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ripensa

Non reggono la maschera

Tra le frasi ripetute dai (pochi) renziani rimasti ogni volta che devono fingere di non essere di destra (perché loro sono di un centrosinistra tutto loro, che esiste solo nella loro testa, che usa i diritti da usare come abbellimento, come l’oliva su un bicchiere per l’aperitivo) c’è la tiritera di Renzi difensore dei diritti civili. È una grancassa ripetuta allo stremo, anche alla faccia del principe saudita che le donne le usa come soprammobili, eppure per loro è un Rinascimento.

Ieri in Senato Italia viva non è però riuscita a reggere troppo la finzione della sua postura e ha dato il meglio di sé. Solo un dato, tanto per inquadrare lo spessore della sua azione politica: è riuscita a incassare gli applausi e i sorrisi di Lega e Fratelli d’Italia, basterebbe questo per capire.

Davide Faraone, senatore di Italia viva che ha il grande merito di essere molto amico di Matteo Renzi, ha detto che il ddl Zan  (quello che la destra da mesi sta cercando di boicottare in tutti i modi) è da «modificare». Avete letto bene: l’hanno votato alla Camera ma poi ci hanno ripensato, del resto loro sui ripensamenti si giocano tutta la poca credibilità elettorale per racimolare qualche voto in più della decina che hanno in tutto. In sostanza sono riusciti ad affossarlo visto che per arrivare al punto in cui siamo sono serviti più di mille giorni e visto che rimandare il tutto indietro significa di fatto non arrivare mai a una conclusione.

Ma il vero capolavoro di ipocrisia è la motivazione che hanno avanzato: il disegno di legge non va bene, dicono, per il video di Grillo e perché se Grillo sostiene questo disegno di legge allora significa che va modificato. In fondo gli serviva solo una scusa, come al solito, come quando dissero che bisognava discutere in Parlamento il Pnrr da presentare all’Europa per i soldi post Covid e ora invece stanno zitti nonostante non ci sia nessuna bozza. Loro cercano solo appigli (immaginari) per costruire propaganda. E incassano applausi da destra. Che poi non incassino nemmeno mezzo voto fanno molta fatica a comprenderlo, ma anche questa è la loro natura.

La vera domanda rimane quella che ha scritto ieri Simone Alliva, che su questa legge sta facendo da mesi un enorme lavoro di informazione: «Perché il #ddlZan che avete votato alla Camera (quindi andava bene alla Camera) adesso non vi va più bene al Senato?».

Oppure, volendo fare politica in modo intellettualmente onesto, si poteva discutere quel testo e, in assenza di accordo, affidarne la sorte al voto, come si fa in una democrazia parlamentare. Ma i renziani avrebbero avuto paura di essere scoperti. Come se non fossero già evidenti ora.

Buon giovedì.

 

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Due, tre cose sul macabro balletto calabrese

Ma il governo si rende conto di non essere in grado di nominare un commissario della sanità per la Calabria senza incorrere in figuracce?

Tre commissari nel giro di dieci giorni. Roba da fantascienza di quart’ordine, sembra un filmato horror di quelli con il pomodoro visibilissimo al posto del sangue, solo che qui ci si gioca la salute di una regione intera come la Calabria e ci si gioca la credibilità di un governo, anche se lassù fanno finta di niente.

Siamo partiti con il prode Cotticelli, l’ex generale dei Carabinieri che è riuscito nella mirabile impresa di umiliarsi in televisione intervistato da un giornalista, quasi come un ladro beccato con le mani nel sacco. Ha cominciato a balbettare discorsi sconclusionati e poi si è accorto seduta stante di dover essere lui a occuparsi del piano Covid. Un servizio in cui la sua segretaria e l’usciere del palazzo sono apparsi come degli scienziati nei confronti di quel commissario (così lautamente pagato) che sembrava essere invece passato lì per caso. Cotticelli è riuscito a fare ancora di più: si è immolato poi ospite da Giletti dicendo che era «in uno stato confusionale», forse era stato drogato e di non riconoscersi più. Uno schifo.

