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salvatore barbaro

La ‘ndrangheta a Milano: ecco chi comanda

Ama i casinò e i bei vestiti. Nasce a San Luca nel cuore dell’Aspromonte, ma è a Milano che tesse business e rapporti. Dalla Calabria però si porta in dote una relazione privilegiata con la cosca di Sebastiano Romeo detto u Staccu. In curriculum mette anche qualche anno di università. Da qui il soprannome di DutturicchiuGiuseppe Calabrò, classe ’50, è uno dei dieci uomini d’oro che sovraintendono gli affari nel capoluogo lombardo. Tutti hanno contatti e sanno come muoversi. Sulle spalle portano decenni di carcere. Oggi, però, sono uomini liberi, nonostante molti dei lori nomi compaiano nelle carte delle ultime inchieste dell’antimafia. Vivono da fantasmi e sfuggono agli arresti. Stanno lontani dai reati e utilizzano poco il telefono. S’incontrano per strada o negli uffici. I salotti buoni li accolgono a braccia aperte. La politica li invita a cena. Nei quartieri della mala il loro nome è sinonimo di rispetto. Mafiosi di rango, certificati dalle sentenze dei giudici e da recentissime informative della polizia giudiziaria. Siciliani, ma soprattutto calabresi perché come spiega il 59enne broker della coca Marcello Sgroi “A Milano comanda la ’ndrangheta”.

Kalashnikov e Uzi – Ore 15 del 25 maggio 2012 via Oldrado de Tresseno zona viale Monza. U Dutturicchiu attende in strada. Suona il cellulare. La telefonata dura nove secondi. Giusto il tempo perché l’interlocutore confermi l’appuntamento. Non è la prima volta, è già successo e sempre in questa strada privata non lontana dalla stazione Centrale, dove il cellulare di Calabrò viene agganciato diverse volte dagli investigatori. Chi chiama è Giulio Martino, uomo del clan Libri, gregario di lusso dell’ergastolano Mimmo Branca. I due discutono di armi e di droga da trafficare dal Sudamerica direttamente nel porto di Gioia Tauro. Calabrò ha una partita di Kalashnikov e Uzi. Li tiene ad Arma di Taggia e vuole portarli a Milano. Martino interessa il suo factotum Eddy Colangelo, ex trafficante oggi collaboratore di giustizia. È lui che fa il nome di Calabrò. Lui che con le sue confessioni svela i traffici del clan Martino coinvolto nell’operazione Rinnovamento del 16 dicembre scorso. Racconta Colangelo: “Giulio Martino mi dice che c’era da fare un favore al vecchio. Con tale soprannome noi ci riferivamo a Beppe Calabrò”. Spiega: “Io lo avevo conosciuto nel 1999 a San Vittore, me lo avevano presentato i fratelli Martino (…). In carcere si sentiva parlare di lui come di una persona importante. Lo rividi molti anni dopo nel 2011, in compagnia di Giulio Martino”. Uomini liberi si diceva. Tale è oggi Calabrò, il quale non risulta indagato nell’ultima inchiesta della Dda milanese. Prosegue Colangelo: “Giulio Martino mi parlava di costui come di una persona che era uno molto importante in Calabria”. Chi è realmente u Dutturicchiu lo mettono nero su bianco i carabinieri per i quali le parole di Colangelo “confermano lo spessore criminale di Giuseppe Calabrò (…) personaggio di spicco della ‘ndrangheta”. Il suo nome è collegato anche al malavitoso serbo Dragomir Petrovic detto Draga. Il serbo, intercettato dalla Guardia di Finanza nell’ottobre 2013, discute di un traffico di droga assieme a Roberto Mendolicchio, fratello di Luigi già luogotenente di Mimmo Branca e attuale ras della zona di piazza Prealpi. Per il carico i due fanno riferimento allo stesso Calabrò, il quale, ancora una volta, non risulta coinvolto penalmente nella vicenda.

Contatti e relazioni. Così se nel 2012 Calabrò incontra gli uomini di Mimmo Branca, il suo nome compare già in alcune informative del 1990. Si tratta dell’indagine Fior di Loto dove viene descritto “come personaggio dotato di una forte potenzialità criminale” in contatto con Santo Pasquale Morabito, altro boss alla milanese, originario di Africo e legato al padrino ergastolano Giuseppe Morabito alias u Tiradrittu. Dopo quasi 30 anni di galera, oggi Santo Pasquale è tornato in libertà. La sua scarcerazione risale al febbraio scorso. Attualmente abita in una zona residenziale della città e non risulta indagato in nessuna inchiesta. A metà degli anni Novanta ecco cosa scrive di lui la Criminalpol: “Santo Pasquale Morabito, per il suo modo di essere, di atteggiarsi e per i riguardi che gli sono riservati dai suoi interlocutori ha indubbiamente raggiunto una posizione di alto rango. E ciò anche in relazione alla sua capacità di penetrazione nel tessuto socioeconomico, con l’acquisizione di attività imprenditoriali, e negli organi istituzionali e rappresentativi”. Da quell’indagine emergono, netti, i legami con Calabrò. Più volte i due, intercettati, discutono di armi e di droga. Addirittura, ricostruiranno gli investigatori, progettano un agguato all’allora capo della polizia Arturo Parisi

