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Santa Mamma

«Santamamma, un libro che doveva essere scritto»: la recensione di Lara Cardella

(Lara Cardella, scrittrice, scrive di Santamamma nel suo blog, qui)

Ci sono libri che vanno al di là delle categorie del “bello” e del “brutto”, io li definisco i “libri che devono essere scritti” e, perciò, letti. “Santamamma” è uno di questi libri. L’autore, Giulio Cavalli, è noto per la sua lotta contro la mafia e, in questa veste, l’ho conosciuto. In questi abiti l’ho intervistato, anni fa, l’ho ammirato e seguito nelle sue instancabili denunce contro ogni malaffare. In questi panni, l’ho ritrovato in tutti i libri che ha scritto e che ho letto, inserendolo nel mio personale album degli “eroi”, gente profondamente onesta e coraggiosa che, in ogni loro lotta, non esitano a metterci faccia, mani, vita tutta. Ma quei vestiti sono subito risultati strettissimi quando mi sono ritrovata a leggere   “Santamamma”: lo stile è certamente il suo, inconfondibile, ma non si trattava di un saggio, era la storia di più vite. La sua, certamente. Abilmente travestita (al punto da chiederti dove arrivi la finzione letteraria), si spalanca attraverso quel dolore, quella domanda che aleggia per tutto il romanzo e che mai viene espressa:”Perché mamma non mi ha voluto? Perché mi ha abbandonato?”.

Una domanda che non appartiene soltanto a chi è stato rifiutato e costretto a crescere in un istituto, ma che può cogliere ognuno di noi in qualsiasi momento della nostra vita: di fronte a un’incomprensione, un diniego, una separazione. Il “buco” di cui Carlo, l’alter ego di Giulio, parla lo accompagna sempre, anche se viene adottato da una famiglia che lo ama, che si prende cura di lui; rimane la ferita dei “non amati”, diventa ricerca di verità, ma anche scontrosità, incapacità ad aprirsi e regalarsi le gioie semplici di una frase gentile, come se temesse di lasciare scoperta una parte di pelle dalla corazza che s’illude lo possa proteggere da nuovi abbandoni. Carlo attraversa la sua vita quasi con incoscienza, lasciando che le cose gli accadano, scegliendo solo per rifiutare: accadrà così che si troverà eroe per caso, simbolo della lotta contro la mafia, in mano ad agenti speculatori. E s’intravede tutta la stanchezza di Giulio, costretto da anni a vivere sotto scorta come Carlo; e finalmente si comprende il suo rifiuto per la retorica dell’eroe, la pesantezza di essere costretto in quei panni di cui parlavo prima: è un attacco, durissimo, alla società, a noi, a chi lo vuole identico a sé stesso e immutabile.

E’ la rivendicazione di un uomo che chiede di essere come vuole, di non assecondare nessuno, libero. E per riprendersi questo suo diritto abbandona lo show osceno di chi gioca con la sua volontà di poter essere sé stesso. Cerca le sue radici, fa i conti con quell’ombra, la mamma che tutto divora, decide di sapere. Un atto di coraggio, in ogni caso. Spogliarsi della sua veste di eroe per tornare ad essere  solo Giulio,per trovarsi e presentarsi al lettore con le proprie debolezze,fragilità, forze insospettate, scavi interiori crudeli innanzitutto verso sé stesso ché Giulio nulla si perdona. Con uno stile spezzato, frammentato, amore per la parola mai banale, Giulio Cavalli offre al pubblico un racconto in cui ogni personaggio è animato da pulsioni vere, chiede di essere letto con attenzione, perché il suo non è un libro che si fa dimenticare.

Ti accosti, allora, con pudore a questa storia, vergognandoti di quelle domande che, inevitabilmente ti si presentano (ma gli è successo davvero?), le cacci perché sai che ha già dato tutto in quel romanzo, che gli deve essere costato più di quanto si possa chiedere a qualunque autore (a cominciare dalla dedica). Ci sono libri che devono essere scritti. E, perciò, devono essere letti. Anche con dolore, ma devono essere letti.