Poi arriva Zuccatelli. Una nomina lampo, non c’è che dire: giusto il tempo di essere nominato (ovviamente come “grande professionista” con la solita liturgia che accompagna ogni nomina politica, anche quando si tratta di amici di partito). Parte forte Zuccatelli, perfino Nicola Fratoianni di Leu ne contesta la nomina. Basta qualche minuto e ecco Zuccatelli in un bel video in cui ci dice che le mascherine «non servono a un cazzo» e che per ammalarci dobbiamo baciarci per almeno 15 minuti. Caos, figuraccia. Arriva il ministro Speranza che dice che Zuccatelli non si può giudicare da un video e che la sua esperienza è fuori discussione. Quindi uno pensa che rimarrà al suo posto. E invece si dimette e ci dice che gliel’ha chiesto Speranza. Quindi? C’è qualcosa di più di quel video che non sappiamo? Boh, niente di niente.

Infine in pompa magna viene nominato Eugenio Gaudio, che intanto ha a che fare con un’indagine della Procura di Catania probabilmente presto archiviata, e qualcuno dal governo parla di tandem con Gino Strada. Gino Strada li sbugiarda dicendo che non esiste alcun tandem. Ieri Gaudio ci dice che non può accettare perché, dice proprio così, sua moglie non vuole trasferirsi a Catanzaro. Ieri pomeriggio a Tagadà il ministro Boccia dice addirittura che non vero che il governo l’aveva nominato, che ci stava pensando, poi ci ripensa, balbetta che il ruolo del commissario straordinario per la sanità non sia un ruolo “importante”, poi ci ripensa, poi esce una nota stampa in cui si scopre che Gaudio si è dimesso senza nemmeno confrontarsi con il ministro Speranza. Niente di niente. Finisce così. Che poi Gaudio abbia accettato un ruolo così delicato senza avvisare a casa è una roba che farebbe ridere, se non facesse piangere.

A questo punto la domanda è una secca: ma il governo si rende conto di non essere in grado di nominare un commissario per la Calabria senza incorrere in figuracce? E poi: il governo si rende conto della delicatezza del ruolo soprattutto in questo momento? E poi: ma c’è qualcosa che non sappiamo?

Sullo sfondo, agitato come una reliquia, quel grande uomo che è Gino Strada e Emergency.

Che pena.

Buon mercoledì.

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Coprifuoco, Conte scarica la responsabilità sui sindaci, poi ci ripensa: chi decide la chiusura delle piazze?

Partiamo da un punto fermo: la situazione è difficile, mancano spesso i mezzi e gli uomini e ha fallito un po’ dappertutto la programmazione. Il gioco delle responsabilità è piuttosto complesso: le Regioni spesso non hanno mantenuto le promesse e si sono sottrate alle loro responsabilità, una certa leggerezza è stata pericolosamente sventolata da illustri medici e da opinionisti oltre che da leader dell’opposizione e la mediazione per qualsiasi provvedimento è sempre più difficile, ognuno con le sue priorità e tutto è in bilico tra il salvare i redditi e l’economia e preservare la salute.

Il governo Conte non si ritrova sicuramente in una situazione facile e i cittadini non sono più disposti, come accadeva a marzo, ad ascoltare buoni buoni le raccomandazioni del presidente del Consiglio come si ascolta un buon padre di famiglia. Pretendono risposte, chiarimenti, dati, numeri, analisi. Se si decide di bloccare un’attività rispetto a un’altra forse sarebbe il caso di sapere (e spiegare) il reale impatto che ha nella diffusione del virus, altrimenti resta la sensazione che tutto sia affidato a un esperimento continuo, come se questi mesi non ci avessero insegnato niente.

Però ieri Conte nella sua conferenza stampa ha compiuto un errore che è sintomatico del clima di incertezza, parlando chiaramente di “responsabilità dei sindaci” nel chiudere vie o piazze che potrebbero essere occasione di assembramento. Il proposito in sé ha le sue ragioni, sentiamo da anni ripetere che gli amministratori locali sono tutti bravi, efficienti, conoscono il territorio e chi meglio di loro potrebbe avere contezza di ciò che accade nelle loro città. Ma se decidi di responsabilizzare i sindaci e gli chiedi di farlo senza dare i mezzi diventa tutto molto complicato.

