblica.

Ma oggi, mentre la procura egiziana smentisce la ricostruzione dell’Italia, senza nemmeno prendersi la fatica di offrire almeno un’altra versione dei fatti, senza nemmeno curarsi di indicare dei presunti colpevoli, lo sentite l’odore della vergogna che si spande tutto intorno?

Davvero si vuole ottenere verità su Giulio Regeni limitandosi a intitolargli qualche stanza o qualche convegno? Ma qual è la strategia del governo? Aspettare che ce ne dimentichiamo? Augurarsi che smettiamo di scriverne?

La storia di Giulio Regeni sanguina un vocabolario che ci stringe ogni giorno a scendere negli inferi dell’incredulità di fronte a atteggiamenti così irresponsabili: irresponsabile il silenzio italiano, irresponsabile l’odore del sangue slavato male che arriva dall’Egitto. Ma ne scriveremo tutti i giorni, tutto il giorno, senza tregua.

Leggi anche: 1. Alla vigilia di Natale, nel silenzio generale, l’Italia ha consegnato una nave militare all’Egitto. Con buona pace di Regeni / 2. La verità su Giulio Regeni è un diritto: l’Italia smetta subito di vendere armi all’Egitto (di Alessandro Di Battista)

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Bella ciao, Lidia

È partita Lidia, fiaccata dal Covid ma con tutta la brillantezza dei suoi 96 anni vissuti tutti senza nodi in gola, con la libertà di chi lotta per la libertà e la giustizia. Ogni volta che muore un partigiano a guardarla da fuori questa nostra Italia sembra un po’ più debole per affrontare la ricostruzione e questa brutta aria che spira in giro per l’Europa. Ogni volta che muore una partigiana perdiamo una chiave per leggere il presente.

Lidia Menapace, all’anagrafe Brisca, era una pacifista. E quanto abbiamo bisogno di pacifisti che amano la lotta e disprezzano la guerra, come spesso ripeteva lei. E sapeva bene che la lotta dei partigiani non è qualcosa che va rinchiuso in un solo periodo storico, nonostante sia la tesi di molti a destra e di troppi anche a sinistra: «La lotta è ancora lunga perché quello che abbiamo ottenuto è ancora recente e fatica a durare», disse, con una lucidità che servirebbe a molta della nostra classe dirigente.

Fu staffetta partigiana e rivendicò il ruolo delle donne durante la guerra della Liberazione: «Contesto l’idea che le donne potessero essere solo staffette perché la lotta di liberazione è una lotta complessa», disse lo scorso 25 aprile in un’intervista che le fece Gad Lerner. «Il Cnl del Piemonte mi disse che potevo essere partigiana combattente anche senza portare armi». Di noi dicevano che «eravamo le donne, le ragazze, le puttane dei partigiani». Ma «senza le donne che ricoveravano l’esercito italiano in fuga non avrebbe potuto esserci la resistenza». Quando Togliatti chiese che le donne non sfilassero alla sfilata della Liberazione a Milano perché, secondo lui, il popolo non avrebbe capito lei non seguì l’ordine e si presentò comunque.

Quando si laureò nel 1945 con il massimo dei voti in Letteratura Italiana il suo professore lodò il suo lavoro definendolo frutto di “un ingegno davvero virile”. Lei non gliela fece passare e si prese dell’isterica. È la stessa Lidia Menapace che diventa la prima donna eletta nel consiglio provinciale di Bolzano, dove abitava, poi assessora alla sanità e agli affari sociali. Poi in Parlamento come senatrice di Rifondazione comunista quando era a un passo da diventare presidente della commissione Difesa ma non si trattenne dal dire che le Frecce tricolori fossero “uno spreco di soldi pubblici”. Mai moderata, mai zitta. Venne sostituita dal dimenticabile Sergio Di Gregorio dell’Italia dei Valori.

La sua formazione da donna libera la raccontava così: «Mia madre insegnò a noi due figlie un suo codice etico. Ci diceva: “Siate indipendenti economicamente e poi fate quello che volete, il marito lo tenete o lo mollate o ve ne trovate un altro. L’importante è che non dobbiate chiedergli i soldi per le calze”». Combatté il sessismo nel linguaggio. A proposito delle declinazioni delle parole al femminile scrisse: «Se è tanto poco, dicevo, perché non si fa? Non si fa perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, non come vivibilità, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo della oscurità sulla propria».

Era una donna libera Lidia Menapace e non poteva che essere innamorata della libertà.

Buon martedì.

