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Poveri veri poveri finti

Per alcuni piccoli imprenditori, artigiani, commercianti o ristoratori le nuove misure anti Covid rischiano di essere un colpo ferale alle proprie finanze. C’è anche da dire, però, che quando in Italia si tratta di rivendicare dei mancati incassi i numeri sballano

Sarà una mannaia. Sarà pesantissima. Chiunque di noi conosce qualcuno che subirà il probabile prossimo lockdown come colpo ferale alla proprie finanze. Non si tratta di ricchi imprenditori o persone che si possono permettere di perdere un giro: sono piccoli imprenditori o artigiani o commercianti o ristoratori che hanno galleggiato per anni e che ogni mese riuscivano a fatica a rimanere sopra la linea di galleggiamento.

Per alcuni piccoli imprenditori, artigiani, commercianti o ristoratori le nuove misure anti Covid rischiano di essere un colpo ferale alle proprie finanze. C’è anche da dire, però, che quando in Italia si tratta di rivendicare dei mancati incassi i numeri sballano anche se in pochi hanno voglia di parlarne. Perché come scriveva qualche giorno fa Alberto Brambilla sul Corriere della Sera: «Quasi la metà degli italiani, 29,204 milioni pari al 48,38%, non ha redditi e vive quindi a carico di qualcuno. Verrebbe da dire una percentuale atipica, degna di un Paese povero e non certo membro del G7, se non fosse che le stime su consumi, spese e possesso di determinati beni (telefonia, alcol, tabacco, gioco d’azzardo, etc.) vadano invece a smentire questa tesi e a puntare piuttosto il dito su un’elusione fiscale mai efficacemente contrastata in Italia, anzi, anche molto incentivata da una miriade di bonus e sconti assegnati a chi dichiara redditi bassi».

Il 13% dei contribuenti con redditi da 35 mila euro in su versa circa il 58,9% di tutta l’Irpef. La fotografia corrisponde al reale? È una bella domanda. Come sarebbe da chiedersi che ce ne facciamo, proprio in periodo di crisi, di vistose attività che aprono con nessuna ragionevolezza dal punto di vista dell’investimento e riempiono le nostre città. Case che vengono costruite in un periodo in cui nessuno ha soldi per comprare case. Bar che stanno nel paesello e sembrano degni di New York e non hanno bisogno di clienti. Ipermercati costruiti talmente attaccati da non avere senso. E così via. Cose che sono solo soldi che hanno bisogno di non avere la forma e il colore e l’odore dei soldi.

Ora c’è il Covid, vero. Ma sarebbe il caso di parlarne, prima o poi.

Buon mercoledì.

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Poi però non vi meravigliate se la gente comune impoverita scende in strada a protestare

Sì, è vero, da anni alcuni gruppi organizzati, che siano criminalità organizzata o estremisti politici e frange violente, sfruttano il disagio sociale per esercitare violenza e per sfruttare il malcontento. Alcuni sono semplicemente criminali che tentano di travestirsi da scontenti e che si infilano nelle manifestazioni degli altri. Le indagini ci diranno cosa è accaduto a Napoli, a Milano, a Lecce, a Trieste, in un’ondata di manifestazioni che ha attraversato tutta l’Italia.

Ed è vetro anche che non erano sicuramente commercianti preoccupati quelli che hanno devastato le vetrine (di altri commercianti) semplicemente per mettere in atto un furto con scasso. Però bisogna stare attenti, molto attenti, a non perdere l’equilibrio nelle situazioni difficili (e sarà sempre più difficile, vedendo i numeri) e cadere nel giochetto di criminalizzare per non analizzare, di bollare per non discutere perché insieme alla violenza di alcuni ci sono anche le manifestazioni pacifiche che stanno spuntando in tutto il Paese.

Manifestazioni che non finiscono sui giornali perché (per fortuna) non si distinguono per ferocia e sfregio delle regole ma che in questi giorni (solo ieri ne sono state fatte nel pomeriggio due a Milano) stanno raccontando tutto il disagio di intere categorie che si ritrovano sull’orlo del baratro.