Solo per fare un esempio: per chiudere una piazza con cinque vie d’accesso (lo faceva notare ieri anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori) servono almeno dieci agenti. 10 agenti per una piazza. Chi li ha? Dice Conte che bisogna concedere l’accesso ai residenti e ai clienti degli esercizi commerciali: chi controlla? A Palazzo Chigi si sono accorti dell’errore e il riferimento ai sindaci sparisce dal Dpcm. Bene, sorge quindi subito l’altra domanda? Chi se ne deve occupare? Il Prefetto? Le Regioni? Chi? E poi si torna al punto di partenza: chiunque sia a doversene occupare con quali uomini e con quali mezzi? Il “federalismo delle responsabilità” che apre questo Decreto rischia di aumentare la confusione, ancora di più. E “decidere di lasciare decidere” alimenta ancora di più il caos.

Leggi anche: 1. Nuovo Dpcm, tutte le misure: cosa si può fare e cosa no da oggi / 2. La svolta del premier Conte: “Non voglio sentir parlare di lockdown” / 3. Crisanti: “Lockdown prima di Natale. Ero stato troppo ottimista”

TUTTE LE ULTIME NOTIZIE SUL CORONAVIRUS IN ITALIA E NEL MONDO

CORONAVIRUS ULTIME NOTIZIE: TUTTI I NUMERI

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Scoppia il bubbone del trasporto pubblico. Ma potevamo pensarci prima

Eccolo finalmente il dibattito che si è aperto dopo mesi di muro contro muro. Dopo settimane passate a scorgere dappertutto le testimonianze fotografiche allarmate della situazione nelle fermate dei trasporti pubblici locali e all’interno dei convogli, quegli stessi che trasportano le persone che, sai com’è, devono spostarsi per vivere, lavorare, mangiare, studiare ora scoppia il bubbone del trasporto pubblico.

L’allarme, corroborato dai numeri, lo lancia l’Asstra, associazione delle società di trasporto pubblico, che mette nero su bianco il “rischio di fenomeni di assembramento alle fermate e alle stazioni”. Ma va? Eccoci, quindi: mentre il Comitato Tecnico Scientifico pensa di ridurre al 50% la capienza dei mezzi pubblici rispetto all’80% attualmente consentito (e quasi mai rispettato, perché poi ci sarebbe da discutere anche dei controlli che mancano) Asstra comunica che in quel caso “risulterebbe difficile per gli operatori del Tpl continuare a conciliare il rispetto dei protocolli anti Covid-19 e garantire allo stesso tempo il diritto alla mobilità per diverse centinaia di migliaia di utenti ogni giorno, con il conseguente rischio di fenomeni di assembramento alle fermate e alle stazioni”.

I numeri sono chiari: “si rischierebbe – scrive Asstra – di non poter soddisfare da oltre 91mila (ipotesi capienza massima consentita al 75%) a circa 550mila spostamenti ogni giorno (scenario al 50%), arrecando un notevole disservizio quotidiano all’utenza. Andando nello specifico, ipotizzando una riduzione al 50% della capienza massima, si impedirebbe a circa 275mila persone al giorno di beneficiare del servizio di trasporto sia per motivi di studio che di lavoro”.

275mila persone che resterebbero a piedi. L’opzione rimane sempre la stessa: togliere utenza come soluzione più semplice e economica piuttosto che investire in capienza. E a nessuno è venuto in mente che il rafforzamento del trasporto pubblico fosse una delle priorità da mettere in agenda il prima possibile, ben prima della pluriprevista seconda ondata che tutti sapevano che sarebbe arrivata.

Eppure in questi mesi sono state molte le proposte per ripensare in tempo la mobilità (quella di BikeItalia, solo per fare un esempio) e di tempo a disposizione per governare l’inizio delle attività produttive e scolastiche ce n’è stato abbastanza. Forse sarebbe stato meglio accanirsi un po’ meno contro la ministra Azzolina e chiedere più risposte alla ministra De Micheli, che ora ha convocato finalmente le Regioni per un confronto sul tema. Tardi.