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“Addio Benetton. Il governo ha vinto. E anche l’Italia”: Giarrusso (M5S) a TPI

Dino Giarrusso è europarlamentare del Movimento 5 Stelle ma sempre molto attento alle dinamiche nazionali che riguardano il governo Conte. Si dice soddisfatto per l’accordo trovato su Autostrade e fiducioso per la tenuta del governo in futuro.
Onorevole Giarrusso, come valuta l’accordo con i Benetton preso dal governo?
Lo valuto molto positivamente perché per una volta un governo non cede al capitalismo di relazione che secondo me ha inquinato completamente la società italiana negli ultimi decenni, legando grandi capitali a vecchi partiti e sistema dell’informazione. Non era facile estromettere Benetton dal controllo delle Autostrade e questo governo ce l’ha fatta, la ritengo una vittoria per i cittadini.

Qualcuno però fa notare, anche all’interno del Movimento 5 Stelle, che la soluzione sia una revoca dolce e ci vorrà molto tempo prima che la soluzione si realizzi…
Io non la ritengo una revoca dolce. Per la prima volta in Italia chi ha commesso delle gravi mancanze (oltre ad avere fatto morire 43 persone, il crollo di un ponte è in sé una ferita per Genova e per l’Italia) non riceve sconti, cosa che ci è stata riconosciuta anche dalla Corte Costituzionale quando abbiamo deciso di non far partecipare la società alla ricostruzione del ponte. Poi…
Cosa?
Poi per i cittadini il pedaggio diminuirà significativamente e anche questa la ritengo una vittoria civile, un lavoro ben fatto. Inoltre ci sarà il risarcimento di 3,4 miliardi di euro, quindi chi ha sbagliato pagherà. Tra l’altro l’accettazione di queste condizioni fa sì che non ci siano contenzosi, ciò che in Italia può durare decenni e far permanere la concessione “in attesa di sentenza definitiva”. Abbiamo anche casi di contenziosi finiti economicamente molto male per lo Stato e quindi per le tasche di tutti noi: questa volta non accadrà.

Tutto bene quindi?
La ritengo una soluzione positiva ed anche un buon esempio per il futuro: val la pena sottolineare anche che scendendo sotto il 10% i Benetton non siederanno nemmeno più nel Consiglio di Amministrazione.
Come legge le fibrillazioni di Italia Viva, di alcuni del PD e addiritutra dello stesso M5S?
I mal di pancia di Italia Viva e minima parte del PD li leggo allo stesso modo in cui leggo che Prodi e De Benedetti insieme propongono di fare entrare Berlusconi nel governo: sono i colpi di coda di un sistema che non ha funzionato, non ha fatto il bene degli italiani eppure non vuole cedere per fini di potere. Nostalgie trasversali in tutti i vecchi partiti (tutti, nessuno escluso, purtroppo, compresi quelli che stanno e che stavano al governo con noi) di esponenti che fanno parte del vecchio sistema e che non vogliono cambiarlo. Per questo ci sono tante resistenze, il cambiamento scontenta molti. Nel M5S non ho sentito voci dissonanti sulla vicenda Autostrade.

Come valuta le tenuta di questo governo alla luce dei retroscena sull’ingresso di Forza Italia e i mal di pancia di Renzi?
Penso che questo governo abbia innegabilmente portato un cambiamento. Poi, per carità, può piacere o non piacere ma il cambiamento in Italia è una dinamica molto difficile. Ci sono state molte persone per bene che nei decenni scorsi hanno fatto battaglie anche importanti in formazioni “pulite”, ma purtroppo non hanno portato nessun risultato concreto se non quello della semplice testimonianza: il Movimento ha invece cambiato delle cose concrete -con tutti i nostri limiti – e questo crea problemi a chi vorrebbe che le cose non cambiassero mai. Il fatto che molti sedicenti antiberlusconiani – e persino storici nemici di Berlusconi come Prodi e De Benedetti – abbiano rivalutato la figura di Berlusconi “pur di togliere Conte e M5S dal governo” la dice lunga su quanto fastidio diamo al vecchio sistema. Questo valeva durante il contratto di governo con la Lega e vale adesso: abbiamo perseguito i nostri obiettivi e il nostro programma politico (penso alla legge Spazzacorrotti, al reddito di cittadinanza, al taglio dei vitalizi…) cercando di tenere la barra di governo quanto più vicina al nostro programma.

