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Saluto

“Non leggo da 3 anni”. Ma la Lega propone Lucia Borgonzoni sottosegretario all’Istruzione 

È un riflesso pavloviano che attanaglia la Lega ogni volta che si parla di cultura: arriva il martelletto e Salvini estrae dal cilindro la mirabile figura di Lucia Borgonzoni, come se nella sua cesta avesse solo quello e come se tutte le figure barbine collezionate fin qui siano slavate dalla memoria corte di cittadini ed elettori.

E così accade ancora che per il ruolo di sottosegretaria all’Istruzione circoli con molta insistenza sempre lei, ancora lei, che sottosegretaria alla cultura era stata già in occasione del primo governo Conte, quando ci deliziò dicendo “leggo poco, studio sempre cose per lavoro. L’ultima cosa che ho riletto per svago Il Castello di Kafka, tre anni fa. Ora che mi dedicherò alla cultura magari andrò più al cinema e a teatro”, incassando subito lo sdegno di chi alla cultura si dedica da una vita e si è ritrovato ad avere una referente del genere.

Ma Lucia Borgonzoni la ricordiamo anche candidata alle elezioni regionali in Emilia Romagna dove sfoggiò un alto esercizio di cultura generale raccontandoci come l’Emilia Romagna confinasse con il Trentino (del resto cosa interessa a una leghista dei confinanti, loro che vogliono chiudere i confini?) e la sua notevole proposta di tenere gli ospedali “aperti di notte, di sabato e di domenica, come in Veneto” per “difendere i più deboli” dimenticando (o non sapendo) che era già così dappertutto, mica solo nelle regioni governate dalla Lega.

Fu una campagna elettorale indimenticabile perché Borgonzoni si lanciò a capofitto sulla vicenda di Bibbiano, scrivendone praticamente ogni giorno e collezionando gaffe in continuazione, tanto che alla fine il leader leghista Salvini fu costretto praticamente ad affiancarla per tutta la campagna elettorale: rimane negli annali la sua foto con un cane e il profondissimo attacco politico al suo avversario Bonaccini: “Un saluto da Holly, che tenerezza! Non ditelo a Bonaccini del PD, è allergico a cagnolini e gattini, pensa che sia ridicolo parlarne”.

Tanto per dire il livello. Promise ai suoi elettori di rimanere in Regione anche in caso di sconfitta: promessa ovviamente non mantenuta. Troppo comoda e calda la poltrona da senatrice. E anche in consiglio comunale a Bologna è riuscita a distinguersi: zero presenza nel 2020 (nonostante si facesse tutto da remoto) e una sola presenza nel 2019. Insomma Lucia Borgonzoni ha proprio tutte le caratteristiche per meritarsi evidentemente un posto nel governo e siamo sicuri che riuscirà a stupirci ancora. Peccato che sia un divertimento tragico per il Paese.

Leggi anche: 1. L’intergruppo Pd-M5S-Leu: tra la lotta alle destre e la nostalgia di Conte / 2. Il divertente spettacolo della Lega, che per non stare fuori dai giochi si scopre europeista

L’articolo proviene da TPI.it qui

Alla vigilia di Natale, nel silenzio generale, l’Italia ha consegnato una nave militare all’Egitto. Con buona pace di Regeni

Questa volta niente cerimonia strombazzata con foto d’ordinanza e saluto militare. Lo scorso 23 dicembre, presso i cantieri di Muggiano, a La Spezia, mentre tutta l’Italia si affrettava per gli ultimi acquisti di Natale e il governo si concentrava su zone arancioni che sarebbero diventare rosse, Fincantieri ha consegnato agli ufficiali della Marina Militare dell’Egitto la fregata multiruolo Fremm Spartaco Schergat, ora ribattezzata “al-Galala”.

Se cercate in giro non troverete nessun comunicato, niente di niente: l’imbarazzo del governo è evidente e la morte di Giulio Regeni, con l’assurda carcerazione di Patrick Zaki, pesa come un macigno.

