Siamo alle battute conclusive di un processo kafkiano di cui abbiamo sentito pochissimo parlare. Loris Mazzetti ne aveva scritto così:
Vi racconto, per i tg che l’hanno ignorata, una piccola storia, per chi lotta contro la mafia (Movimento Agende rosse, Antimafia Duemila, I nostri cento passi), una grande storia che ha come movente una multa di 106 euro ma in realtà riguarda la Trattativatra Stato e mafia.
È la vicenda di Saverio Masi maresciallo capo dell’Arma dei carabinieri rimosso dal nucleo operativo di Palermo, ora caposcorta di Nino Di Matteo, il pm, più volte condannato a morte da Riina, che coordina l’accusa al processo dove, per la prima volta, sul banco degli imputati siedono i capi della mafia insieme a politici e uomini delle istituzioni. Nel processo Masi è testimone.
I fatti. Nel 2001, dopo l’arresto di Benedetto Spera (uomo di fiducia di Provenzano), Masi individuò un contatore dell’Enelriferibile a chi gestiva la latitanza del capo di Cosa nostra. Il maresciallo fece rapporto, che fu totalmente ignorato. Nel 2010, come teste al processo Mori, denunciò un altro fatto: durante una perquisizione nella casa di Ciancimino (2005), un capitano dei carabinieri trovò il papello di Totò Riina con le 12 richieste della mafia allo Stato. Il papello non fu inserito nel rapporto perché i superiori dissero che era già in loro possesso. Ufficialmente risulta che lo scritto di Riina fu consegnato ai magistrati dal figlio di Ciancimino nel 2009. Al maresciallo Masi un superiore, regolarmente denunciato, consigliò di smettere di indagare su Provenzano, in cambio avrebbero trovato un posto di lavoro per la sorella disoccupata. Infine, a Masi, che per ben due volte si trovò sulle tracce di Messina Denaro, fu impedito nuovamente di indagare.
Il maresciallo capo non è un eroe, è un servitore dello Stato, che crede nell’onorabilità della divisa, nella Giustizia e soprattutto sa fare bene il proprio dovere, per aver chiesto l’annullamento di una multa di 106 euro presa con un’auto privata usata durante un’indagine “i capi sapevano che i mafiosi conoscevano le nostre macchine civetta”, rischia la radiazione dall’Arma. Il superiore che l’ha denunciato ha dichiarato che quel giorno lui non era in servizio. Nel processo di appello Masi è stato nuovamente condannato ma è caduta l’accusa di “falso ideologico”, i giudici hanno confermato che lui era in servizio.
Il 30 ottobre vi sarà la sentenza di Cassazione, un’eventuale condanna avrebbe il sapore, per uno che ha dedicato la vita alla lotta alla mafia, non una condanna a sei mesi ma alla morte civile: ricorderebbe più il Cile di Pinochet che l’Italia di Falcone e Borsellino.
Già l’8 luglio del 2013 Lorenzo Baldo (valente vicedirettore di Antimafiaduemila) aveva colto nel segno:
“I conducenti dei veicoli di cui al comma 1, nell’espletamento di servizi urgenti di istituto, qualora usino congiuntamente il dispositivo acustico supplementare di allarme e quello di segnalazione visiva a luce lampeggiante blu, non sono tenuti a osservare gli obblighi, i divieti e le limitazioni relativi alla circolazione, le prescrizioni della segnaletica stradale e le norme di comportamento in genere, ad eccezione delle segnalazioni degli agenti del traffico e nel rispetto comunque delle regole di comune prudenza e diligenza”. Basta rileggere il comma 2 dell’art. 177 del codice stradale relativo alla “circolazione degli autoveicoli e dei motoveicoli adibiti a servizi di polizia o antincendio, di protezione civile e delle autoambulanze” per farsi un’idea del processo paradossale approdato oggi in Corte di Appello a carico del maresciallo dei carabinieri Saverio Masi (presidente Daniele Marraffa, giudici a latere: Salvatore Barresi e Gaetano La Barbera). Come è noto nel 2011 il M.llo Masi è stato condannato (con rito abbreviato) a 8 mesi per falso materiale ed ideologico e per tentata truffa. Secondo l’accusa avrebbe falsificato un atto del proprio ufficio per far annullare una sanzione del codice della strada di 106 euro, riportata durante un servizio svolto con una vettura privata, nel 2008, quando era in forza al Nucleo Investigativo del Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo. “Usavamo le macchine di amici perché i mafiosi conoscevano le nostre auto di servizio” aveva raccontato Masi due anni fa durante la sua deposizione al processo Mori-Obinu.