Durante quei colloqui negli uffici della Loto Immobiliare, impresa mafiosa a due passi dal Tribunale, c’è Pietro Mollica, anche lui di Africo, cugino di Santo Pasquale Morabito. Mollica oggi è un cittadino libero. E nonostante questo mantiene stretti rapporti con la malavita. Tanto che nel marzo 2012, la Guardia di Finanza filma un incontro di altissimo livello ai tavolini del bar il Borgo di via San Bernardo 33 a Milano. Oltre al cugino di Morabito, i militari fotografano Mario Trovato, fratello dell’ergastolano Franco Coco Trovato. Oggi Santo Pasquale Morabito conduce una vita riservata, periodicamente si reca al commissariato per la firma di rito, s’incontra con i vecchi amici. Tra questi il cugino Pietro Mollica. Basso profilo, dunque, e la solita grande passione per gli orologi di lusso. E se Santo Pasquale Morabito è tornato in libertà, un altro uomo del clan è in fuga dal 1994. Rocco Morabito, detto u Tamunga, è inserito nella lista dei dieci latitanti più pericolosi. Ricercato per mafia, è considerato un broker della droga di altissimo spessore. Ultima residenza nota: via Bordighera 18 a Milano. Da sempre u Tamunga è considerato l’alter ego di Domenico Antonio Mollicatrafficante legato ai servizi segreti militari. In città, dunque, gli uomini della cosca Morabito tornano in pista. Il clan, infatti, non è stato coinvolto nelle recenti inchieste dell’antimafia. L’ultima indagine risale al 2006. Si tratta dell’operazione For a King che ha fotografato l’infiltrazione della ’ndrangheta di Africo all’interno dell’Ortomercato di Milano e i rapporti con l’attuale consigliere regionale del Nuovo centrodestra Alessandro Colucci (mai indagato).

Occhio al passato – E così per capire il presente bisogna conoscere il passato. Dal passato arriva Giuseppe Ferraro alias il professore. Classe ’47 da Africo Nuovo, il professore oggi gestisce una lavanderia in via Amadeo. Nel 1984 la squadra Mobile scrive come fosse “legato al fratello Santo Salvatore e ad altri pregiudicati calabresi in relazione a traffici illeciti, in particolare commercio di stupefacenti ed estorsioni”. Recentemente il suo nome, mai iscritto nel registro degli indagati, è emerso nell’inchiesta dei carabinieri che ha portato in carcere l’ex assessore regionale Domenico Zambetti. In particolare Ferraro viene allertato da Pino d’Agostino, altra eminenza grigia della cosca in riva al Naviglio, per procurare voti certi al candidato di riferimento. La contabilità degli affari malavitosi passa anche e soprattutto per le zone a sud di Milano. Qui l’alto commissariato del crimine è rappresentato dagli uomini e dalle donne della cosca Barbaro-Papalia, il cui organico è tornato a ingrossarsi dopo che la maxi-inchiesta Parco sud è recentemente naufragata in Cassazione scagionando dall’accusa di mafia diversi personaggi. Su tutti: Salvatore BarbaroDomenico Papalia, figlio del boss ergastolano Antonio Papalia. Giovani leve sulle quali si accendono di nuovo i riflettori. E nonostante questo, attualmente equilibri, decisioni, affari sono in mano a due vecchi luogotenenti del clan. Il primo è Domenico Trimboli, detto Micu u Murruni, classe ’59 e una nobile parentela con il vecchio cda della ’ndrangheta al nord rappresentato dalla famiglia Papalia.