È un esercizio di equilibrio e di misura delle parole, certo, ma in fondo è il compito primario della politica e del giornalismo quello di raccontare un Paese senza appiattirlo sulla rappresentazione più comoda. Questa seconda ondata di pandemia rischia di mettere fine a molte piccole attività imprenditoriali che non hanno la disponibilità di superare nuove chiusure senza un aiuto veloce e consistente dello Stato.

Anche le statistiche ci dicono che l’Italia, già povera, continua a impoverirsi durante la pandemia e le disuguaglianze si fanno ogni giorno più spiccate. Sarebbe un errore enorme mischiare quel disagio, un disagio vero, fatto di paura mischiata all’indigenza e mischiata alla mancanza di prospettive future, con quello che invece accade a causa di violenti e di rimestatori. Ed è anche una narrazione tossica che aggraverebbe ancora di più la sensazione di “non esistere” di chi non si vede riconosciuto dallo Stato. Se la tutela della salute impone il blocco, la sussistenza diventa un problema politico evidente e urgente, che non si può nascondere sotto il tappeto dei violenti.

Leggi anche: 1. L’Alto Adige non ci sta e sfida Conte: ristoranti, bar e cinema restano aperti / 2. Guerriglia nelle città d’Italia contro le misure anti-Covid: bombe carta a Milano, negozi saccheggiati a Torino / 3. Il negozio di Gucci saccheggiato a Torino: manifestanti rompono la vetrina e rubano i vestiti | VIDEO

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Arcuri si risveglia dal sonno e lancia una proposta vecchia di mesi…

Fermi tutti, si è svegliato Domenico Arcuri. Il commissario straordinario all’emergenza da Covid-19, quello che ha scambiato il suo ruolo – più di una volta – con quello del moralizzatore spalleggiato dal Governo, ieri ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera, per darci una lunga lezione sulla pandemia e sugli strumenti per riuscire a contenerla. Peccato che siano tutte cose che sui media circolano da mesi e peccato che proprio Arcuri sia la persona incaricata di dovere fare funzionare le cose, mica di continuare a spiegarcele. Così ci ritroviamo a leggere il commissario che dice «il senso di ciò che abbiamo imparato è rintracciare il virus sempre prima, curare le persone a casa sempre di più. I medici di base devono poter fare i test nelle case e curare lì il più possibile i malati, visto che ormai i protocolli sono standardizzati».

Potrebbe sembrare un’intervista valida per maggio-giugno, quando ancora ci si illudeva di poter veramente rispettare le 3 T (tracciamento, tamponi e trattamento) invece Arcuri sembra non essersi accorto di quello che sta accadendo con i tracciamenti, che sono ormai praticamente saltati in tutti Italia. Gli addetti al tracciamento non sono stati assunti e il sistema che si è praticamente sbriciolato. Qualcuno potrebbe fare leggere ad Arcuri le parole del suo collega, lì dalle parti del Governo, Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute che ha dichiarato senza mezzi termini che «un’epidemia si combatte con i comportamenti delle persone e con il tracciamento, ma quando vai oltre 10.000-11.000 casi e non riesci più a tracciare». Ma lui, Arcuri il censore, ci tiene a precisare che «facciamo ormai stabilmente oltre 100 mila tamponi molecolari al giorno e ci stiamo attrezzando per chiudere il gap fra domanda e offerta. Daremo alle Regioni molto presto la possibilità di arrivare a 200 mila. Stiamo chiudendo l’offerta pubblica per i test rapidi antigenici e ne compreremo 10 milioni, non più 5».