«La densità di ogni parola scava un solco profondo nel cuore di tutti». #Santamamma secondo Monica D’Angelo

(di Monica D’Angelo)

Figurandosi a tratti di uscire dal proprio corpo e vedersi vivere, Carlo Gatti tenta di ricucire gli strappi della sua memoria di bambino adottato. Vuol tappare quel buco nel cuore che lo ha sempre fatto sentire un “appaltato” della vita, ripulirsi di quella placenta che lo imprigiona ancora, nonostante l’amore grande dei genitori. Protagonista a volte tenero a volte sarcastico del proprio dolore, fino quasi a compiacersene per sopravvivergli, si incammina nella ricostruzione della sua identità smembrata, a partire dal ricordo del primo pianto tra le braccia della maestra, primo di una serie di pianti accidiosi e solitari. Inizia così una personale sceneggiatura della sofferenza insieme ad un’ impari battaglia sui luoghi comuni, le ipocrisie, le apparenze di cui ognuno, inevitabilmente, si nutre. E’ la macchina della retorica, la finta comunicazione che stritola il suo mondo interiore. Un universo dal vocabolario ricchissimo, ma che la recita del “fuori” comprime e mortifica.

Carlo, musicista mancato, sceglie di fare il clown in un circo di infimo ordine, provocatoria metafora della vita. Per caso e inconsapevolmente diventa un eroe nazionale. Lontano dai suoi genitori, vive sotto scorta, appiattito dall’angoscia e dalla solitudine. Le luci della ribalta lo infastidiscono e diventano solo un monotono “sguazzare nel brodo degli altri”; tuttavia egli entra in un circuito opprimente che confonde cura e malattia, in un gioco delle parti che sostiene a volte con ironia a volte con vena malinconica e amara. Ma la ricerca delle sue radici, all’origine dell’abbandono, diventa una via di fuga e si trasforma in un riscatto, possibilità, forse, di una rinascita: autoassolversi dalla paura della propria inadeguatezza al cospetto della verità.

La scoperta di avere un fratello, anche lui adottato, gli fa conoscere la gioia di condividere il proprio sangue e l’innocenza della sua condizione, nel tentativo vano di ripulirsi dalle sporcizie del mondo. Con questo romanzo Giulio Cavalli ci fa entrare nella sacralità del suo silenzio e ci regala tutte le sfumature di un’anima inquieta, spigolosa e dolce, aspra e poetica. La densità di ogni parola scava un solco profondo nel cuore di tutti, inchiodandoci a leggerlo e assaporarlo d’un fiato.

(Monica D’Angelo è una scrittrice e socia della bella libreria IoCiSto a Napoli, dove sarò martedì 9 maggio per presentare Santamamma, qui c’è l’evento fb)

«Ma questo suo libro ha il sapore umano della fragilità», lettera su #Santamamma

Perché scrivo? Perché poi capita di incrociare lettori così. Questo è quello che mi ha scritto su Santamamma Anto, che ringrazio con il cuore:

Buongiorno Giulio, ho da qualche giorno finito di leggere il suo libro “Santamamma”. Avrei potuto leggerlo tuttodunfiato, ma sono mamma da 23 mesi e la mia bambina prende e scrive tutte le righe della mia vita, le rare pause e sedute, e il suo libro, mi ha costretta a leggerlo in diversi giorni.Non avevo mai dato voce all’uscirmi dal naso, come lo descrive bene lei. Io, semplicemente, me ne uscivo prorpio dalla testa. Lo sa?!? Lei me lo ha fatto ricordare. E tante altre cose. Ecco, io volevo solo dirle che nel leggerla mi sono “usciti pezzi di cuore dagli occhi” . E la ringrazio. E mi sono sentita minuscola e ingrata quando, verso la fine, parla degli eroismi quotidiani e quelle “mani avvolte nei sacchetti della spesa” mi hanno commossa cme lei non può immaginare. Una cosa piccola, forse banale… ma questo suo libro ha il sapore umano della fragilità. E lei l’ha saputa scrivere in una maniera così ferocemente tenera. E sincera. Mi scusi, ma mi sento proprio di dirle che le voglio bene. E che, in una maniera molto intima, mi sento una piccola parola stampata sul suo Libro. La abbraccio con tutto i miei cuori e le mie dua braccia di mamma. Allegra è il nome di mia figlia, che la vita a me, non bastava fotterla vivendola. Grazie. Anto.

