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Dal bacio di Biancaneve a «è una vergogna signora mia…»

Era inevitabile ed è accaduto: a furia di moltiplicare iperboli per leccare anche l’ultimo clic indignato sul fondo della scatola perfino Enrico Mentana decide di dire la sua sulla “cancel culture” con due righe veloci, di passaggio, sui social paragonandola niente popò di meno che ai roghi dei libri del nazismo, con annessa foto di in bianco e nero di un rogo dell’epoca perché si sa, l’immagine aumenta a dismisura la potenza algoritmi del post.

Una polemica partita da un giornalino di San Francisco

La settimana delle “irreali realtà su cui pugnacemente dibattere” questa settimana in Italia parte dal bacio di Biancaneve cavalcato (in questo caso sì, con violenza amorale) da certa destra spasmodicamente in cerca di distrazioni e si conclude con gli editoriali intrisi di «è una vergogna, signora mia» di qualche bolso commentatore pagato per rimpiangere sempre il tempo passato. Fa niente che non ci sia mai stata nessuna polemica su quel bacio più o meno consenziente al di là di una riga di un paio di giornaliste su un quotidiano locale di San Francisco: certa intellighenzia Italiana si spreme da giorni sull’opinione di un articolo di un giornalino oltreoceano convinta di avere diagnosticato il male del secolo, con la stesa goffa sproporzione che ci sarebbe se domani un leader di partito dedicasse una conferenza stampa all’opinione di un avventore del vostro bar sotto casa. Un ballo intorno alle ceneri del senso di realtà per cui si son agghindati tutti a festa, soddisfatti di fare la morale a presunti moralisti di una morale distillata dall’eco dopata di una notizia locale.

Se la battaglia “progressista” si ispira a Trump

Chissà se i democraticissimi e presunti progressisti che si sono autoconvocati al fronte di questa battaglia sono consapevoli di avere come angelo ispiratore l’odiatissimo Donald Trump, il migliore in tempi recenti a utilizzare la strategia retorica del politicamente corretto per spostare il baricentro del dibattito dai problemi reali (disuguaglianze, diritti, povertà, discriminazioni) a un presunto problema utilissimo per polarizzare e distrarre. Nel 2015 Donald Trump, intervistato dalla giornalista di Fox Megyn Kelly su suoi insulti misogini via Twitter («You’ve called women you don’t like fat pigs, dogs, slobs and disgusting animals…») rispose secco: «I think the big problem this country has is being politically correct». Che un’arma di distrazione di massa venisse poi adottata dalle destre in Europa era facilmente immaginabile ma che si attaccassero a ruota anche disattenti commentatori e intellettuali (?) convinti di purificare il mondo era un malaugurio che nessuno avrebbe potuto prevedere. Così la convergenza di interessi diversi ha imbastito un fantasma che oggi dobbiamo sorbirci e forse vale la pena darsi la briga di provarne a smontarne pezzo per pezzo.

La banalizzazione delle lotte altrui è un modo per disinnescarle

C’è la politica, abbiamo detto, che utilizza la cancel culture per accusare gli avversari politici di essere ipocriti moralisti concentrati su inutili priorità: se io riesco a intossicare la richiesta di diritti di alcune minoranze con la loro presunta e feroce volontà di instaurare una presunta egemonia culturale posso facilmente trasformare gli afflitti in persecutori, la loro legittima difesa in un tentativo di sopraffazione e mettere sullo stesso piano il fastidio per un messaggio pubblicitario razzista con le pallottole che ammazzano i neri. La banalizzazione e la derisione delle lotte altrui è tutt’oggi il modo migliore per disinnescarle e il bacio di Biancaneve diventa la roncola con cui minimizzare le (giuste) lotte del femminismo come i cioccolatini sono stati utili per irridere i neri che si sono permessi di “esagerare” con il razzismo. Il politicamente corretto è l’arma con cui la destra (segnatevelo, perché sono le destre della Storia e del mondo) irride la rivendicazione di diritti.