E sapete quando dovrebbe essere operativo il nuovo straordinario piano dello straordinario commissario? Tra due mesi. Due mesi: esattamente il picco nero che i numeri sembrano indicare come situazione grave in cui rischiamo di sprofondare. In sostanza ancora una volta ci ritroviamo a rincorrere il virus riuscendo semplicemente a mettere una pezza al futuro prossimo. Intanto in Italia abbiamo una capacità di tracciare fino a 2 mila casi al giorno, quando ormai abbiamo abbondantemente sfondato i 10 mila. Non riuscire a reggere l’impatto però non sembra preoccupare il commissario straordinario, che anzi ne approfitta anche per scrollarsi di dosso qualsiasi responsabilità sulla straripante condizione dei mezzi pubblici che portano gli studenti a scuola: «A me – risponde il commissario al Corriere della Sera – è stato chiesto di aiutare a riaprire le scuole in sicurezza». Stiamo a posto così.

E chissà se ad Arcuri non siano fischiate le orecchie per le dichiarazione di Andrea Crisanti, il virologo celebrato da tutti per come ha gestito la situazione in Veneto a inizio epidemia e poi lasciato ai margini, che dice senza mezze misure: «Se invece di buttare soldi per acquistare i banchi a rotelle avessimo investito sul tracciamento e sulla capacità di eseguire i tamponi, oggi saremmo in una situazione differente. Non possiamo andare avanti altri sei mesi solo con le chiusure».

A proposito di Crisanti. Il Governo mesi fa gli chiese un piano per organizzare il sistema di tracciamento. Si chiamava Network Testing e si basava sul fatto che ogni cittadino vive in una rete tridimensionale di relazione i cui piani sono: la scuola, il lavoro, i vicini di casa, gli amici e i parenti con interazioni sia orizzontali che verticali. Lo scopo era di testare tutte le persone che fanno parte di questo spazio di relazioni ogni volta che si identifica una persona contagiata per scoprire colui che ha trasmesso l’infezione e chi ne è stato contagiato bloccando la catena di trasmissione. È esattamente il sistema che ha permesso a Taiwan, Singapore, Cina e Corea del Sud di registrare successi enormi contro il virus. Il piano è stato messo in un cassetto e il Governo se n’è dimenticato.

Fino a ieri, quando Arcuri s’è ridestato dal sonno e ha lanciato una proposta pressoché identica. Solo che nel frattempo è successo di tutto. Il virus è stato dimenticato nella pausa estiva e poi è tornato prepotentemente per ricordarci tutti i mesi persi. Così mentre Arcuri rilancia sui tamponi (e Federlab Italia gli risponde sottolineando «le strutture pubbliche travolte da una totale disorganizzazione» e gli «enormi problemi non solo nel processare i campioni, ma anche nella fase stessa di accettazione e di refertazione») noi ci ritroviamo invece a doversi inventare qualcosa per rallentare la curva dei contagi. Sempre fuori tempo, sempre senza programmazione.

L’articolo Arcuri si risveglia dal sonno e lancia una proposta vecchia di mesi… proviene da Il Riformista.

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Coprifuoco, Conte scarica la responsabilità sui sindaci, poi ci ripensa: chi decide la chiusura delle piazze?

Partiamo da un punto fermo: la situazione è difficile, mancano spesso i mezzi e gli uomini e ha fallito un po’ dappertutto la programmazione. Il gioco delle responsabilità è piuttosto complesso: le Regioni spesso non hanno mantenuto le promesse e si sono sottrate alle loro responsabilità, una certa leggerezza è stata pericolosamente sventolata da illustri medici e da opinionisti oltre che da leader dell’opposizione e la mediazione per qualsiasi provvedimento è sempre più difficile, ognuno con le sue priorità e tutto è in bilico tra il salvare i redditi e l’economia e preservare la salute.

Il governo Conte non si ritrova sicuramente in una situazione facile e i cittadini non sono più disposti, come accadeva a marzo, ad ascoltare buoni buoni le raccomandazioni del presidente del Consiglio come si ascolta un buon padre di famiglia. Pretendono risposte, chiarimenti, dati, numeri, analisi. Se si decide di bloccare un’attività rispetto a un’altra forse sarebbe il caso di sapere (e spiegare) il reale impatto che ha nella diffusione del virus, altrimenti resta la sensazione che tutto sia affidato a un esperimento continuo, come se questi mesi non ci avessero insegnato niente.