La cognizione del buco: #Santamamma recensito su Gli Stati Generali

Una bella recensione di Silvia Bianchi (che ringrazio):

Santamamma di Giulio Cavalli è un racconto autobiografico di spietata sincerità.
Carlo è nato con un buco: adottato all’età di tre anni, cresce da coccolato figlio unico di una famiglia che s’era messa il cuore in pace sulla possibilità di diventare genitori (…), con il comandamento non scritto di essere grato, senza che fosse chiaro a chi. Nel piccolo paese immaginario di Tarrazza, borgo operaio lungo la via Emilia (sette chilometri e ottocentocinquanta metri dal primo semaforo di Lodi, che per noi era Boston), Carlo viene avviato precocemente allo studio del pianoforte e diventa un disciplinato enfant prodige, vincitore di concorsi e piccola celebrità locale, orgoglio dei suoi genitori adottivi. Ma la musica è per lui un’esperienza estraniante, che vive fuori da sé stesso (ho imparato a uscire scendendomi dal naso per sedermi poco distante a guardarmi), come un po’ tutta la sua vita: per soddisfare le aspettative degli adulti che lo circondano si iscrive al liceo classico, si lascia sedurre dalla sua insegnante di pianoforte, infine si trasferisce a Parma per frequentarvi il Conservatorio

E’ lì, lontano dai genitori, che avvengono le sue prime, timide ribellioni: lascia il pianoforte per il violoncello, a volte salta la scuola per suonare insieme agli amici del suo gruppo blues; finchè, giunto all’ultimo anno di liceo e di Conservatorio, decide di abbandonare gli studi musicali e si fa arrestare per aver dato un pugno a un poliziotto, gettando sua madre nello sconcerto (non è più lui, non so più cosa fare. Ma sarà malato?). L’episodio dell’arresto è un momento di svolta nella vita del protagonista: opponendosi all’arroganza dei poliziotti che si prendono gioco dei suoi pavidi compagni, Carlo per la prima volta dà voce allo scontento che lo abita e al quale non sa trovare un nome, cioè la rabbia per l’ingiustizia fondamentale, il torto radicale che ha subìto, il trauma dell’abbandono; smettendo di essere il figlio ubbidiente di sempre (adesso non faccio più il bravo, adesso basta) denuncia la sua verità esistenziale, il suo sentirsi fuori posto e si appropria, finalmente, della sua vita.

Così Carlo, sostenuto dal suo amico Francesco, rinuncia a una tranquilla sistemazione lavorativa e diventa il clown di un piccolo circo condotto da Tairo e Ana, una coppia di Belgrado che diventa quasi la sua famiglia elettiva. Qui avviene l’equivoco: durante uno spettacolo, Carlo coinvolge inconsapevolmente in una gag don Vito Corleone, boss mafioso latitante seduto tra il pubblico, che viene così riconosciuto e arrestato. Da quel giorno, Carlo deve vivere sotto scorta in un luogo protetto; riceve una medaglia al valore dal Presidente della Repubblica e si trova ben presto imprigionato nel ruolo dell’eroe antimafia, con tanto di agente. Viene invitato a lezioni e convegni, diventa il protagonista di un libro e di un film: vive insomma di nuovo un’esperienza alienante, che lo porta alla depressione (mi svegliavo al mattino con un cane nero che mi scoloriva il mondo). Nella metafora del clown, l’Autore ha trasfigurato la sua esperienza di autore e attore teatrale e nell’episodio della cattura casuale del latitante ha rappresentato il suo impegno civile contro la criminalità organizzata della sua regione; ma questi aspetti così salienti della sua vita pubblica diventano secondari nel dipanarsi della sua vicenda interiore, travasata nella storia del suo personaggio.

Carlo ha toccato il fondo e diventa così inevitabile affrontare, finalmente, il suo buco: una telefonata che evoca la sua famiglia di origine è l’espediente narrativo che induce il protagonista a riflettere sulla sua condizione (dell’essere adottati c’è qualcosa che non sta scritto in nessun trattato di psicologia (…): non sapere di chi sei ti sparge dappertutto. (…) Noi, della nostra razza di bimbi appaltati, (…) nasciamo sporchi e passiamo tutta la vita con lo strofinaccio, (…) tutto il giorno, tutti i giorni, a cercare di candeggiare via un buco). Il suo io, muto e sofferente, si incarna nel racconto nella figura di Giuseppe, il suo fratello di sangue adottato in un’altra famiglia, che da dieci anni si rifiuta di parlare e per questo è stato rinchiuso in una clinica psichiatrica. Carlo viene contattato dal padre adottivo di Giuseppe; ma, prima di incontrarlo, decide di cercare la sua madre naturale.