Correttori del politicamente corretto a caccia di clic

Poi c’è una certa fetta di artisti e di intellettuali, quelli che hanno sguazzato per una vita nella confortevole bolla dei salottini frequentati solo dai loro “pari”, abituati a un applauso di fondo permanente e a confrontarsi con l’approvazione dei propri simili: hanno lavorato per anni a proiettare un’immagine di se stessi confezionata in atmosfera modificata e ora si ritrovano in un tempo che consente a chiunque di criticarli, confutarli e esprimere la propria disapprovazione. Questi trovano terribilmente volgare dover avere a che fare con il dissenso e rimpiangono i bei tempi andati, quando il loro editore o il loro direttore di rete erano gli unici a cui dover rendere conto. Benvenuti in questo tempo, lorsignori. Poi ci sono i giornalisti, quelli che passano tutto il giorno a leggere certi giornali americani traducendoli male con Google e il cui mestiere è riprendere qualche articolo di spalla per rivenderlo come il nuovo ultimo scandalo planetario: i politicamente correttori del politicamente corretto è un filone che garantisce interazioni e clic come tutti gli argomenti che scatenano tifo e ogni presunta polemica locale diventa una pepita per la pubblicità quotidiana. A questo aggiungeteci che c’è anche la possibilità di dare fiato a qualche trombone in naftalina e capirete che l’occasione è ghiottissima. Infine ci sono gli stolti fieri, quelli che da anni rivendicano il diritto di essere cretini e temono un mondo in cui scrivere una sciocchezza venga additato come sciocchezza. Questi sono banalissimi e sono sempre esistiti: poveri di argomenti e di pensiero utilizzano la provocazione come unico sistema per farsi notare e come bussola vanno semplicemente “contro”. Chiamano la stupidità “libertà” e pretendono addirittura di essere alfieri di un pensiero nuovo. Invece è così banale il disturbatore seriale. Tanti piccoli opportunismi che hanno trovato nobiltà nel finto dibattito della finta cancel culture.

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La preghiera dell’odio

Un parroco in un paese della Puglia ha organizzato una veglia di preghiera contro la legge contro l’omotransfobia che, a suo dire, sarebbe un’insidia che minaccia la famiglia. E la sindaca si è ribellata

Siamo a Lizzano, paese in provincia di Taranto, dove il parroco, don Giuseppe, ha pensato bene di organizzare una veglia di preghiera contro la legge contro l’omotransfobia (il disegno di legge Zan è già stato approvato in Commissione Giustizia) che, a suo dire, sarebbe un’insidia che minaccia la famiglia. L’oscurantismo del resto va molto di moda tra alcuni leader politici e figurarsi se non prende piede anche tra i parroci di provincia dove con un arzigogolato ragionamento si riesce a mettere insieme la famiglia con l’odio verso i gay: sono quei pensieri deboli e cortissimi che prendono molto piede dove l’ignoranza regna sovrana. Evidentemente per don Giuseppe il suo dio vuole che si continui a odiare e discriminare perché le famigliole possano stare tranquille. Contento lui.

Il punto che conta però è che in molti (per fortuna) si sono ribellati a questa pessima iniziativa e soprattutto la sindaca del paese, la dott.ssa Antonietta D’Oria, pediatra di famiglia, mamma di quattro figli che lavora a Lizzano da trent’anni ed è impegnata in varie associazioni di ambito sociale, ambientale e culturale decide di prendere carta e penna e di rispondere. Potrebbe essere la solita diatriba tra parroco e sindaca ma di questi tempi le parole sono preziose. Ecco la risposta:

“È notizia ormai rimbalzata su tutti i social media che il parroco di Lizzano, il parroco della nostra Comunità, il nostro parroco ha organizzato un incontro di preghiera contro le insidie che minacciano la famiglia, tra cui, prima fra tutte, cita la legge contro l’omotransfobia.
Ecco, noi da questa iniziativa prendiamo, fermamente, le distanze.
Certo non sta a noi dire quello per cui si deve o non si deve pregare, ma anche in una visione estremamente laica quale è quella che connota la attuale Amministrazione Comunale, la chiesa è madre e nessuna madre pregherebbe mai contro i propri figli.
Qualunque sia il loro, legittimo, orientamento sessuale.
Perché, come ha scritto meglio di come potremmo fare noi, padre Alex Zanotelli, quando ha raccontato la propria esperienza missionaria nella discarica di Corogocho, la Chiesa è la madre di tutti, soprattutto di quelli che vengono discriminati, come purtroppo è accaduto, e ancora accade, per la comunità LGBT.
A nostro modestissimo parere e con la più grande umiltà, ci pare che altre siano le minacce che incombono sulla famiglia per le quali, sì, sarebbe necessario chiedere l’intervento della Divina Misericordia.
Perché non pregare contro i femminicidi, le violenze domestiche, le spose bambine?
Perché non celebrare una messa in suffragio per le anime dei disperati che giacciono in fondo al Mediterraneo?
Perché non pregare per le tante vittime innocenti di abusi?
Ecco, senza voler fare polemica, ma con il cuore gonfio di tristezza, tanti altri sono i motivi per cui raccogliere una comunità in preghiera.
Certo non contro chi non ha peccato alcuno se non quello di avere il coraggio di amare.
E chi ama non commette mai peccato, perché l’amore, di qualunque colore sia, innalza sempre l’animo umano ed è una minaccia solo per chi questa cosa non la comprende”.