La consegna è solo il primo passo della vendita di due fregate Fremì all’Egitto di Al-Sisi che avrebbero dovuto essere destinate originariamente alla Marina Militare italiana e che invece sono state vendute all’Egitto senza nessuna comunicazione ufficiale al Parlamento.

La Rete Italiana Pace e Disarmo parla di una vendita “inammissibile” tenendo conto che è avvenuta “senza alcun dibattito in Parlamento in chiara violazione della legge 185 del 1990”. La legge infatti regolamenta le esportazioni militari e prevede il divieto “verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i princìpi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere”.

Del resto lo scorso 16 dicembre anche il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che denuncia l’aumento delle esecuzioni in Egitto, il ricorso alla pena capitale e le sistematiche violazioni di libertà. Proprio in quella risoluzione si esortano gli Stati membri dell’Ue a sospendere la vendita di armi all’Egitto.

Consiglio evidentemente inascoltato, se è vero che (lo dice Rete Italiana Pace e Disarmo) le forniture ipotizzate sono “di altre quattro fregate, 20 pattugliatori, unitamente a 24 caccia multiruolo Eurofighter e 20 aerei addestratori M346 ed altro materiale militare del valore tra i 9 e gli 11 miliardi di euro”.

Sullo sfondo risuonano le parole di indignazione del ministro Di Maio (“l’Italia è un Paese fondatore dell’Ue e sul tema dei diritti umani non è concesso fare passi indietro”), del presidente Conte e del presidente della Camera Roberto Fico, che parlò di “attuare decisioni dure contro l’Egitto”.

Parole che vengono rovesciate a fiumi sui giornali e che poi scompaiono quando si tratta di consegnare il prossimo armamento. La verità e la giustizia, intanto, attendono.

Leggi anche: 1. La verità su Giulio Regeni è un diritto: l’Italia smetta subito di vendere armi all’Egitto (di Alessandro Di Battista) / 2. Tutti a restituire la Legion d’Onore. Bene, ma l’Italia è ben peggio di Macron se non ferma la vendita delle armi all’Egitto (di G. Cavalli)

L’articolo proviene da TPI.it qui

L’amore fino alla fine

La lettera di addio di Ennio Morricone ai suoi cari e alla moglie Maria

Non interessa qui raccontarti della grandezza artistica di Ennio Morricone di cui sono giustamente zeppi i giornali di tutto il mondo, il suo avere composto la colonna sonora del ‘900 è scritto nel registro sentimentale di questo secolo.

C’è un altro punto però che vale la pena osservare: Ennio Morricone ha scritto il proprio necrologio, come se non avesse voluto regalare a nessuno il proprio pentagramma nemmeno nella sua ultima battuta, con un perfezionismo che raccontano quelli che gli stavano vicino che avesse anche nel suo mestiere.

E il suo necrologio inizia con una frase gigantesca: «Io Ennio Morricone sono morto». Si è preso tutta fino all’ultima nota annunciando la sua partenza già da dipartito. Ditemi se non ci vuole una mente ampia a scrivere un inizio così.

«Io Ennio Morricone sono morto. Lo annuncio così a tutti gli amici che mi sono stati sempre vicino ed anche a quelli un po’ lontani che saluto con grande affetto. Impossibile nominarli tutti. Ma un ricordo particolare è per Peppuccio e Roberta, amici fraterni molto presenti in questi ultimi anni della nostra vita. C’è solo una ragione che mi spinge a salutare tutti così e ad avere un funerale in forma privata: non voglio disturbare. Saluto con tanto affetto Ines, Laura, Sara, Enzo e Norbert per aver condiviso con me e la mia famiglia gran parte della mia vita. Voglio ricordare con amore le mie sorelle Adriana, Maria e Franca e i loro cari e far sapere loro quanto gli ho voluto bene. Un saluto pieno intenso e profondo ai miei figli, Marco, Alessandra, Andrea e Giovanni, mia nuora Monica, e ai miei nipoti Francesca, Valentina, Francesco e Luca. Spero che comprendano quanto li ho amati. Per ultima Maria (ma non ultima). A Lei rinnovo l’amore straordinario che ci ha tenuto insieme e che mi dispiace abbandonare. A Lei il più doloroso addio».