Fino a quel momento Carlo ha sempre preferito non saperne, adagiandosi in un lutto confortevole e autoassolutorio, finendo per abitare sul marciapiede della mia vita. Ora però il bisogno di colmare il suo buco è diventato troppo grande: così, rintraccia l’indirizzo di lei e lo raggiunge, guidando una jeep in affitto (sbriciolando la diga con cui volevo fermare la mia storia). Ma, anche stavolta, la sua madre naturale è un’assenza (Suonai. Non rispose nessuno) e una delusione da risparmiarsi (lascia perdere. Lascia stare. Se posso darti un consiglio, non ne viene fuori niente di buono da questa storia, gli dice l’impiegata del Comune alla quale ha chiesto informazioni).

Non c’è possibile risarcimento che possa venire da fuori: Carlo deve trovare in sé stesso la forza di guarire. Il primo passo (l’inizio della cura del mio buco) lo ha fatto affrontando il suo passato, vivendo la rabbia verso la madre che lo ha abbandonato e scegliendo, a propria volta, di abbandonarla al suo destino; ora deve imparare a dialogare con il suo vero io, prigioniero del silenzio, personificato dal fratello Giuseppe. Carlo ne incontra prima i genitori – il padre rabbioso, la madre affranta, alter ego dei suoi – e poi va a visitarlo nella clinica in cui è ricoverato.

In un monologo struggente, Carlo racconta al fratello ritrovato la sofferenza per il buco che si porta dietro da sempre (il peccato originale di essere stato lasciato), che lo ha spinto a vivere una vita non sua, per senso di colpa; gli confessa di volergli bene e gli spiega il desiderio di condividere con lui il dolore che li accomuna, di scambiarsi le proprie schegge di vita, di incollarsi l’un l’altro. Giuseppe gli risponde con uno sguardo e all’improvviso tutto per Carlo cambia: uscito dalla stanza di mio fratello mi è tornato il mondo a colori. Decide di dimettersi da eroe, rinunciando alla scorta e al ruolo di simbolo dell’antimafia e torna dal fratello che ricomincia a parlare, rivelandogli un dolore identico al suo: da lì ha inizio la loro ricostruzione.

Il messaggio finale del libro è di pacificazione. Non è colpa nostra, Giuseppe, dice Carlo; e anche: io devo chiedere scusa a un milione di persone. Chissà se Carlo riuscirà a perdonare la madre naturale che lo ha abbandonato, così come ha perdonato quella adottiva che non lo ha saputo capire; di certo, alla fine della storia è consapevole di non essere il solo a convivere con un doloroso buco: ho maturato l’idea che davvero sia importante essere gentili con tutte le persone che incontriamo perché ognuno sta combattendo la sua battaglia personale.

Lo stile di Cavalli, brutale e funambolico, impedisce al lettore di prendere le distanze dalla storia e lo costringe a camminare sul filo con lui, sentendo la vertigine di quella voragine interiore squadernata in ogni pagina del racconto. Per questo, giunti all’ultima riga ci si sente stanchi e sollevati, turbati e insieme rinfrancati: come se, tenuti per mano da lui, ci fossimo avvicinati abbastanza per sbirciare dentro al nostro personale buco e avessimo imparato il sentiero per non caderci dentro

(fonte)

Mafia, antimafia, politica e calcetto: una mia piccola intervista

Mirco Sirignano mi ha intervistato qualche giorno fa per Italianews24. Ecco qui:

Giulio Cavalli, “per brevità chiamato artista”. È un attore, scrittore, regista, giornalista e politico, da anni impegnato soprattutto nel raccontare le mafie al nord. Dopo un suo spettacolo, nel 2009, gli viene assegnata la scorta. Ma questa per lui è solo una delle “caratteristiche meno interessanti poiché non è un pregio, non è un vizio o un difetto ma solo una conseguenza”. Ha pubblicato di recente il suo ultimo romanzo, Santamamma (Fandango Libri).

Giulio Cavalli, scrittore, attore, regista, politico impegnato soprattutto contro le mafie. Ne parla nei tuoi libri, nei suoi spettacoli. A che punto è il suo racconto?