Che bella quando prende posizione, la politica.

Come dice la scrittrice Francesca Cavallo: «iniziative come questa non devono passare sotto silenzio, per il bene di tutti quegli adolescenti che leggono di un’iniziativa come questa e pensano di essere sbagliati. Io sarei potuta essere tra loro».

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Thyssen: fu una “colpa imponente”

Il 13 maggio scorso la Cassazione aveva confermato le pene chiudendo la storia giudiziaria del caso Thyssen. È stata una “colpa imponente”, scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza, quella commessa dall’ex ad della Thyssen Harald Espenhahn che insieme ad altri cinque manager del gruppo siderurgico ha provocato, per la totale e consapevole mancanza di adeguate misure di sicurezza, il rogo dello stabilimento di Torino nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007 nel morirono sette operai.

“Imputati consapevoli del pericolo”
Ad avviso della Suprema Corte, quella dell’ex amministratore delegato e degli altri dirigenti, è una “colpa imponente” tanto “per la consapevolezza che gli imputati avevano maturato del tragico evento prima che poi ebbe a realizzarsi, sia per la pluralità e per la reiterazione delle condotte antidoverose riferite a ciascuno di essi che, sinergicamente, avevano confluito nel determinare all’interno” dello stabilimento di Torino “una situazione di attuale e latente pericolo per la vita e per la integrità fisica dei lavoratori“.  I supremi giudici affermano inoltre che quella commessa è stata una “colpa imponente” anche per “la imponente serie di inosservanze a specifiche disposizioni infortunistiche di carattere primario e secondario, non ultima la disposizione del piano di sicurezza che impegnava gli stessi lavoratori in prima battuta a fronteggiare gli inneschi di incendio, dotati di mezzi di spegnimento a breve gittata, ritenuti inadeguati e a evitare di rivolgersi a presidi esterni di pubblico intervento”.

I giudici avevano confermato le pene inflitte in appello: nove anni e otto mesi per Espenhahn, sei anni e dieci mesi per i dirigenti Marco Pucci e Gerald Priegnitz, sette anni e sei mesi per il direttore dello stabilimento Daniele Moroni, sette anni e due mesi per l’ex direttore dello stabilimento Raffaele Salerno e sei anni e otto mesi per il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri. Le vittime del rogo sono Antonio Schiavone (il primo a morire alle 4 del mattino per le ferite riportate durante l’incidente), Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo, Bruno Santino (spirati lentamente dal 7 al 30 dicembre del 2007 per le gravissime ustioni riportate).

“L’ad massimo autore delle violazioni”
Con argomenti di “assoluta condivisione”, i giudici dell’appello bis muovendosi nel solco delle indicazioni della Cassazione, hanno individuato nell’ex ad di Thyssen, Harald Espenhahn, “il massimo autore delle violazioni antinfortunistiche che hanno causato gli eventi di incendio e morte” mettendo inoltre in evidenza il fatto che “intorno a lui si muovono gli altri imputati che all’interno della complessa organizzazione aziendale si cooperano, interagiscono con la figura di vertice, aderiscono alle scelte strategiche, le supportano con le loro competenze tecniche e nell’esercizio dei poteri gestionali”.  Se l’ex ad è “il massimo responsabile delle scelte strategiche” sulla gestione dello stabilimento di Torino che nel 2007 era in via di dismissione e non venne fatto alcun investimento in sicurezza nonostante i numerosi motivi di allarme, gli altri manager sono anche loro colpevoli di omicidio colposo plurimo quali “informati e adesivi di tali scelte”.

Per gli ermellini “la colpa in capo al direttore dello stabilimento di Torino, Raffaele Salerno, e al responsabile della prevenzione e della protezione del lavoro, Cosimo Cafueri, si era manifestata ai massimo livelli ipotizzabili, avendo gli stessi avutodiretta percezione e consapevolezza sul campo, a fronte delle plurime segnalazioni ricevute dalle squadre antincendio, dalle problematiche connesse alle garanzie assicurative, alla mobilità dei lavoratori, alla condizione di degrado dello stabilimento, dal progressivo peggioramento delle condizioni di sicurezza”. Nonostante ciò erano stati approvati “documenti per la valutazione del rischio dal contenuto ampiamente riduttivo se non dissimulatorio”. Con una “prospettiva autarchica e autogestionale del rischio di incendio, mobilitando le squadre di emergenza soltanto in seconda battuta, investendo di responsabilità i capiturno addetti alla produzione e praticamente limitando a ipotesi eccezionali l’intervento dei Vigili del Fuoco”.