Intanto il Movimento ha trovato l’accordo sulla Liguria con il Partito Democratico candidando Sansa…
Non mi risultano accordi chiusi. Ciò detto: io penso che il Movimento sia alternativo a tutti gli altri partiti, dunque riguardo eventuali alleanze vanno valutate solo se rispettano i nostri valori. Ci sono regioni come la Sicilia in cui abbiamo sfiorato il 40% e non governiamo. Prima di parlare di accordi bisogna però decidere insieme programma, valori di riferimento e candidato presidente. In Campania, ad esempio, dove c’è De Luca per quel che mi riguarda non c’è nemmeno da discutere. Altrove si può discutere, ma tenendo sempre la barra dritta. Peraltro son cose che poi decideranno i nostri iscritti come abbiamo sempre fatto.
Ma il nome di Sansa la soddisfa?
C’è un tavolo in corso: se gli attivisti liguri e il capo politico stringono un accordo alle nostre condizioni, potremmo mettere fine alla disastrosa gestione Toti.

Leggi anche: 1. Autostrade: chi ha vinto e chi ha perso. Tra Conte e i Benetton, passa la linea Gualtieri / 2. Autostrade: dopo il Cdm vicina l’intesa finale. Niente revoca, ma Atlantia sotto il 10%: entra lo Stato

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Il razzismo in divisa ha ammazzato ancora: e ora, caro Trump, è il momento di provare vergogna

È successo ancora. Succederà ancora. Come quando accade un incidente, che ne so, di un treno e tutti i giornali si mettono a scovare i più piccoli disguidi dei viaggi dei treni, così negli USA si moltiplicano le segnalazioni e le notizie delle violenze della polizia sua afroamericani. Solo che in questo caso Manuel Ellis è morto, a soli 33 anni, dopo un pestaggio violento in cui la divisa è solo un elemento scenografico di un pestaggio della peggior specie, niente a che vedere con il ruolo pubblico e la responsabilità che ci si aspetterebbe da un tutore della legge. È morto perché, dicono i poliziotti, ha aggredito lui per primo, come nelle risse fuori da scuola in cui la legge del taglione o l’abuso di una difesa sia una cosuccia normale da giustificare come un incidente di percorso.

Eppure che Manuel Ellis sia stato ammazzato lo dice chiaramente il medico legale e ora altri quattro poliziotti, dopo il caso Floyd, si ritrovano sotto i riflettori per l’uso sconsiderato della forza. Se sei nero, dalle parti degli USA, rischi di essere processato per direttissima dalle suole delle scarpe di chi dovrebbe garantirti giustizia.Il video rimbalzato sulle pagine del New York Times lascia poco spazio ai dubbi e infervora ancora di più una protesta che ha assunto proporzioni più ampie del solo sdegno per una morte. Oggi negli USA si critica uno sdoganamento della violenza come mezzo per controllare l’ordine pubblico e che la violenza chiami solo violenza è uno di quegli insegnamenti che di solito vengono dati fin da bambini e che hanno chiaro quasi tutti, escluso il presidente del Paese più potente del mondo.

Ora il giochetto sarà sempre lo stesso, quello che non è solo americano: lamentarsi per lo spirito poliziottofobico dell’opinione pubblica e per il troppo spirito indagatore dei media. Di solito quando un potere non riesce a fare smettere che accada una vergogna si concentra sul non farla raccontare, come se potesse funzionare un silenzio omeopatico che vorrebbe fare sparire i fatti. Di certo Manuel Ellis è morto e anche di questo cadavere qualcuno dovrà rispondere. Tra l’altro Trump ha anche la sfortuna che l’omicidio sia avvenuto ben prima delle proteste (sarebbe stato fin troppo facile dare la colpa ai contestatori) e ora dovrà inventarsi qualcosa di nuovo, probabilmente di stupido. E l’aspetto peggiore di tutta la vicenda è che probabilmente lo farà presto e senza nemmeno troppa fatica e troppa vergogna.

Leggi anche: 1. “Non riesco a respirare”. L’arresto, le botte: così è morto Manuel Ellis. Ricostruzione del caso / 2.Il sindaco di Minneapolis si inginocchia e piange davanti alla tomba di George Floyd | VIDEO/3.George Floyd, il rapper Kanye West dona 2 milioni di dollari e paga l’istruzione della figlia Gianna/4. Il video postumo di George Floyd, lo straziante appello ai giovani sulla non violenza

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Quella forza che è il cemento della ricostruzione

Mi si perdoni se, contravvenendo alle regole del giornalismo di massa, mi prendo la briga, per una mattina, di osservare il terremoto dalla parte inversa e in senso largo. C’è questa storia, bellissima, del ristorante Roma di Amatrice, il “tempio dell’amatriciana” l’hanno etichettato l’anno scorso quasi tutti tra giornali e telegiornali sempre presi dalla frenesia di sloganizzare tutto in nome di un scorrevole storytelling.