Se parliamo di risultati, io credo che abbiamo fatto passi da gigante. Senza fare filosofia, vivo in un territorio in cui dicevano che la mafia non esistesse e finisco sotto scorta perché minacciato dalla mafia (quindi per una cosa che non c’è). Poi però, in quello stesso territorio (Lombardia, nda), mi capita spessissimo di andare nelle scuole, che ritengono l’educazione alla legalità, la conoscenza dei temi mafiosi e antimafiosi, davvero indispensabile. E quindi secondo me uno scatto c’è stato. L’aspetto triste della vicenda è che, ancora una volta, lo scatto è stato solo sociale. Tutto ciò che politicamente è stato fatto, nasce sulla spinta di un movimento sociale che ha obbligato la politica a prendere, o simulare di prendere, posizione. E questo è un pessimo segnale.

Ecco, storicamente al nord le mafie non sono percepite come un problema serio e reale. E’ cambiato il vento?

Sicuramente un’evoluzione c’è stata. Il problema è che ancora oggi il tema mafia non si riesce a declinarlo. Mi sembra incredibile che la politica non capisca che parlare di diritti significa parlare anche di mafie. E parlare di crescita economica, di sviluppo del mondo del lavoro, significa anche parlare di mafie. Invece molto spesso il tema è chiuso in un angolo. È solo una delle bandierine che tutti i movimenti politici vogliono avere.

Qual è il ruolo che gioca il teatro nel racconto delle mafie?

La politica prende decisioni quando semplicemente è troppo impopolare far finta di niente. E quindi il mio ruolo è quello di rendere pop (nel senso pulito del termine) l’indignazione e la pretesa di un’azione politica. Credo soprattutto nel mezzo teatrale, perché ci permette di avere un’attenzione di ascolto che molti altri mezzi non hanno. Oggi il teatro è lo spazio dell’approfondimento.

Già da qualche anno ha intrapreso un percorso politico. Per Lei è stato un passaggio naturale, quello dell’impegno politico, oppure è stato sofferto? Perché magari chi come Lei proviene dal mondo della cultura, sui due binari, quello della politica e quello (appunto) della cultura, si viaggia a velocità diverse.

Il mio è un lavoro molto politico. Perché alla fine, sia che avvenga su un palcoscenico, con un romanzo o con un articolo giornalistico, le mie attività auspicano sempre un cambiamento generale. E le trasformazioni sociali sono politiche. Dal punto di vista dell’esperienza istituzionale, credo di avere fatto molta più politica con la mia professione che da consigliere regionale. Ma questo perché sono convito che ci siano dei meccanismi di scelta della classe dirigente che per me non sono assolutamente potabili. Richiedono compromessi che a me risultano molto difficili. Ma l’impegno poi politico lo ritengo assolutamente indispensabile. Anche la vicinanza a Pippo (Civati, nda) e a Possibile, penso che sia naturale.

La mafia e la corruzione, in un connubio ormai indistinguibile, generano soprattutto ingiustizie e ineguaglianze. Ecco, crede che la sinistra di oggi stia facendo abbastanza?

Mi dispiace, ma sono sconvolto dalla mancanza di responsabilità da parte della sinistra. Prima di tutto perché una parte del popolo è assolutamente analfabeta del tema. Ecco, l’alfabetizzazione di fenomeni così gravi, dovrebbe essere un obbligo per i partiti. Siamo passati dall’avere partiti con una funzione anche pedagogica (Pio La Torre era quello che raccontava la mafia a contadini, questo era il PCI), a sperare che gli stessi partiti “fingano” di imparare. C’è stato un periodo storico in cui la sinistra sul tema delle mafie ha dimostrato una responsabilità superiore. Oggi invece noto un totale distacco.

Quello che sembra mancare è la credibilità. Come la sinistra (o comunque, in generale, chi governa) può essere credibile se poi quando si deve votare su particolari casi (tipo Minzolini, l’ultimo in ordine cronologico) si tirano i remi in barca? Poi le politiche nascono viziate dal pregiudizio della gente.

Esattamente. Tieni conto che essere antimafioso significa essere contro il reato di mafia. Pippo Fava lo raccontava benissimo. Il reato di mafia è sostanzialmente un grumo di egoismo che insegue degli interessi particolari, piuttosto che gli interessi generali. E per essere antimafioso bisogna essere sostanzialmente solidali. Bisogna essere disponibili anche a perdere diritti particolari, se questo permette di raggiungere una crescita dei diritti di tutti. La credibilità si costruisce così.

Manca il senso della collettività.