Però ieri Conte nella sua conferenza stampa ha compiuto un errore che è sintomatico del clima di incertezza, parlando chiaramente di “responsabilità dei sindaci” nel chiudere vie o piazze che potrebbero essere occasione di assembramento. Il proposito in sé ha le sue ragioni, sentiamo da anni ripetere che gli amministratori locali sono tutti bravi, efficienti, conoscono il territorio e chi meglio di loro potrebbe avere contezza di ciò che accade nelle loro città. Ma se decidi di responsabilizzare i sindaci e gli chiedi di farlo senza dare i mezzi diventa tutto molto complicato.

Solo per fare un esempio: per chiudere una piazza con cinque vie d’accesso (lo faceva notare ieri anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori) servono almeno dieci agenti. 10 agenti per una piazza. Chi li ha? Dice Conte che bisogna concedere l’accesso ai residenti e ai clienti degli esercizi commerciali: chi controlla? A Palazzo Chigi si sono accorti dell’errore e il riferimento ai sindaci sparisce dal Dpcm. Bene, sorge quindi subito l’altra domanda? Chi se ne deve occupare? Il Prefetto? Le Regioni? Chi? E poi si torna al punto di partenza: chiunque sia a doversene occupare con quali uomini e con quali mezzi? Il “federalismo delle responsabilità” che apre questo Decreto rischia di aumentare la confusione, ancora di più. E “decidere di lasciare decidere” alimenta ancora di più il caos.

Leggi anche: 1. Nuovo Dpcm, tutte le misure: cosa si può fare e cosa no da oggi / 2. La svolta del premier Conte: “Non voglio sentir parlare di lockdown” / 3. Crisanti: “Lockdown prima di Natale. Ero stato troppo ottimista”

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Ci vogliono credenti. Ma sono credibili?

Con un paziente lavoro di raccolta di atteggiamenti e dichiarazioni Fabio Chiusi racconta la parabola di Luca Zaia nei confronti dell’app Immuni, quella che nelle intenzioni avrebbe dovuto aiutare la fase di tracciamento dei contatti dei positivi (che funziona poco e male) e che il governo ha fortemente sponsorizzato mentre una parte dell’opposizione ha osteggiato fin dall’inizio. Matteo Salvini, per dire, proprio ieri ha raccontato di non avere scaricato l’app perché sua figlia gli “incasina sempre il telefono”. Siamo un Paese così. Messo così.

Tornando a Zaia si torna al 26 marzo quando il presidente del Veneto proponeva di “sospendere la privacy” per garantire il tracciamento. Disse Zaia: «in questo Paese sono convinto che in questo momento bisognerebbe sospendere le norme sulla privacy e lasciare ai sistemi sanitari di essere un po’ più liberi». E si lanciò addirittura a proporre Israele come modello: «sulla tracciabilità abbiamo disponibilità anche da Israele per la verifica degli spostamenti con sistemi intelligenti», disse.

Il 20 aprile chiede addirittura che l’app sia obbligatoria e che i vigili possano controllare: «se noi passeggiamo per strada un vigile può controllare che abbia guanti e mascherine e poi chiedere di vedere il telefono, per verificare che la app sia accesa». Ci si immagina quindi che Zaia ci tenga veramente moltissimo all’utilità dell’app, a differenza del capo del suo partito.

Il 21 maggio Zaia cambia idea e dice che l’app è stata poco scaricata per le «giuste preoccupazioni di privacy e gestione dati». Quella stessa privacy che voleva abolire. Ma va bene così.

Arriviamo al 3 giugno quando il presidente del Veneto ci delizia con un’altra dichiarazione: «l’app immuni ha due grandi limiti il primo è che non sa dove finisce il gran bagaglio di dati, il secondo che rischia di mettere in crisi l’ossatura della sanità». Come possa entrare in crisi l’ossatura della sanità sapendo dei contatti a rischio è un mistero.