L’hotel Roma, per chi ha memoria di quelle immagini senza bisogno di didascalie, è l’albergo che abbiamo rivisto mille volte completamente afflosciato su se stesso in cui persero la vita sette persone. Se passavi da Amatrice e volevi mangiare amatriciana l’hotel Roma di Arnaldo Bucci era una tappa obbligatoria. Ed è significativo, dell’albergo come per altre attività, il fatto che il crollo abbia spazzato tutto: ciò che era casa ma anche il lavoro, la passione e la fonte di reddito. Tutto.

Tra le decine di interviste “un anno dopo” c’è n’è una a Bucci in cui la giornalista del Corriere della Sera gli chiede se è mai tornato ad Amatrice, sulle macerie del vecchio hotel, almeno per recuperare qualcosa e Bucci risponde:

«E cosa? Non sono rimaste che macerie. E poi non mi importa di recuperare niente, ormai quella è vita passata. Non mi interessa vedere che è tutto sbriciolato».

Oggi l’Hotel Roma e i suoi piatti di amatriciana sono attivi a pieno servizio nella nuova area consegnata ad Amatrice grazie anche alle donazioni. L’attività è ripresa alla grande: i clienti non mancano e gli affari vanno bene. Hanno ricostruito. Bucci e gli amatriciani si sono ricostruiti, soprattutto. E dentro quella frase c’è la forza del “lasciare andare”, con l’urgenza di rimettersi in piedi. C’è la forza (che io ammiro furiosamente) di essere già nel futuro senza abbandonarsi a funebri rimestamenti o addirittura a necrofile rivendicazioni. A me pare che quella frase sia un manifesto bellissimo. Da attaccare su tutti i muri, mica solo per i terremoti. È quello il cemento. Di ogni ricostruzione.

(continua su Left)

Un anno dopo

«Qui tutto è fermo, tutto bloccato, ancora inagibile: interi paesi sono inaccessibili agli abitanti, molte strade restano chiuse, le stalle sono per la maggior parte inutilizzabili, gli sfollati sono ancora sfollati e sparpagliati tra campeggi sulla costa, alberghi, agriturismi o appoggi da parenti. Le famiglie non sanno ancora in quale scuola iscrivere i propri figli data l’incertezza sul possibile domicilio che gli verrà, forse, destinato a settembre. I negozi sono ancora chiusi, solo alcuni sopravvivono, ristretti in pochi containers; molti sono stati costretti a riaprire sulla costa e difficilmente potranno tornare indietro.»

Marco Gentili ha scelto le parole di Enza Amici come didascalia alla sua gallerie di foto sulla situazione post-terremoto delle le frazioni (Fiordimonte, Casali, Gualdo) e le città (Visso, Castel Santangelo sul Nera) del cratere, nella provincia di Macerata e all’interno dei Monti Sibillini, a distanza di un anno dagli eventi sismici del 24 agosto 2016, che hanno colpito il Centro Italia. E vale la pena vederle, per giudicare. Qui.

 

La ricostruzione post terremoto? «Non esiste». Parola del commissario per il sisma, Vasco Errani (che poi media)

La ricostruzione non esiste. E’ questo in sintesi il pensiero del commissario per la ricostruzione, Vasco Errani. Commentando il drammatico stato della ricostruzione post terremoto davanti ai sindaci dei comuni colpiti dal sisma il 15 febbraio scorso ad Ancona, Errani avrebbe detto: “Non esiste il fatto che per cominciare a fare le casette, che non è ciò che devo fare io, si attenda di avere il fabbisogno definitivo di tutte le casette. Non esiste. Non esiste che per fare le stalle bisogna metterci tutto questo tempo. Non esiste. Non esiste”. L’audio è stato pubblicato sul sito del settimanale Panorama.

“Non riusciamo andare avanti su alcune cose”

“Bisogna darsi una governance totalmente differente, è un punto all’ordine del giorno di questa riunione e doveva forse essere il primo. Non c’è dubbio che avendo avuto quattro terremoti, la dimensione è stratosferica, ma questo non risolve il fatto che non riusciamo andare avanti su alcune cose: macerie, stalle, casette… Questa non è ricostruzione, non lo è, questa è gestione dell’emergenza. Bisogna darsi un’altra governance sennò non ce la faremo”, ha aggiunto il commissario voluto dall’ex premier Matteo Renzi e confermato da Paolo Gentiloni.