Leggi anche: Scontro sui trasporti, le Regioni chiedono orari scaglionati per le scuole: oggi il tavolo con De Micheli

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Ma dai? Si torna a scuola?

Eccoci qua. Mi era capitato qualche settimana fa, eravamo ancora in pieno periodo vacanziero a ricordarmi che saremmo arrivati in ritardo con le aperture delle scuole. Era scritto, del resto: nei molti mesi che ci sono stati a disposizione per ripensare la scuola e per programmarne la riapertura ci si è consumati tra le piccole guerre tra Stato e regioni e a discutere di banchi con rotelle, di plexiglas e di indecenti attacchi sessisti alla ministra. Rimanere sul punto evidentemente era troppo difficile.

Così ora si scopre che anche i professori si ammalano (i primi risultati dicono 16 professori positivi in Veneto, 12 in Lombardia tra Varese e Como, 20 in Umbria, 4 in Trentino) e che come avviene in qualsiasi luogo di lavoro forse è il caso di fare i test. A proposito di test: si rilancia la notizia che un terzo dei professori non vorrebbe sottoporsi a tampone (che il governo ha, chissà perché, reso volontario) e ovviamente tutti ora giocano al massacro: peccato che l’indagine abbia ben poco valore statistico (si sa di interviste telefoniche a qualche centinaio di insegnanti e non si sa di che regione siano) e peccato che siano moltissimi gli insegnati che invece lamentano addirittura l’impossibilità di accedere al tampone. Tra l’altro in alcune regioni il test è gratuito e in altre no, così a caso. Sia chiaro: tutto questo a pochi giorni dall’inizio della scuola.

Ma non è tutto: ora ci si accorge che i ragazzi a scuola ci devono andare e che molti ci vanno in autobus e indovina un po’? Gli autobus sono strapieni. Eh, già. Non era difficile immaginarlo, basterebbe sostare davanti a una scuola qualsiasi per accorgersene in una città qualsiasi. Fenomenale il presidente delle Marche Ceriscioli che a Repubblica dice che Burioni ha trovato la soluzione: i ragazzi nel bus devono indossare la mascherina e restare in silenzio, senza parlare. Sembra uno scherzo e invece è drammatico.

Poi ci sono i banchi: il pessimo commissario Arcuri ora parla di alcune consegne a fine ottobre e il bando di gara era talmente scritto male da dover essere corretto un paio di volte. Giunge notizia che ora il commissario stia facendo ordine a aziende extra bando. Qualcuno dice che ci vorrebbe vedere chiaro ma i costi e i contratti sono secretati “per evitare polemiche politiche” dice Arcuri, come se avesse l’autorità di decidere cosa rendere pubblico e cosa no.

Poi ci sono gli spazi: garantire distanziamento sociale in edifici che avevano già problemi di cubature in epoca pre Covid diventa una missione quasi impossibile. A tutto questo aggiungeteci il caos di un’opposizione che soffia sul fuoco piuttosto che proporre soluzioni.

Eppure proprio sulla scuola si misurerà molta della capacità di questo governo di affrontare la pandemia. Per questo vale la pena approfondire. Per questo se ne parla nel numero di Left in edicola e in digitale.

Buon venerdì.

Left del 28 agosto – 3 settembre 2020

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La discocrazia

È l’immagine di questa destra che si è involuta nel tempo, che è invecchiata male ballando al Billionaire e al Twiga, allo Smaila’s e al Papeete che negli anni hanno voluto trasformare come simbolo di un Paese che esiste solo nelle loro tasche, nelle loro teste e nella loro ristretta cerchia di amicizia che non ha niente a che fare con il mondo reale e nemmeno con la situazione reale.