Arriviamo al 14 ottobre quando si scopre, grazie a una segnalazione del Corriere del Veneto che il database di Immuni nella regione non è mai stato aggiornato. Sostanzialmente l’app Immuni nel regno di Zaia è inutile.

E, badate bene, stiamo parlando di uno di quei presidenti che nei tempi della pandemia è stato ritenuto tra i più “credibili” e che ha sempre mostrato il pugno di ferro. Zaia dovrebbe essere, secondo molti, il compagno bravo e buono di Salvini. Però questa breve cronistoria ci pone un problema sostanziale che stiamo vivendo in questi mesi: la comunicazione della politica (tutta, mica solo Zaia) durante la pandemia è stata pessima, discordante, incoerente e spesso molto superficiale. Il governo e le regioni hanno dondolato tra dichiarazioni e scelte (spesso che si smentivano l’una con l’altra) che chiedono ai cittadini di “fidarsi ciecamente” di decisioni che forse sarebbe il caso di spiegare e di motivare con più cura, con più responsabilità e con più precisione. Perché altrimenti lo sforzo sembra quello di allevare cittadini credenti piuttosto che amministratori credibili. No?

Buon venerdì.

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Decretano insicurezza

Il M5s frena sulla reintroduzione della protezione umanitaria, abolita con i decreti Sicurezza. Rischiando di fare un favore a Salvini proprio mentre sta crollando nei sondaggi

Mentre Salvini si prepara a montare il suo circo per l’udienza preliminare del suo processo in cui viene accusato di sequestro di persona aggravato a Catania, chiamando a raccolta tutti i suoi scherani che le proveranno tutte per trasformarlo in vittima come hanno imparato dal loro antico padrone Berlusconi, il governo Conte dovrebbe finalmente abolire i decreti Sicurezza che proprio il leader leghista ha lasciato come eredità e che da più di un anno rimangono lì impuniti.

Da fuori un cittadino potrebbe pensare che non ci sia occasione migliore per rivendicare una “discontinuità” rispetto alla politica leghista (ve lo ricordate, vero, Conte che prometteva discontinuità?) e per affermare senza remore la propria diversità in tema di diritti e invece accade (piuttosto sottovoce, almeno questo) tutto il contrario. L’abolizione dei decreti sicurezza infligge talmente tanta insicurezza in alcune compagini di governo che si è pensato di fare passare le regionali per non dare “un assist a Salvini”, dicevano così le voci in Parlamento. Come si possa fare un favore a un avversario abolendo un suo errore è un mistero ma evidentemente a qualcuno quei decreti piacciono parecchio, anche se si vergogna di dirlo.

Il 27 settembre il premier Conte ha annunciato l’abolizione dei decreti sicurezza «nel primo consiglio dei ministri utile» (è la formula che si ripete da mesi) e l’accordo (vale la pena ricordarselo) era stato firmato davanti alla ministra dell’Interno Lamorgese alla fine di luglio da tutti i rappresentanti della maggioranza. Alla fine di luglio, eh. Siamo a ottobre è proprio ieri, udite udite, esce l’ultimo intoppo: il Pd accusa il Movimento 5 stelle di non volere la reintroduzione della protezione umanitaria che una parte dei grillini riterrebbe inaccettabile (la protezione umanitaria, eh) e ieri sera il deputato grillino Francesco Berto (confermando di fatto il retroscena) su Twitter ha scritto: «Contrariamente a quanto affermato dal Pd, la reintroduzione della protezione umanitaria non era prevista nelle bozze dei dl Sicurezza e immigrazione. Siamo sempre aperti al confronto, ma non si facciano forzature sulla verità e su temi così delicati per il Paese».