Per un uomo per cui sono così importante gli spazi e l’ordine delle cose l’ultima frase dell’ultimo respiro è per sua moglie Maria Travia: i due si conobbero nel 1950 e si sposarono 6 anni dopo.

«È stata bravissima lei a sopportare me. È vero, qualche volta sono stato io a sopportarla. Ma vivere con uno che fa il mio mestiere non è facile. Attenzione militare. Orari rigorosi. Giornate intere senza vedere nessuno. Sono un tipo duro, innanzitutto con me stesso e di conseguenza con chi mi sta attorno», disse in un’intervista al Corriere della Sera.

Un amore fino alla fine. Letteralmente. Letterariamente.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

I fascistelli a Milano non hanno capito come entrare in consiglio comunale

Siccome quegli sparuti di Casapound sono una pozzanghera che non hanno i numeri nemmeno per diventare amministratori di condominio ieri a Milano hanno pensato bene di inscenare un patetica protesta durante il consiglio comunale di Milano al grido «questa è la casa di tutti i milanesi» dimenticandosi, per scarsa dimestichezza con la matematica, che tra «tutti i milanesi» loro rimangono (per fortuna) una minoranza fin troppo tollerata nonostante la legge ne vieti l’esistenza.

Al di là della protesta contro il sindaco Sala non sono riusciti a trattenersi (gli capita spesso) dall’inscenare il loro torvo saluto romano oltre che qualche coretto da campetto di periferia. «Sono intervenuto andando verso di loro e gli ho ricordato, non proprio sottovoce, che i fascisti qua dentro non possono entrare e non hanno alcun diritto di parola. Non starò mai zitto su questo», ha scritto il consigliere comunale Paolo Limonta.

Non è finita qui. Dopo lo sconcio spettacolino i fascistelli in libertà hanno pensato bene di prendersela con i pacifici manifestanti dell’associazione Nessuna Persona è Illegale (una delegazione di NPI, invitata in comune dal Capo di Gabinetto del Sindaco per illustrare i contenuti del presidio di richiesta della residenza organizzato per oggi) mandando al Pronto soccorso una persona di sessant’anni.

Sorge però una domanda: ma perché la Questura di Milano (così prodiga e attenta per il decoro della Stazione Centrale) non riesce ad arginare quattro teppistelli? Perché, ancora una volta, si sente quel brutto odore dei “forti con i deboli” che non riescono ad essere ugualmente “forti” con i prepotenti?

A voi la risposta.

Buon venerdì.

(continua su Left)

Colloquio per Ryanair: racconto semiserio di una giornata di ordinaria precarietà

(Sandro Gianni racconta la sua esperienza per Clap, qui)

A giudicare dagli annunci nei portali per la ricerca di lavoro, sembra che sul mercato esistano solo tre tipi di occupazioni disponibili: sistemista Java, dialogatore e operatore call-center. Se non conosci Java e hai zero voglia di vendere il tuo tempo per delle chiacchiere con degli sconosciuti, al telefono o dal vivo, la ricerca pare senza possibili sbocchi. Aggiungi che la percentuale di risposta ai curriculum inviati rasenta lo zero e che la laurea e/o i master di cui sei in possesso non sono particolarmente quotati nella borsa degli skills… il quadro si complica parecchio.

Perciò, quando qualcuno ha finalmente risposto alla mia “iscrizione a un’offerta di lavoro” ho provato una strana sensazione, di affetto quasi. Ho pensato di dover ricambiare, presentandomi al colloquio. Ho detto “qualcuno”, ma in realtà avrei dovuto dire “qualcosa”: un algoritmo, un dispositivo automatico di risposta alle mail, un bot del portale. Non posso saperlo, ma l’invito a comparire in un hotel nella zona di Tor Vergata è arrivato pochi millesimi di secondo dopo l’invio della mia iscrizione. Ciò esclude la mediazione umana e, dunque, una seppur minima selezione del curriculum, che avrebbe potuto equivalere a qualche decimale in più nella stima probabilistica di un’assunzione .