Quando la sezione della Polizia Stradale di Palermo ha chiesto la conferma della versione riferita dal maresciallo, i superiori lo hanno deferito all’autorità giudiziaria asserendo che nessun ufficiale lo aveva mai autorizzato a far uso di una vettura privata per svolgere il servizio di polizia giudiziaria di quel giorno e che nessuna annotazione dell’autorizzazione era riportata sul relativo memoriale di servizio né sul foglio di viaggio. Gli ufficiali hanno inoltre affermato che l’utilizzo di mezzi privati sarebbe di regola escluso per i servizi di polizia giudiziaria e che, comunque, andrebbe specificamente autorizzato dai superiori nonché regolarmente annotato nei memoriali di servizio e nei fogli di viaggio. Un vero e proprio collage di falsità. Ma andiamo per ordine. L’articolo 177, comma 2, poc’anzi citato, parla chiaro: solo le auto che utilizzano lampeggianti blu e sirene sono esenti da contravvenzioni durante l’espletamento di servizi. Masi invece operava con auto privata senza alcun dispositivo acustico o visivo. Non ha quindi senso citare a mo’ di accusa il fatto che il sottoufficiale avesse richiesto l’annullamento della multa visto che utilizzava un’auto privata. Allo stesso modo la contestazione sollevata dai vertici dei carabinieri relativa alla rarissima concessione dell’utilizzo di auto private per l’espletamento di servizi di indagine viene smentita dagli stessi appartenenti alle forze dell’ordine.
La denuncia del Coisp
“Se non usassero le auto private, i computer privati e la cancelleria privata – ha scritto ieri in una nota Franco Maccari, segretario generale del Coisp, Sindacato Indipendente di Polizia –, se non usassero i propri soldi per rifornire i mezzi di carburante, per fronteggiare le più banali spese, per dare il massimo aiuto a chi viene soccorso e persino, a volte, per dare assistenza a chi viene arrestato, i Rappresentanti delle Forze dell’Ordine non potrebbero mai e poi mai garantire il servizio eccellente su cui gli italiani possono contare nonostante tutto. Nonostante a livello istituzionale non si faccia praticamente alcunché per fornire gli strumenti adeguati ai più fedeli Servitori dello Stato. Nonostante che, se serve a ‘scopi superiori e diversi’, quei fedeli Servitori sono i primi ad essere gettati in pasto a questa o a quella ‘causa’. La gente lo sa bene. Ed a chi non ci ha ancora riflettuto lo diciamo noi”. Il comunicato, pubblicato alla vigilia del processo d’appello al M.llo Masi, restituisce la verità dei fatti. “E’ fin troppo ovvio – ha specificato ulteriormente Maccari – che nessun superiore gerarchico potrà mai impartire l’ordine di utilizzare i mezzi privati dei sottoposti. E’ altrettanto ovvio che se e quando ciò accade, perché è inevitabile che accade, non si troverà mai scritto da qualche parte. Ma è altrettanto certo, e tutti lo devono sapere con grande chiarezza, che quando il servizio lo richiede, i Tutori dell’Ordine non si fermano di fronte a nulla, anche se c’è da rimetterci. E di questo gli italiani hanno prova ogni giorno. Figurarsi se le esigenze di un’indagine delicata e complessa quanto può essere quella contro la criminalità organizzata possono sottostare a questa o a quella problematica del parco auto. Contestare a qualcuno di non aver lavorato è una cosa, ma contestargli di aver usato un’auto privata senza autorizzazione scritta, ha dello sconcertante”. Dello stesso avviso gli avvocati Giorgio Carta e Francesco Desideri i quali, nella stessa nota, hanno spiegato che “da sempre, l’utilizzo di vetture private per servizio non è preceduto da alcuna autorizzazione, né viene annotato per iscritto, specie in quei reparti particolarmente esposti nella lotta alla criminalità organizzata”. In un altro Paese, di fronte a simili menzogne, ci si interrogherebbe sui reali motivi per i quali si assiste ad un effettivo accanimento nei confronti di un sottoufficiale dei carabinieri. Ma non in Italia. Forse non si vuole perdonare a Saverio Masi la “colpa” di aver alzato un velo su gravissime omissioni di alcuni suoi superiori responsabili della mancata cattura di Provenzano o di Messina Denaro? Oppure si vuole fare “azione preventiva” di discredito nei confronti di un importante teste al processo Mori e al processo sulla trattativa Stato-mafia? Il M.llo Masi è di fatto il caposcorta del dott. Di Matteo, pm di punta di entrambi i processi e già pesantemente minacciato, si vuole forse colpire ulteriormente anche lui? Certo è che un coacervo di apparati istituzionali ed extra-istituzionali sta facendo di tutto per ostacolare, se non addirittura bloccare definitivamente, tutti coloro che stanno cercando di fare luce sulla trattativa Stato-mafia e sul biennio stragista ‘92/’93.
