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Andrebbe riletto Primo Levi

Andrebbe riletta l’intervista dello scrittore e testimone della Shoah, in cui parlò di «orrore» per una «rappresaglia sbilanciata che assume forme e dimensioni barbariche» di Israele verso la Palestina. E molti altri suoi interventi sul tema

Andrebbe riletto Primo Levi. Andrebbe riletto il libro di Berel Lang in cui Levi dice: «Dal 1935 al 1940, rimasi affascinato dalla propaganda sionista, ammiravo il Paese e il futuro che stava pianificando, di uguaglianza e fratellanza». Andrebbe riletta la Conversazione con Levi di Ferdinando Camon in cui Levi dice: «Lo Stato d’Israele avrebbe dovuto cambiare la storia del popolo ebraico, avrebbe dovuto essere un zattera di salvataggio, il santuario a cui sarebbero dovuti accorrere gli ebrei minacciati negli altri Paesi. L’idea dei padri fondatori era questa, ed era antecedente alla tragedia nazista: la tragedia nazista l’ha moltiplicata per mille. Non poteva più mancare quel Paese della salvezza. Che ci fossero gli arabi in quel Paese, non ci pensava nessuno. Ed era considerato un fatto trascurabile di fronte a questa gigantesca vis a tergo, che spingeva là gli ebrei da tutta Europa. Secondo me, Israele sta assumendo il carattere e il comportamento dei suoi vicini. Lo dico con dolore, con collera. Non c’è differenza tra Begin e Khomeini».

Andrebbe riletto il testo dell’appello pubblicato il 16 giugno 1982 su Repubblica (altri tempi, eh) che si intitolava “Perché Israele si ritiri” e iniziava con: «Facciamo appello, in quanto democratici ed ebrei, perché il governo israeliano ritiri immediatamente le sue truppe dal Libano». Lo firmarono Franco Belgrado, Edith Bruck, Ugo Caffaz, Miriam Cohen e Natalia Ginzburg, criticava «la soluzione militare» scelta da Israele perché evocava «un linguaggio di triste memoria per ogni ebreo» e i firmatari affermarono di averlo scritto sperando di «combattere i germi potenziali di un nuovo antisemitismo che si verrebbe ad aggiungere alle vecchie e mai scomparse tendenze antiebraiche in seno alla società civile».

Andrebbe riletta la sua intervista al Secolo XIX in cui Levi parlò di «orrore» per una «rappresaglia sbilanciata che assume forme e dimensioni barbariche». Andrebbe riletto l’articolo di Levi sulla prima pagina de La Stampa il 24 giugno 1982 in cui scrisse: «Israele, sempre meno Terra Santa, sempre più Paese militare, va acquisendo i comportamenti degli altri Paesi del medio oriente, il loro radicalismo, la loro sfiducia nella trattativa». Oppure la sua intervista a Giorgio Calcagno de La Stampa il 12 giugno 1982 in cui raccontava il suo allontanamento da Israele: «Ho giudicato il sionismo una forza e una necessità politica. Questa gente non poteva che seguire un verbo che aveva una forma biblica. Oggi la questione si è complicata, perché la Palestina è in un nodo geografico sotto tensioni spaventose, costretta a una difesa costosissima e logorante, che spinge anche ad azioni temerarie o politicamente sbagliate. Il sionismo di allora pensava a un Paese contadino. Israele, oggi è diventato un Paese militare e industriale».

Altrimenti si rischia davvero di credere a certi articoli, di questi tristi giorni, che raccontano di una guerra iniziata per una “manciata di case” a cui i palestinesi non vorrebbero rinunciare. La realtà è complessa e ognuno si porta dietro i segni sulla pelle della propria storia.

Buon venerdì.

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