Se c’è qualcosa di più stupido di quelli che temono di avere in futuro un microchip sotto pelle iniettato con un vaccino allora è sicuramente questa discocrazia che viene proposta, tra l’altro, mica da giovani che reclamano la propria libertà, ma da attempati signorotti della politica, che di politica hanno vissuto e continuano a vivere, che vorrebbero risultare giovanili e invece sono semplicemente patetici. Daniela Santanchè che balla per fare opposizione è una scena da film dell’orrore che tra qualche anno riguarderemo con disgusto.

È la destra che da anni si propone come il partito del “rispetto delle regole” e invece ora vorrebbe crescere nei sondaggi invitando gli altri a non rispettarle. Badate bene: non propone una nuova regolamentazione e non propone nemmeno una soluzione strutturale a un problema strutturale (perché il virus chiede un nuovo paradigma piuttosto che una serie di interventi tardivi e isolati), no, la destra italiana chiede il “diritto di ballare” dimostrando tutta la sua distanza dalla realtà.

Agli elettori della discocrazia non interessa poi nemmeno troppo in fondo ballare, vivono questa battaglia di resistenza culturale perché qualcuno gli dice che si comincia così, vietando i balli, imponendo le mascherine e poi togliendo i diritti civili. E i leader della discocrazia hanno pensato bene che essere liberi significhi praticare la propria libertà di ammassarsi in nome della loro nuova rivoluzione.

Dalla mignottocrazia di Berlusconi alla discocrazia di Meloni e Salvini il passo è stato breve e, se guardate bene, i protagonisti sono sempre gli stessi.

A un mese dall’apertura delle scuole, nel pieno della discussione sul Mes, mentre si dovrebbe discutere di come ripensare il Paese con i soldi che arrivano dall’Europa, qui si continua a discutere da giorni di discoteche. Nell’anno di una pandemia mondiale.

Ma vi sembra normale?

Buon mercoledì.

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Il colloquio di lavoro

(Ripensavo a un testo per questo primo maggio e per questo lavoro piuttosto deteriorato e mi è venuto in mente un capitolo del mio romanzo Santamamma. Ora, non è mai bello autocitare un romanzo, suona sempre come mossa promozionale, eppure è una scena che contiene molte delle cose che ho vissuto io che sono di quella generazione a cavallo tra il “lavoro” come lo intendevano i nostri genitori e poi il “lavoro” come sarebbe diventato. Eccolo qui)

«Carlo Gatti»

«Sì, buongiorno. Eccomi.»

«Titolo di studio?»

«Maturità classica.»

«E basta?»

«Già, sì.»

«Strano, una maturità classica senza università…»

«Ho preferito cominciare a lavorare.»

«Sì. Ma non ha cominciato a lavorare visto che è qui per il colloquio.»

«Ho fatto il benzinaio.»

«Con la maturità classica. Un po’ pochino, eh. Chissà come saranno stati fieri i suoi genitori.»

«Lavoro estivo. Una cosetta così.»

«Ma qui c’è scritto settembre aprile.»

«Intendevo estivo nell’interpretazione. Anche se d’inverno.»

«Ah, nell’interpretazione, pensa te. Speriamo che non interpreti anche di fare finta di lavorare, ahinoi.»

L’ufficio aveva piante finte in tutti gli angoli. Smorte comunque. Almeno una spolverata, pensavo, almeno quella ci vorrebbe. Lui rigirava una penna. Lo insegnano a tutti gli ingiacchettati: tenere qualcosa tra le mani evita la fatica di pensare dove metterle. Trucchetto curioso per chi dovrebbe ribaltare l’economia del mondo, ma tant’è. I colloqui di lavoro hanno tutti un filo comune: la recitazione da parte dell’esaminato di un bisogno ma non troppo, di un entusiasmo ma non troppo, di competenze ma non troppo, di umiltà ma non troppo, di troppa buona educazione e una combinazione d’abiti che non vedi l’ora di dismettere. L’esaminatore, invece, sfoggia l’abilità di esaminare ma non troppo, annusa che tu sia brillante ma che non possa fare ombra, gioca al caporale e tu la truppa e poi diventa servo se entra il capo. Al decimo colloquio di lavoro potresti farne la regia in un teatro da mille posti, disegnarne la radiografia. Che messinscena.