Il lavoro non era proprio quello dei miei sogni, ma provavo a vederci delle sfumature positive: la possibilità di viaggiare, avere un contratto decente, ricevere uno stipendio non troppo basso. Ovviamente, mi sbagliavo.

Nell’atrio dell’hotel di lusso, nella periferia sud-est di Roma, una quarantina di ragazzi e ragazze tirati a lucido, con la barba fatta, il vestito e la cravatta siedono in silenzio. Tra loro, io. Alcuni si muovono sicuri nei completi eleganti, camminano come se nulla fosse, bevono il caffé senza bisogno di sistemarsi di continuo la giacca, muovono le mani sullo smartphone senza domandarsi perché la camicia faccia capolino solo da una delle due maniche. Altri sono impacciati, si toccano insistentemente la cravatta temendo che il nodo si sciolga, cercano delle tasche in cui infilare le mani senza trovarle, provano a controllare la continua fuoriuscita della camicia dalla giacca senza alcun successo. Evidentemente, non sono abituati a conciarsi così. Tra loro, sempre io. C’è anche un ragazzo che deve aver letto male le istruzioni per l’uso: si è presentato in jeans e camicia a quadrettoni, rossi e blu. È imbarazzato, ma resta. Sembra simpatico.

In sala nessuno fiata. Quasi che taller e vestiti abbiano trasmesso per metonimìa un certo dovere di contegno, di formalità. «Dicono che l’abito non fa il monaco, ma non è vero» – argomenta il Totò ladro vestito da carabiniere, nei Due marescialli – «Io a furia di indossare indegnamente questa divisa, marescia’… mi sento un po’ carabiniere».

Ci chiamano e andiamo tutti insieme nel seminterrato dell’albergo, in una sala conferenze. Eliminata la prima decina di candidati con un test di inglese da seconda media, la selezione entra nel vivo. O meglio, nel video. Proiettano una presentazione del lavoro, divisa per sezioni: informazioni tecniche sulle diverse mansioni; procedure di inizio; questioni retributive e contrattuali; possibilità di carriera; criteri di premialità; caratteristiche dell’azienda che offre il lavoro e dell’agenzia di recruitment che assume (due cose diverse: una è Ryan; l’altra una fusione tra Crewlink e Workforce International… sì, si chiama proprio così!). In questa seconda fase, si rivolgono a noi come fossimo già assunti. L’uomo sulla cinquantina, inglese o irlandese, responsabile del reclutamento, allude più volte a quanto staremmo bene con indosso le nuove divise da hostess e steward.

Dalle immagini del video e dagli interventi del selezionatore si capisce che ci sono soprattutto tre caratteristiche importanti per fare questo lavoro: essere disponibili alla relocation immediata; parlare inglese; essere flessibili-e-sorridenti (insieme). Le immagini mostrano giovani di tutti i colori, che sembrano felici e raccontano la loro esperienza con Ryan di fronte a un bastone per i selfie. In particolare, insistono su quanto sia utile e divertente il corso di formazione per diventare personale di bordo. Si nuota, si spengono incendi, si salvano bambolotti, si incontrano persone. «You grow up like a man, not just cabin crew».

Ma è più avanti che le orecchie dei candidati si aguzzano: quando si inizia a entrare nel dettaglio del salario e dei tempi di lavoro. La retribuzione è organizzata secondo una serie di premi e possibili punizioni, un incrocio tra un videogioco e una raccolta punti del supermercato. «Your performance is continually monitored and assessed». Monitorare e valutare. Punire solo come ultima ratio. Soprattutto premiare: per far rispettare le regole, per aumentare la produttività, per migliorare le prestazioni. I like dei clienti danno diritto a delle ricompense: monetarie, ma soprattutto relazionali. Ad esempio, la penna nel taschino è indice di un certo numero di apprezzamenti. Costituisce dunque, tra i colleghi e nell’azienda, l’indicatore di uno status particolare.