Panorama: Errani ha parlato di un quadro drammatico

Vasco Errani nel chiuso di una stanza con gli altri amministratori, avrebbe sottolineato, come riferisce il settimanale “il fallimento dello Stato, che lui stesso rappresenta, nella gestione delle fasi successive alle terribili scosse che hanno messo in ginocchio diversi paesi di Marche, Umbria, Abruzzo e Lazio”. “Errani ha detto più volte ‘non esiste’ – prosegue Panorama – di fronte all’evidenza della consegna delle casette, della quasi totale inagibilità delle stalle e dei ritardi sul ripristino della viabilità che vede ancora molti paesi isolati”. “Rivolgendosi ai sindaci – prosegue l’articolo – Errani ha testualmente parlato di un quadro drammatico a cui si aggiunge la beffa dei sopralluoghi”.

La smentita: “Mai parlato di fallimento Stato”

L’ufficio stampa del Commissario per la ricostruzione smentisce parte della ricostruzione del giornale. “Ad Ancona, ad una affollata assemblea di sindaci, amministratori locali e regionali, il commissario per la ricostruzione, Vasco Errani, non ha parlato né di drammi né tanto meno di ‘fallimenti dello Stato’, assolutamente inesistenti”. “Semplicemente, anche in forza del nuovo decreto che prevede procedure più rapide – prosegue l’ufficio stampa – il commissario Errani ha sottolineato l’esigenza concreta di moltiplicare gli sforzi per accelerare. Questo è ciò che si è deciso in quella sede ed è ciò che si sta facendo”.

Errani verso l’addio al Partito Democratico

Intanto l’ex presidente dell’Emilia-Romagna si prepara a lasciare il Pd per seguire Bersani. “Al di là di quanto scrivono i giornali, io parlerò di politica solo sabato, alla riunione del mio circolo di Ravenna. Fino ad allora non farò dichiarazioni di nessun tipo sui temi del Partito Democratico”, ha detto Vasco Errani, che non ha mai nascosto la sua vicinanza con Pier Luigi Bersani.

(fonte)

L’arte di curare la speranza

In un momento in cui la disperazione è diventata un’affilatissima arma politica costruire speranza è la vera sfida. Non proiettarla: costruirla, curarla, carpirne il senso e il valore e trattarla con misura. Misura: quella stessa misura che oggi sembra rara e fuori moda. La coltivazione onesta della speranza sta diventando una mia fissazione; conoscerne i metodi, imparare a valutarne i modi e provare ad uscire da questa corrente che vorrebbe sminuirla a ingenuità.

Come diceva Clara Boothe Luce non credo che esistano persone disperate ma che ci siano persone convinte di non potercela fare e questi sono il capitale umano da mobilitare per costruire davvero un diverso futuro. Qualche giorno fa mi scriveva un amico raccontandomi che i posti all’università di Milano per la presentazione di “La felicità al potere”, il libro di  José Mujica, si sono esauriti nel giro di poche ore. Abbiamo bisogno di contenuti positivi. Siamo sicuri di saperli riconoscere?

Su terremoto, speranza e responsabilità ne ho scritto per Fanpage qui. Sono curioso di sapere voi cosa ne pensate.

 

Due puntualizzazioni su “San Errani” e la ricostruzione in Emilia

Ne scrive Giovanni Tizian per l’Espresso:

«A  luglio del 2012 il commissario per l’emergenza Vasco Errani, aveva stanziato l’ingente somma di 56 milioni di euro, al fine di ricostruire entro la fine di settembre, edifici scolastici temporanei, a seguito della rovina di quelli esistenti. Ecco comparire di nuovo la società di San Felice (finita sotto sequestro e adesso gestita da un’amministratore giudiziario per conto del tribunale), guidata all’epoca da Augusto Bianchini – ora imputato per concorso esterno. In questo caso è sospettata di aver smaltito amianto in alcuni cantieri della ricostruzione. Nelle strade, ma anche in una scuola di Reggiolo. È emerso, inoltre, dall’indagine Aemilia che nei cantieri di Bianchini lavoravano maestranze assunte grazie all’intermediazione dei boss delle ‘ndrine emiliane. Trattati come schiavi. Con il salario decurtato per pagare il “pizzo” ai padroni delinquenti. Sfruttatamento in piena regola, che ha spinto i sindacati a costituirsi parte civile nel maxi processo in corso a Reggio Emilia.

In Emilia, dunque, la ricostruzione è stata inquinata. Non sveliamo nulla riportando un’intercettazione tra due affiliati che nei giorni successivi al sisma ridono alla grande, e sui morti, per le opportunità di lavoro che si prospettavano. Come fu per L’Aquila, anche qui gli affaristi hanno visto nelle macerie nuove opportunità.»

(l’articolo è qui)