E quindi? Quindi siamo daccapo. Un punto però è certo: l’abolizione dei decreti Sicurezza di Salvini ha decretato la più evidente insicurezza di un governo che sul tema sta facendo tutto nel modo peggiore possibile ottenendo addirittura il risultato di riuscire a scontentare tutti, sia i buonisti che i cattivisti.

Perché bisognerebbe avere il coraggio di appoggiare le decisioni che si prendono e togliersi una volta per tutte quell’espressione di fastidio come quelle coppie che stanno insieme e non si sopportano più. Anche perché fare un favore a Salvini proprio mentre quello crolla nei sondaggi sembra proprio un regalo eccessivo. Non dico di fare qualcosa di sinistra ma almeno un po’ di coraggio, dai, per favore, su. Un po’ di sicurezza.

Buon giovedì.

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E insomma galleggiano

I partiti e i leader dopo le elezioni regionali. E i cittadini italiani dopo il referendum costituzionale, in attesa delle riforme che sono state promesse

Primo dato, appariscente e importante: questo refrain che gli italiani non vedessero l’ora di andare a votare per prendere a calci i partiti del governo e per incoronare la destra di Salvini e di Meloni è una bufala pazzesca. Nei giorni scorsi qualcuno, Salvini in testa, sognava e sparlava di una vittoria clamorosa e invece quel turbine sovranista che latra sui social, sui giornali e in televisione è solo un ruttino. Matteo Salvini ha voluto trasformare questo voto in un voto nazionale e ha sbagliato. A proposito: la Lega stravince in Veneto ma la lista di Zaia stravince relegando la lista ufficiale del partito a percentuali per niente eclatanti. Per intendersi: ha stravinto Zaia, più della Lega e presto farà valere il suo peso politico anche sul resto del partito. Il centrodestra galleggia.

Il Partito Democratico tiene, vince in Toscana e si afferma come partito, vince in Puglia con candidato che non voleva nessuno (Emiliano) e stravince in Campania con De Luca (ma quella è una vittoria di De Luca). Zingaretti ha rischiato ma è riuscito a rimanere in piedi. C’è da dire che nessuno dei candidati è un “suo” uomo. Ora chissà se riuscirà a fare il segretario e a governare con decisionismo il partito. Si rimane in attesa, come sempre. Una notazione: Zingaretti in conferenza stampa è riuscito a proporsi come rappresentante di chi ha votato Sì e anche di chi ha votato No al referendum, come se con un po’ di retorica si potesse tenere i piedi in tutte le scarpe. Il Pd galleggia.

Il Movimento 5 Stelle si sa che avrebbe deluso e infatti Di Maio corre in conferenza stampa intestandosi la vittoria del referendum e poi lascia agli altri l’incombenza di analizzare i deludenti risultati delle regionali. Ora si giocherà la battaglia interna nei prossimi Stati Generali e lì si capirà di più. Insomma il M5S galleggia.

Matteo Renzi si è tolto la soddisfazione di esistere solo per fare perdere il centrosinistra e non ci è riuscito. Incassa un risultato patetico ma non se ne renderà conto. Sono anni che non riesce a fare i conti con la realtà. E quindi galleggerà continuando a pestare i piedi.

Intanto per il taglio dei parlamentari stravince il Sì ma verrebbe da chiedersi chi rappresenti quel 30% di No. Ora tutti ci promettono che faranno le riforme. Restiamo in attesa di sapere quali siano le idee. Insomma, galleggiamo anche noi.

Buon martedì.

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«Come godo»

Manlio Germano era un profilo fake, esistente su Facebook, che vomitava insulti razzisti, odio, rancore, bile e tutte quelle altre schifezze sui social. Se ne stava tranquillo nella sua bolla a rimestare nella merda finché un giorno ha esagerato ed è stato notato: in fondo, se ci pensate, lo fanno proprio per quello, per creare rumore, per guadagnarsi un seguito che non sarebbero capaci di avere esprimendo idee proprie che non siano violenza.