Si viene pagati un po’ in base all’orario e un po’ a cottimo. Nel senso: un fisso non esiste; sono retribuite solo le ore di volo; si percepisce il 10% su ogni prodotto venduto (…adesso lo capite il perchè di tanto rumore?). Il contratto è registrato in Irlanda o UK. Si hanno delle agevolazioni sui viaggi in aereo.

Il salario mensile dovrebbe oscillare tra 900 e 1.400 euro lordi, in base al luogo di ricollocamento. «We try to keep the wages homogeneous among our workers». Bella l’uguaglianza, quando non schiaccia tutti verso il basso… penso io. Viene poi fatto cenno a un periodo annuale in cui non si lavora e non si ricevono soldi: da uno a tre mesi. Ma il selezionatore ci assicura che questa pausa non supera (quasi) mai i 30 giorni.

Fino a qui, niente di eccezionale. Ma il rapporto premi-punizioni è più complesso e configura per intero il sistema di retribuzione. Ovviamente, se i diritti diventano premi e i doveri debiti, tutto cambia. Non si parla di tredicesima e/o quattordcesima, ma di bonus, che si ricevono solo il primo anno. 300 euro il primo mese di lavoro, altrettanti il secondo, il doppio il sesto. Chi va via prima della conclusione dei primi 12 mesi, però, deve restituire questi bonus. Inoltre, la divisa (quella bella di cui sopra) costituisce un costo esternalizzato al lavoratore: il primo anno sono 30 euro al mese scalati direttamente dalla busta paga; successivamente pare si ricevano dei soldi, ma non si capisce bene per cosa, se per lavarla o non perderla. Per ultimo, il famoso corso di formazione per diventare hostess o steward si rivela qualcosa di più di un parco giochi in cui fare festini con altri esponenti multikulti della generazione Erasmus. Principalmente, si rivela un’enorme spesa. Se all’inizio era stato comunicato che, in via eccezionale, le registration fees del corso erano dimezzate a 250 euro, è alla fine che viene fuori il vero prezzo da pagare. Ci sono due modalità differenti: 2.649 euro se paghi prima dell’inizio e tutto in un colpo; 3.249 se decidi di farti scalare il costo dallo stipendio del primo anno (299 euro dal secondo al decimo mese, 250 gli ultimi due).

Si aprono le domande. Dopo alcune irrilevanti su sciocchezze burocratiche, alzo la mano. «Ci avete parlato di un massimo di ore di volo a settimana, ma mai delle ore totali di lavoro. Quante sono?», chiedo. «Voi siete pagati in base alle block hours, cioé le ore calcolate dalla chiusura delle porte prima del decollo, all’apertura dopo l’atterraggio. I tempi di preparazione dell’aereo, prima e dopo il volo, possono variare». Varieranno pure, ma di sicuro non vengono pagati, nonostante siano tempi di lavoro.

Alza la mano quello dietro di me. «Scusi la domanda, ma ho bisogno di fare dei conti. Diciamo che uno stipendio per una destinazione non troppo cara è di 1.000 euro. Ve ne devo restituire 330 al mese tra corso e divisa. Ne rimangono 670. Dovrò prendere una stanza in affitto, diciamo 300 euro. Ne rimangono 370. In più avrò bisogno di pagare un abbonamento ai mezzi per raggiungere l’aeroporto e coprire almeno le spese della casa anche nella pausa annuale in cui non si lavora. Diciamo che, se va bene, rimangono 300 euro. E non ho scalato le tasse, perché non so come si calcolano in Irlando o UK. Secondo lei, con questi soldi si può vivere?». Sbem.

Il selezionatore della società di recruitment, fino a quel momento cordiale e spiritoso, accusa il colpo. Deglutisce. Tossisce. Arrosisce. Si butta sulla fascia, prova un diversivo. «With this work you don’t get rich, but it’s in accordance with your capacity and affords your lifestyle». Alla fine, anche qui le nostre capacità valgono poco più di un pacchetto di sigarette al giorno. Chissà, invece, come ha calcolato il nostro stile di vita!