«Suona. Anche.»

«Suonavo. Ho studiato pianoforte fin da piccolo. E violoncello.»

«La mia figlia più piccola va a danza. Le maestre dicono che sia portata. Vedremo un po’. Quindi ha suonato alla Scala?»

«Alla Scala c’è una stagione sinfonica. Non concerti solisti.»

«Ho capito, ho capito. Suonava così. Per passione…»

«Ho studiato. Frequentavo anche il conservatorio.»

«Ah, è diplomato! Allora un giorno la invito a vedere mia figlia ballare così mi dice.»

«Non mi sono diplomato. Mi sono fermato al nono anno.»

«Gatti, Gatti… non è riuscito a finirne una…»

«Ho avuto un lutto in famiglia.»

«Oh, mi spiace.»

Almeno un limite di potabilità, me lo ero imposto. Almeno non farsi sbavare addosso. E il lutto è un jolly: funziona a scuola per l’interrogazione e funziona anche qui. Del resto sono tutti maestrini, questi qui.

«Le spiego. Lei sa di cosa ci occupiamo?»

«Ho preso alcune informazioni. Consulenza aziendale specializzata in logistica, mobilità e ottimizzazione.»

«Ha sfogliato il depliant. Almeno quello l’ha finito.»

«Mi informo sempre. Amo sapere con chi sto andando a parlare.»

«Va bene Gatti, adesso non esageriamo. Quello è il mio lavoro. Comunque: esistiamo dal 1949 e il fondatore era un piccolo padroncino che si occupava di consegne e spedizioni nella zona fino poi a coprire tutto il territorio nazionale. Quando l’azienda è passata di mano al figlio, il signor Monti che poi è quello che la pagherebbe se io decido che lei può andare bene, abbiamo deciso di internazionalizzare l’impresa e oggi siamo tra i leader in Europa nella consulenza per le più importanti aziende logistiche. Trattiamo bancali e container che partono dall’Islanda e viaggiano fino alla Nuova Zelanda. Spedizioni che fanno il giro del mondo. Mi segue?»

È forte questa cosa degli incravattati che ripetono manfrine sulla storia dell’azienda com’è scritta sui volantini. È la recita di natale che si ripropone nella versione adulta, solo che qui a noi tocca fare i parenti commossi.

«Noi ci occupiamo che la spedizione avvenga con tutti i crismi: velocità, cortesia, qualità e produttività, soprattutto. Produttività. Abbiamo due divisioni: slancio e controllo. La figura che cerchiamo è per il reparto di slancio.»

«Sì. Di slancio. Che sarebbe?»

«Molto semplice. Il cliente x dice che deve spedire il bancale y da Roma a Berlino. Lei ha i numeri telefonici dei camionisti che collaborano con noi e il nostro sistema le fornisce un’indicazione di prezzo che noi chiamiamo cuneo. Il suo lavoro è di trovare velocemente quale dei nostri trasportatori è disposto a fare la tratta al prezzo più basso. Sulla differenza tra il cuneo e il prezzo che lei è riuscito ad ottenere le spetta una provvigione del 2,5% fino a un abbassamento del 25%, una provvigione del 5% fino al 50% e addirittura del 10% se il cuneo supera il cinquanta. Sembra difficile ma è molto semplice: quel viaggio dovrebbe costare 10.000 euro ma lei riesce a venderlo a un camionista a 5000 e con una telefonata si  è guadagnato 500 euro puliti. Mica male, eh?»

«Eh.»

«Già.»

«Ma perché slancio?»

«Il nome? Perché questo nome?»

«Sì. Una curiosità.»

«Mi sembra facile. Iniettiamo soldi nel mondo del lavoro, creiamo economia, spostiamo merci, accontentiamo clienti e lavoratori. Se al camionista non arrivasse quella telefonata avrebbe il camion fermo in giardino per farci giocare il figlioletto con il clacson e la leva del cambio. Il suo lavoro è tenere tutte queste persone in circolo, con tutti i loro talenti.»