Manlio Germano aveva riportato la foto dei fratelli Bianchi (in carcere con l’accusa di avere ucciso Willy Monteiro Duarte) definendoli “eroi” e apostrofando Willy come “scimpanzé”. “Come godo”, aveva anche scritto. Quando il suo post è diventato virale (perché per fortuna l’indignazione scova la feccia che rimane sotto traccia e la fa venire a galla) il nostro coraggiosissimo Manlio Germano (che ovviamente non è il suo vero nome) aveva addirittura annunciato querela (per cosa poi? Per essere uno schifoso? Si voleva costituire?) e come al solito aveva scritto che non era stato lui a scrivere quel messaggio ma dei suoi amici, “per fare uno scherzo”. Sono sempre così: quando vengono beccati i leoni da tastiera diventano pecorelle.

La Polizia postale ha individuato il proprietario di quel profilo, un 23enne definito “esperto informatico”, che mascherava le tracce della navigazione, convinto che sarebbe stato impossibile rintracciarlo. E invece l’hanno rintracciato e hanno bussato alla porta dell’hotel in cui si trovava. Ora rischia fino a 8 anni di carcere.

La storia (triste) ci insegna due cose: innanzitutto che le parole contano, sul web o al bar, e delle parole che si pronunciano bisogna prendersi la responsabilità ma ci insegna anche che esistono tutti gli strumenti per punire i colpevoli senza bisogno delle fantasticherie di qualche politico che di tanto in tanto si inventa qualche proposta per normare un luogo in cui vigono già le normali leggi. E insegna anche che “gli esperti informatici” alla fine sono meno esperti di quello che pensano.

Buon lunedì.

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Chi difende Willy? Se a uccidere un bianco fossero stati 4 neri sarebbe scoppiato il finimondo

Eppure ci sono dentro tutti gli elementi della propaganda salviniana: c’è una zona che, a detta degli stessi abitanti che la abitano, è completamente sfuggita al controllo delle forze dell’ordine, una zona di quartiere e spaccio, una zona dove spesso accadono atti di violenza. Una zona franca, direbbe Matteo Salvini, che è sempre pronto a prendere parola quando accadono cose di questo tipo. Ci sono persone dedite allo spaccio, alla violenza, che fieramente si mostrano in tutta la loro prepotenza sui loro canali social. I due fratelli Marco e Gabriele Bianchi vengono raccontati come ragazzi che sfociavano spesso nell’uso delle mani, forti della loro preparazione sportiva e di un pensiero in cui la forza diventa una virtù da esibire con cura.

Cè tutta la vigliaccheria di chi se la prende con un ragazzo di 21 anni, Willy Monteiro Duarte, che ha avuto la sfortunata idea di provare a difendere un amico, la sua colpa sarebbe tutta qui, ha avuto l’ardire di sedare una rissa che invece era un fiume di violenza inarrestabile e che si sarebbe sfamato solo con la morte. L’hanno ucciso a calci e pugni, a mani nude, come un in brutto video di quelli che circolano in rete. E Willy era un ragazzo come tanti, con il sogno di giocare nella Roma di cui era tifosissimo e con la passione della cucina. Giovani, italiani, spacciatori, picchiatori, pregiudicati. Sono il prototipo dei nemici di Matteo Salvini, solo che quelli contro cui sbraita Salvini ogni volta devono essere neri e invece questi, per sua sfortuna, sono bianchi.

Ora immaginate questa notizia invertita: immaginate gli editoriali, immaginate i politici sbraitare, immaginate l’emergenza sicurezza scritta su qualche prima pagina, immaginate le pelose descrizioni di quello che rischiamo, immaginate il leader leghista accusare il governo, le istituzioni, magari organizzare una bella fiaccolata. E invece sulla tragedia di Willy non si dice niente, non esce niente. Il caso di Colleferro contiene tutti gli ingredienti per raccontare che la violenza non ha un’etnia, non ha un colore e non ha una fede religiosa e notare la differenza di trattamento che questa notizia ha rispetto alle altre simili è una cosa che fa rivoltare lo stomaco. Invocano sicurezza tutti i giorni, ma hanno bisogno che i protagonisti corrispondano ai loro pregiudizi. Altrimenti non se ne fa niente, questa morte non è usabile, è da scartare, da cacciare via.