Finito il video, io e gli altri candidati usciamo e andiamo a mangiare insieme. Da come siamo vestiti, sembriamo un gruppo di giovani businessmen in carriera, lanciati alla conquista del mercato e pronti a scalare colossi finanziari. Invece siamo lì per un colloquio che, se va bene, ci farà guadagnare meno della persona che ci serve la pizza.

Comunque, i calcoli veloci del ragazzo che ha fatto la domanda dopo di me hanno sciolto l’iniziale freddezza tra i candidati. In molti hanno perso interesse per questo lavoro. Anche per questo, si scherza e si chiacchiera. Alcuni hanno appena finito la scuola superiore, altri l’università. Altri ancora hanno già diversi anni di precarietà e i capelli brizzolati. Tra loro…

Rimango fino all’intervista, per sport. Mi capita la collaboratrice del selezionatore. Legge il mio curriculum. Niente di eccezionale, però insomma… neanche da buttare. Tutti i titoli di studio con il massimo dei voti, laurea e due master, cinque lingue, numerose esperienze di lavoro materiale e immateriale, in Italia e all’estero. «Are you sure you want to do this work?», mi chiede. Bleffo: «Eeeeeh. Why not?». «Do you know people working for us?». «No». «So, what do you know about this work?». «What you told me today», rispondo. Lei arriccia il labbro inferiore e muove la testa dal basso verso l’alto e poi in senso inverso, fissandomi con gli occhi corrucciati. Ho l’impressione che stia pensando sardonicamente “devi essere proprio una volpe, tu!”.

Saluto, me ne vado. Sulla vespa faccio i conti: due caffé al bar dell’albergo = 3 euro; un pezzo di pizza e una bottiglia d’acqua = 4 e 50; giri vari alla ricerca di vestito, cravatta e scarpe e poi fino al colloquio = almeno 5 euro; stirare la camicia = 2 euro; stampare 7 fogli di curriculum dal cristiano-copto su via di Torpignattara, che sembra sapere quando non puoi dirgli di no = 2,10 euro. Barba e capelli costo zero, taglio autoprodotto in casa. Alla fine, non mi è andata nemmeno tanto male. Qualcuno è arrivato in treno da lontano, spendendo molto di più. Per l’ennesima offerta di lavoro precario e sottopagato.

Almeno una cosa l’ho capita: nella compagnia aerea, quel low che precede il cost non è riferito soltanto ai prezzi dei biglietti, ma anche al costo del lavoro.

Ciao. Mi stai lasciando.

Lei è scesa di corsa sul marciapiede di fronte all’aeroporto. Quello pieno di gente, valigie sudate e vigili. Di fretta. Ha aperto la portiera al ritmo delle quattro frecce. Poi di corsa ha saltato un marciapiede atterrando sul successivo. Quasi una rana. E si è fermata. Come se fosse guarita dalla fretta. Ha salutato con la mano aperta ma troppo triste per sventolare. Lui ha sorriso, poi ha messo la retromarcia. Guardava lo specchietto e la mano. Che non sventolava. Come la scena sbagliata da rigirare in un brutto film. Poi lei è scesa con la mano. Ha fatto per rigirarsi e ha provato ancora a mettersi nel pugno le ultime briciole di quel saluto. Ancora con la mano. In alto. Lui sorride, come sorridono quelli che dentro dicono sì, ciao, ho capito, grazie, sono imbarazzato, ma adesso vai. Lei è rimasta un po’ lì. Impagliata da quella partenza che forse non voleva. Si è svegliata. Ha guardato in giro. Ci ha guardato negli occhi a noi che fumavamo nonostante il caldo e la poca ombra. E non si è vergognata nemmeno un secondo. Anzi. Fiera.
Stava partendo lei, ma l’aveva lasciata lui.

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