Certo, la cosa che mi preoccupa non è tanto il federalismo salviniano, che è pittoresco e pericolosissimo, per carità. Però mi sembra assolutamente minoritario. Quello che mi preoccupa è quel federalismo per cui anche molte persone di sinistra sono convinte di dover curare la propria sopravvivenza, di doversi adoperare per le persone più vicine a loro, piuttosto che avere una visione generale.

Mi ha fornito un assist su Salvini. Perché è come se si fosse ribaltata anche l’assunzione delle responsabilità. Parliamo di un partito che negli ultimi venti anni ha governato e tanto. Però quando scende giù a Napoli e la città protesta, Salvini rinfaccia alla gente di protestare solo contro di lui, e non contro la camorra. Quando poi è soprattutto la politica a non ritenere prioritario il contrasto alla criminalità organizzata, che è un tema sistematicamente fuori dal dibattito.

Questo perché dietro il perbenismo, molto spesso, si nascondono le proprie responsabilità. Negli ultimi anni si è abbastanza sbriciolato anche il concetto di lotta. Una parola nobilissima. La storia del movimento antimafia in Italia è una storia di lotta, di scioperi, di recriminazioni, a volte alzando la voce per affermare i propri diritti. Tutte quelle modalità che hanno spinto il movimento antimafia sono improvvisamente divenute fuori moda, se non addirittura osteggiate, anche dalla sinistra. I benpensanti ci dicono che dobbiamo essere collaborativi.

Però c’è anche da dire che negli ultimi anni il movimento antimafioso non gode proprio di ottima salute. C’è stato, forse, anche un po’ di autolesionismo? Mi viene in mente, per esempio, il caso di Maniaci. Crede ci sia, ormai, una mancanza di fiducia anche verso il movimento antimafioso?

È colpa del movimento antimafia o è colpa di un Paese che, a un certo punto, ha pensato che più lunga era la scorta e più credibile era l’antimafioso? Perché Pino Maniaci è diventato, anche a livello internazionale, il profeta unico dell’informazione antimafiosa? Di chi sono le responsabilità?

Certo è un’attitudine tutta italiana quella di delegare ai singoli le massime responsabilità. È successo più o meno lo stesso, almeno dal punto di vista mediatico, con Raffaele Cantone, divenuto ultimo baluardo per il contrasto della corruzione e del malaffare.

Personalmente vorrei un paese in cui Raffaele Cantone (in quanto “Raffaele Cantone”) non esista, ma che tutto il grumo che gli è stato caricato sulle spalle, sia condiviso con i lavoratori pubblici, impiegati bancari, tassisti, eccetera. Da questo punto di vista, a mio avviso l’antimafia ha delle grosse responsabilità. Perché a un certo punto è diventata molto televisiva, ne ha seguito i canoni della comunicazione. Si è molto “mondadorizzata”.

Per concludere, Lei di solito con chi gioca a calcetto?

(Ride)

Come ha interpretato la metafora di Poletti?

Siamo in un paese in cui alle domande “chi sei?” e “che cosa sai fare?” si è sostituita la domanda “chi ti manda?”. Ma questo ben prima di Poletti. Il ministro non è il problema, ma l’effetto. Ogni tanto qualcuno mi accusa di essere troppo vicino alla politica. E la cosa che mi fa sorridere è che sono gli stessi che poi accusano Pippo Civati di essere una percentuale infinitesima nel panorama politico. Quindi diciamo che, da amico di Pippo, da tifoso del Torino, da persona di sinistra, probabilmente ho sviluppato una affezione per l’essere “minoritario”. Per cui ho giocato a calcetto sempre nel campetto sbagliato.

Restando sempre nella metafora, quale partita sta giocando adesso il nostro Paese? Quali sono le due squadre in campo?

Secondo me in campo c’è un pezzo di politica, che nonostante i sondaggi, sta cercando di giocare con la formazione della coerenza, augurandosi che torni prepotentemente di moda. Dalla parte opposta invece centrodestra e centrosinistra giocano insieme (al massimo si dividono le fasce) con il catenaccio, per l’autopreservazione. L’arbitro di questa partita è la Costituzione. E direi che sta funzionando anche abbastanza bene, nel senso che il più grande oppositore politico dei governi degli ultimi dieci anni è stata la Carta.

Forse per questo hanno cercato di “influenzare” l’arbitro.

Che Renzi, alla Moggi, abbia cercato di chiudere nello spogliatoio la Costituzione, mi ha preoccupato fin da subito. Ma è andata bene.