Leggi anche: 1. “Vi prego basta, non respiro più”: la testimonianza di una donna che ha visto morire Willy / 2. “Sognava di diventare come Totti”: chi era Willy, il 21enne ucciso dal branco a Colleferro / 3. Dal culto per le arti marziali ai precedenti per spaccio: chi sono gli aggressori di Willy Monteiro

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Non c’è un giudice a Strasburgo?

Tocca parlare ancora di Turchia, perché i diritti sono sempre quelli degli altri e perché la finta contrizione per la morte di Ebru Timtik sembra non avere insegnato nulla, niente.

L’avvocato Aytaç Ünsal, collega di Ebru Timtik e anche lui al suo 214° giorno di sciopero della fame, anche lui condannato per terrorismo e ovviamente sottoposto a un processo farsa, ha rischiato di fare la stessa fine della sua collega e di altri che in questi mesi stanno protestando contro il governo di Erdogan e che sono accusati in modo strumentale per essere messo fuori gioco.

Nelle scorse ore, fortunatamente, la Corte di Cassazione di Ankara ha deciso la sua immediata scarcerazione per motivi di salute. I giudici hanno stabilito che l’avvocato 32enne debba essere “immediatamente liberato” a causa del “pericolo che rappresenta per la sua vita la permanenza in prigione”. Nei giorni scorsi, i sanitari avevano lanciato l’allarme sul deterioramento delle sue condizioni di salute.

Ma solamente due giorni fa, il 2 settembre, la Corte europea dei diritti dell’Uomo (Cedu) aveva bocciato il ricorso per la scarcerazione di Ünsal confermando la decisione della Corte costituzionale turca dello scorso 14 agosto. E già questo dovrebbe porre delle domande poiché giuristi di tutta Europa stavano sottolineando l’iniquità della giustizia turca nei confronti degli avvocati. Giusto per capire a che punto siamo arrivati basti pensare che il ministro dell’Interno, Süleyman Soylu, ha definito una «terrorista» l’avvocata morta, e ha denunciato l’ordine degli avvocati di Istanbul per averla commemorata. In Turchia sono vietate anche le lacrime.

Ma non è tutto, no: il presidente della Cedu, Robert Spano, è in questi giorni in Turchia per ricevere una Laurea Honoris Causa in Giurisprudenza a Istanbul e poi tenere, ad Ankara, una Lectio Magistralis presso l’Accademia di Giustizia turca. L’Università statale di Istanbul è stata al centro di una massiccia epurazione dopo il fallito “colpo di Stato” del 2016: furono licenziati 192 accademici. Quell’università è il simbolo dell’opera di pulizia da parte di Erdogan e che un giudice super partes decida di esserne ospite accende più di qualche dubbio.

Lo scrittore Mehmet Altan ha scritto a Spano: «Non so come si possa essere fieri di essere membri onorari di una università che condanna alla disoccupazione, alla povertà e al carcere centinaia di docenti solo per il loro pensiero e i loro scritti». Altan è un accademico di fama mondiale ed era stato espulso da quella università per le sue idee e fu tra i primi intellettuali arrestati nella repressione post-golpe. L’accusa, tanto per chiarire di cosa stiamo parlando, sarebbe quella di avere mandato “messaggi subliminali” durante un programma televisivo. Altan è stato poi prosciolto ma non è mai stato reintegrato all’università, marchiato come traditore.

In tutta la Turchia pendono qualcosa come 60mila richieste di reintegro da parte di lavoratori che hanno perso il proprio lavoro per le loro idee politiche. E sapete chi vaglierà quelle richieste? Robert Spano, quello che in questi giorni è in gita d’onore proprio in Turchia.

E questo per oggi è tutto.

Buon venerdì.

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