Il ruolo di primo piano di Trimboli emerge netto dall’indagine Rinnovamento, quando il reggente della cosca viene contattato dagli uomini del clan Libri, i quali chiedono un incontro. Il 16 luglio 2013 l’appuntamento è fissato ai tavolini del bar Clayton di via Volta a Corsico. A Trimboli, che non risulta indagato, viene chiesto di appoggiare l’azione di protezione nei confronti di un imprenditore milanese minacciato da un gruppo di siciliani. Trimboli, definito “personaggio di spicco della criminalità organizzata calabrese”, viene scarcerato nel 2009 e subito decide di tornare nella sua residenza di via Milano a Corsico. Nell’appartamento spesso alloggia Antonio Papalia, classe ’75, trafficante di droga, il quale, negli anni Novanta, aveva progettato di uccidere l’attuale procuratore aggiunto Alberto Nobili. Dopo Murruni, nel 2012 torna in libertà un altro pezzo da novanta. Si tratta di Rocco Barbaro, classe ’65, detto u Sparitu. Come il primo anche lui sceglie una residenza milanese in via Lecco a Buccinasco. Attualmente non risulta indagato. Le intercettazioni dell’indagine Platino ne tracciano la figura. Parla Agostino Catanzariti, reggente arrestato nel gennaio 2014 e recentemente condannato a 14anni. Dice: “Lui è capo di tutti i capi (…) di quelli che fanno parte di queste parti”. Per i carabinieri il senso è chiaro: Rocco Barbaro è l’attuale referente di tutta la ’ndrangheta lombarda. E lo è “per regola”, visto che è figlio di Francesco Barbaro detto Ciccio u Castanu, classe 1927, “una delle figure più importanti di tutte le ‘ndrine platiote”.

Arriva anche Cosa nostra – Milano capitale di ’ndrangheta, ma non solo. Attualmente, infatti, diversi esponenti di Cosa nostra sono tornati in libertà o stanno per essere scarcerati. Si tratta di nomi storici da sempre in affari con le ’ndrine. Tra questi Antonino e Carlo Zacco, padre e figlio. Il primo soprannominato Nino il bello, negli anni Novanta viene coinvolto nell’inchiesta Duomo connection mentre in Sicilia lavora nella grande raffineria di Alcamo. Da sempre è in contatto con la ’ndrangheta a sud di Milano. Suo figlio Carlo, non indagato, viene citato nell’ultima indagine sui fratelli Martino. In particolare viene coinvolto dal clan nella vicenda della protezione da dare a un imprenditore sotto scacco da un gruppo di catanesi. All’incontro Carlo Zacco, scrivono i carabinieri, si presenterà armato. In attesa di concludere una carcerazione trentennale è invece Antonino Guzzardi, broker della droga legato ai corleonesi Ciulla, in rapporto con i cartelli colombiani e in passato vicino a Pablo Escobar.

Giocano forte gli uomini d’oro del crimine alla milanese. Incrociano inchieste, ben attenti a non inciampare in reati penali. Liberi si muovono da fantasmi. Nella Milano dell’Expo e dei quartieri popolari: dal Corvetto a Quarto Oggiaro, fortino dello spaccio svuotato dalle inchieste e oggi controllato da personaggi storici come Luigi Giametta e Francesco Giordano detto don Nicola. Ultimi sopravvissuti dopo la mattanza dell’inverno 2013, quando Antonino Benfante ha sterminato il clan Tatone. Benfante lo chiamano Nino Palermo. Testa criminale e una sola strategia: “Bacia le mani a chi le merita tagliate”. Benvenuti in città.

da Il Fatto Quotidiano del 5 gennaio 2015

Barbaro, Papalia, Luraghi e tutte quelle altre cose lì di Buccinasco

Le parole sono importanti diceva Nanni Moretti e oggi ci insegnano che le sentenze dovrebbero scrivere la storia: declino triste per una nazione che aveva fatto della propria coscienza storica un esercizio collettivo senza bisogno di un giudice come certificatore. Eppure le parole delle sentenze sono anche le maniglie per noi osservatori e narratori di storie che sono come una arrampicata.

La sentenza di Cassazione del processo Cerberus aveva rispedito al mittente la natura mafiosa della famiglia Barbaro di Buccinasco direttamente da Platì (Salvatore Barbaro, il padre Domenico, il fratello Rosario, il cognato Mario Miceli arrestati nel 2008 insieme all’imprenditore lombardissimo Luraghi) azzerando le condanne, ritenendo che non fosse stata provata la mafiosità del gruppo di Buccinasco. Non erano stati argomentati in modo sufficiente i rapporti tra i Barbaro e i Papalia: non basta, per la suprema corte, il rapporto di parentela tra le due famiglie stretto con il matrimonio tra Salvatore Barbaro e Serafina Papalia, ma è necessario provare che il gruppo di Buccinasco abbia ereditato la “posizione criminale della precedente organizzazione”, la cosca dei Papalia. E non erano stati spiegati in modo certo e lineare i numerosi episodi di intimidazione entrati nel processo (auto bruciate, colpi di pistola d’avvertimento, cantieri danneggiati…).