Qui sorrise con trentadue canini. Era evidente che aveva trovato una formula diversa dalla consuetudine intirizzente e ne era entusiasta. L’avrebbe raccontata ai colleghi, agli amici del golf e alla mogliettina simulatamente fiera che l’avrebbe ascoltato mentre sceglieva il sushi. Da noi, in quegli anni lì, il sushi era un marziano con il salotto aperto solo agli eletti.

«Ma lei capisce, signor Gatti, che la responsabilità del ruolo e il prestigio dell’azienda ci impone di scegliere persone con i giusti talenti.»

Daje, con i talenti. Mi venne in mente zio Paperone. Con i sacchi di talenti.

«Per questo ho bisogno di sapere tutto di lei e di protocollo le farò anche delle domande personali. Dobbiamo avere la certezza di affidare il nostro slancio a persone che insieme a noi vogliano cambiare il mondo, aperte a sfide nuove e capaci di interagire con il futuro dandogli del tu.»

«Ovvio.»

«Mi dica Gatti, perché è interessato ad entrare nel mondo della logistica e della grande distribuzione?»

«Perché amo la mobilità. Ecco.»

«Cioè?»

«Credo che il commercio sia la più alta realizzazione delle capacità umane e essere partecipe di un’organizzazione che riesce a dare del tu a tutti i continenti sia una bella sfida.»

«Perfetto. Molto bravo. Ha già capito il nostro spirito. Siamo esploratori, noi. Ha intenzione di farsi una famiglia?»

«Certamente. Pur rispettando la mia autonomia.»

«Appunto. Perché qui non si può fermare il mondo per un anniversario, lei mi capisce. Questo non è un lavoro…»

«È una missione.»

«Una missione. Esattamente. Vuole avere figli?»

«Per ora no. Una famiglia mi basterebbe. Vorrei prima concentrarmi sulla realizzazione personale

«È molto maturo per essere un musicista della domenica, Gatti. Anche se ha letto il greco e latino.»

«La ringrazio.»

«Qui c’è gente che si è presentata in braghe di tela come lei e ora si porta a casa dodici, quindici, diciotto milioni al mese. Ma bisogna crederci, essere all’altezza dei propri sogni, come dice il nostro capo tutti gli anni alla cena di natale. Mi dica Gatti, ma lei è all’altezza dei suoi sogni?»

«Oh certo.»

«Perché qui ha il dovere di sognare. Non so se mi capisce. Questo non è un lavoro, come dirle, è l’affiliazione a un sogno. Qui non ci sono orari e domeniche perché i nostri collaboratori hanno bisogno di venire in ufficio, hanno bisogno di ribassare il cuneo e sentono la necessità di dimostrare al mondo che è possibile spostare un bancale di mille chilometri a metà del prezzo che la società ci vorrebbe imporre. È un fuoco che senti dentro».

«Capisco bene.»

«Capisce, va bene, ma lei ce l’ha il fuoco? Me lo faccia vedere! Ce l’ha il fuoco dentro?»

Sai che forse ci credono davvero questi a quello che dicono? Francesco una volta mi disse che sì, che secondo lui succede che a forza di riempire di polpettone il tacchino qualche tacchino si convince di essere polpettone. Lui aveva suo padre che vendeva porte blindate, le porte blindate più blindate tra le porte blindate, e quando a casa di Francesco gli zingari gli sono entrati in casa per rubargli pochi spicci, le mozzarelle e cagargli sul divano anche quella volta lì suo papà disse che dovevano essere una banda di professionisti, rapinatori da musei e ministeri, se erano riusciti a debellare la sua porta blindata.

«Io ce l’ho il fuoco. Me lo sento che brucia.»

«Perché questo è il punto di partenza essenziale. Senza quello io e lei non facciamo neanche questo appuntamento, altrimenti. Perché è lei che vuole venire con noi. Ma come lei ce ne sono migliaia. E bisogna scegliere bene chi ci prendiamo in famiglia.»

«Certamente. La sua è una bella responsabilità, mi immagino.»