Il tentativo di influenzare i testi
Dopo il rogo, il capo dello stabilimento e il responsabile della sicurezza, Salerno e Cafueri, hanno messo in campo “una condotta processuale caratterizzata da modifica dello stato dei luoghi, zelo ingiustificato, e intento di avvicinare e influenzare il testimoniale” spiegano i giudici riferendosi alle “manovre inquinatorie” commesse da questi due imputati ai quali, anche per questi depistaggi, sono state negate le attenuanti generiche. Una scelta “del tutto condivisibile” considerando che Salerno organizzò una cena con i dipendenti dell’acciaieria alla bocciofila di Settimo Torinese “nella imminenza della audizione dei testimoni”, iniziativa che “se collegata agli improvvidi tentativi del Cafueri di avvicinare e di disciplinare la testimonianza di alcuni di essi, costituiva ulteriore manifestazione di totale indifferenza al conflitto di interessi in essere con la posizione dei dipendenti citati a deporre sui fatti ascritti ai loro dirigenti”.

(fonte)

Città della scienza: come contribuire

859307_492521760807848_1353605032_oPer contribuire singolarmente alla ricostruzione di Città della Scienza è disponibile il conto corrente, intestato a Fondazione Idis Città della Scienza – IBAN IT41X0101003497100000003256 – causale Ricostruire Città della Scienza.

Sarebbe un bel modo anche per cominciare la discussione sui contributi elettorali: cominciare a vedere i partiti contribuire.

Intanto brucia la scienza

 

nap_01_941-705_resizeCittà della Scienza, nata da un’intuizione di Vittorio Silvestrini e dalla volontà politica di Antonio Bassolino, era molto di più di un centro di eccellenza e di un luogo di cultura scientifica tra i migliori in Europa. Ridare vita ad un luogo attraverso la scienza, l’educazione, l’innovazione, là dove prima era l’acciaio, il rumore della fonderia, il fischio della sirena a scandire i tempi di Bagnoli, significava immaginare un futuro diverso per Napoli, fondato sulla società della conoscenza, su un rinnovato rapporto con il mare e con l’ambiente, su uno sguardo finalmente rivolto al futuro. Lì dove gli operai e gli abitanti di Bagnoli avevano respirato veleni ed erano stati ammorbati dai fumi delle ciminiere, i loro figli avrebbero finalmente avuto una vita diversa, si sarebbero riappropriati del territorio, avrebbero trovato lavoro puntando sulla formazione e sulla cultura. Per questo motivo Città della Scienza rappresentava la rinascita della Napoli degli anni ‘90, molto di più di Piazza del Plebiscito liberata dalle macchine. Perché mentre la seconda era una cartolina ad uso e consumo di chi a Napoli non viveva, la prima era l’immagine di una Napoli che cerca riscatto puntando sul futuro. Chi ieri ha dato fuoco a Città della Scienza non solo ha distrutto quei luoghi, non solo ha lasciato senza lavoro centinaia di persone, non solo ha privato migliaia di Napoletani di un museo straordinario amatissimo dai bambini. Chi ha dato fuoco a Città della Scienza ha accoltellato, ha ferito a morte chiunque immagini una città diversa, liberata dagli stereotipi e dai suoi vizi endogeni. Chi ha dato fuoco ieri notte a Città della Scienza, ha dato fuoco a ciascuna delle nostre case.

Ora a Coroglio l’odore acre dei luoghi devastati dell’incendio è insopportabile, un odore terribile che quasi ricorda i veleni della fonderia. Quando invece entravi nel Museo della Scienza sentivi quell’odore tipico dei luoghi della conoscenza, come nelle Biblioteche e nei Teatri. Lì andavo spessissimo con mio figlio Emanuele, stavamo ore a giocare con gli esperimenti di fisica, guardavamo stupiti nel buio le stelle del Planetario. Attraverso il gioco e la scoperta, Emanuele era stimolato a farmi moltissime domande a cui ovviamente mi arrabattavo a rispondere.

Quando mi chiederà di riportarlo lì di nuovo, sarà un dolore fortissimo dirgli che qualcuno ha dato fuoco a quel luogo da lui così amato. Da cittadino e da padre pretendo che tutte le istituzioni, dal Governo, alla Regione Campania, al Comune di Napoli, facciano qualcosa e lo facciano presto. Per Emanuele e per tutti i bambini come lui.

Francesco Nicodemo racconta il senso di un incendio che porta più distruzione di quella semplicemente materiale. Mentre parliamo di corse in spiaggia, di come sarebbe stato “se” e dei governi tecnici, sarebbe bello che i partiti chiedessero tra gli interventi dei primi 100 giorni la ricostruzione della Città della Scienza. Insieme a loro il Presidente della Repubblica e i cittadini. Per risistemare l’asse delle cose che ontano, almeno.