Pochi giorni fa è arrivata la sentenza del nuovo processo d’appello: il gruppo Barbaro è erede della cosca Papalia e le intimidazioni sono il sistema con cui l’organizzazione ha conquistato un ruolo di preminenza nell’hinterland milanese, nel settore del movimento terra. Quella di Buccinasco, dunque, è ‘ndrangheta. E dunque Maurizio Luraghi (titolare dell’azienda “Lavori stradali”) è il tipo di imprenditore milanese che decide di fare affari con le cosche e ne è sodale prima che vittima. Stringe un rapporto con la cosca Barbaro per ottenere appalti, sicurezza e favori economici e poi ne rimane stritolato. Cose vecchie che qui ripetiamo da un po’ di tempo, per carità, ma che ricominciano ad avere “le carte a posto”.

 

Bye bye Barbaro, imprenditori (finalmente) mafiosi del Nord

Fino a ieri si poteva affermare che a Milano dagli anni ’90 non c’erano state condanne per il reato di associazione mafiosa. Fino a ieri alcuni politici e rappresentanti delle istituzioni “disinformati” potevano dichiarare che a Milano la mafia non esisteva. Fino a ieri appunto. Perchè ieri qualcosa è cambiato.

Dopo molti anni, proprio nel capoluogo lombardo, c’è stata una sentenza di condanna in primo grado per l’art.416 bis c.p. Il boss Salvatore Barbaro è stato condannato a 9 anni di reclusione, il padre Domenico (detto l’australiano) e il fratello Rosario a 7 anni. Tuttavia, la condanna più rumorosa è sicuramente quella di 4 anni e 6 mesi inflitta all’imprenditore Maurizio Luraghi che, secondo la sentenza, avrebbe messo a disposizione del clan la sua azienda, la “Lavori stradali Srl”.

I giudici della settima sezione penale del Tribunale di Milano hanno riconosciuto l’imprenditore milanese colluso con le attività criminali della famiglia Barbaro- Papalia. Finalmente la presenza di questo clan ‘ndranghetista radicato profondamente nel territorio lombrado viene riconociuta da una sentenza. Finalmente, inoltre, viene punito un imprenditore che ha chiuso gli occhi e agevolato gli affari della criminalità organizzata.

Maurizio Luraghi attraverso la sua azienda si aggiudicava gli appalti per poi girarli in subappalto alle ditte Edil company, Mo.bar, Fmr scavi e Lmt che facevano diretto riferimento al clan.

Ma, nel nostro paese del rovesciamento, l’avvocato dell’imprenditore ha affermato che il suo cliente è stato condannato “perchè si pretendeva da lui un comportamento eroico, che non si può pretendere da un cittadino se è lo Stato che non riesce a controllare questi fenomeni”. Vorrei che l’avvocato capisse che dal suo cliente si esigeva semplicemente il comportamento di ogni cittadino responsabile. È vero, come dice Don Abbondio che “il coraggio uno non se lo può dare”, ma è altrettanto vero che vi è sostanziale differenza tra codardia e collusione. La prima è una limitazione caratteriale, la seconda è un reato.

Infine, non posso non dedicare almeno un pensiero al mio pubblico più attento: Salvatore, Domenico e Rosario. Ebbene costoro hanno sempre seguito con un’attenzione quasi maniacale il mio lavoro teatrale e io ho ricambiato parlando di loro. Ho raccontato di come Domenico Barbaro avesse cominciato la carriera negli anni Settanta con i sequestri di persona e il traffico di droga e di come Salvatore e Rosario si fossero evoluti rispetto al padre, diventando imprenditori e vincendo appalti nel settore dell’edilizia. Ho raccontato di come avessero una forte influenza a Buccinasco, Corsico e Trezzano sul Naviglio. Ho raccontato che non avevano più bisogno di minacciare gli imprenditori, perchè alcuni si offrivano spontaneamente a loro.

A quanto pare ho raccontato fatti veri, che oggi sono riconosciuti da una sentenza. Queste condanne, inoltre, segnano un precedente molto importante, poiché da qui proseguiranno anche le inchieste Parco sud 1 e 2 in cui sono implicati altri imprenditori e politici locali.

Mi auguro che la magistratura possa portare a compimento tutti i processi e possa assicurare alla giustizia ‘ndranghetisti e associati.

Sono felice che il pubblico che mi ha seguito con più attenzione, Domenico, Salvatore e Rosario, finalmente non sia più impunito. Li consoli il fatto che non cesserò di parlare di loro.