«Lo può dire forte, Gatti! Lo può scrivere mille volte sulla lavagna! Ma lei cosa vuole fare da grande?»

«Essere in squadra per una grande impresa

«Molto bene.»

«Grazie.»

«Guardi questo test, guardi qui. Deve mettere una croce. È alla guida di un treno e c’è una biforcazione. Se continua sulla sua direzione troverà sei persone sui binari e inevitabilmente sarò costretto a ucciderli però può azionare lo scambio e decidere di prendere l’altra biforcazione dove sui binari c’è un uomo solo. Da che parte va, lei, Gatti?»

«Non è facile.»

«Non c’è tempo Gatti! Non ha troppo tempo! Non si può spegnere lo slancio!»

«Ne uccido uno solo, forse.»

«Ma è colpa sua, così!»

«Beh, non credo che se uccido gli altri sei mi facciano patrono del paese…»

«Sa qual è la risposta giusta?»

«No.»

«La risposta giusta anche se non c’è il quadretto della risposta giusta?»

«Mi dica.»

«La strada più breve. La più breve è la risposta giusta.»

«Ah, ok.»

«Ha qualche domanda?»

«Niente in particolare. Volevo chiedere, nel caso in cui io possa andare bene, l’inquadramento. Lo stipendio.»

«Le do un consiglio Gatti. Al di là di questo nostro incontro e che poi venga o no a lavorare con noi. Le do un consiglio. Parlare di soldi a un colloquio di lavoro è terribilmente inelegante».

«Sì, questo lo so».

«Però ci è ricascato. Pensi lei se io dovessi essere così rozzo da raccontarle che dispendio di soldi, tempo e energie è per noi fornirle una postazione, occuparci del telefono, le cuffie, il computer, i programmi, il suo armadietto, il badge, la mensa. Pensi quanto mi costa impiegare qualche collega esperto, di quelli che hanno lo slancio dentro, per spiegarle come funziona. Pensi a uno della nostra squadra che piuttosto che iniettare economia deve istruire uno appena arrivato. Gliene ho parlato? Forse mi ha sentito che le faccio pesare il fatto che qui da noi sapere sviolinare il pianoforte conta come il due di picche quando briscola è bastoni? È cambiato il mondo per voi giovani. Io vi invidio. Avete di fronte un futuro aperto a tutte le possibilità: la domanda che dovete fare non è «quanto mi pagate» ma «quanto valgo, io?». Io non le do niente, io non voglio essere come una volta il padrone della sua vita, io sono qui perché lei mi dica quanto guadagnerà. Sono io che glielo chiedo. Quanto guadagnerà Gatti?»

«C’è un rimborso spese?»

«Sono duecentocinquantamila lire di anticipo di provvigioni per i primi sei mesi. Volendo vedere c’è anche un milione di computer sulla sua scrivania, ottocentomila lire di media di bolletta telefonica per ogni collaboratore, la cancelleria e soprattuto questa azienda che vede, che il proprietario ha voluto bella e accogliente più di casa sua.»

«Ho capito. Mi è tutto chiaro.»

«Lei mi piace Gatti. Glielo confesso perché mi piace. Magari mi sbaglio anche se in tutta la carriera non mi sono sbagliato mai ma sento il suo fuoco. Mi prendo il rischio, via: se vuole domani ci vediamo alle 7 e iniziamo. Non lo dica a nessuno che l’ho deciso così su due piedi ma ogni tanto voglio fidarmi del mio istinto. Forse si è perso un po’ con la musica e la scuola ma le posso raccontare di un collega che non sapeva nemmeno parlare in italiano e ora è un caporeparto con la Golf aziendale e uno stipendio da favola. Non le dico il nome solo perché sarebbe inelegante ma lei ha quella luce negli occhi. Se lo prende qui da noi il diploma, si laurea in slancio. Eh?”

«Domani però non posso. Domani.»

«E perché?»

«Ho avuto un lutto.»

«Mi dispiace tanto.»

«Però vi chiamo. Vi chiamo io.»

«Va bene Gatti. Va bene. L’aspettiamo. Come una famiglia!»

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