Un processo kafkiano
In aula oggi si sono visti alcuni poliziotti del Coisp, qualche carabiniere e un esponente del Co.Ba.r. (organo di base di rappresentanza del personale militare), tra il pubblico un’insegnante in pensione venuta anche lei a manifestare la propria solidarietà nei confronti di Saverio Masi. L’avv. Carta ha chiesto alla Corte di acquisire nuovi verbali di interrogatorio di testimoni appartenenti all’Arma che confermerebbero la falsità delle dichiarazioni rese precedentemente dai superiori di Masi, allo stesso modo è stato chiesto che i testi possano essere interrogati in aula. “Il processo si basa su una bugia colossale!”, ha ribadito il legale di Masi dopo aver sottolineato le incongruenze della sentenza di I° grado frutto delle dichiarazioni dei superiori del maresciallo. L’avv. Carta ha ricordato inoltre le richieste di acquisizione documentale rivolte ai vertici dei carabinieri, puntualmente inevase. Dal canto suo il procuratore generale, Salvatore Messina, si è opposto nettamente alle richieste della difesa bollandole come “intempestive”. Dopo una lunga camera di consiglio la Corte è rientrata rigettando tutte le richieste del collegio difensivo ritenendole “tardive” e prive di una “assoluta necessità”. A quel punto il M.llo Masi ha rinunciato alle dichiarazioni spontanee limitandosi a chiedere che venisse accettata l’acquisizione della copia del suo passaporto e di una relazione di servizio a dimostrazione della mancata contraffazione della nota di servizio. Di fatto vicino al timbro recante la dicitura del nominativo del suo superiore lo stesso Masi aveva aggiunto la scritta A.P.S. (assente per servizio) apportando una sua sigla dopo aver barrato il timbro. La richiesta è stata immediatamente respinta. Per il procuratore generale Messina il M.llo Masi avrebbe quindi compiuto i reati ascrittogli per non pagare la multa di 106 euro (!). Nella sua minuziosa arringa l’avv. Carta ha ribadito l’inconsistenza delle accuse sottolineando che a fronte di tanti anni di spese, ai fini investigativi, anticipate dal M.llo Masi – e mai rimborsate dall’Arma – era totalmente assurdo focalizzare l’accusa su quella multa. “Il M.llo Masi non rischia la galera – ha sottolineato il legale – rischia la conferma della condanna che una volta diventata definitiva provoca la destituzione dall’Arma. Un danno enorme per lui, la sua famiglia e per lo Stato”. Ma quello Stato-mafia che giorno dopo giorno si appalesa in tutte le sue forme non intende minimamente processare se stesso. Questi ennesimi colpi di coda dimostrano la reale consistenza delle inchieste che a tutti gli effetti vanno a toccare i fili dell’alta tensione. “Il M.llo Masi – ha concluso l’avv. Carta – è un galantuomo che mi onoro di difendere, chiedo quindi l’assoluzione perché il fatto non sussiste”. La prossima udienza è stata fissata per martedì 8 ottobre Al di là di come andrà il processo e delle ripercussioni a catena che provocherà, resta la considerazione che anche il tempo è “galantuomo” e saprà restituire dignità e onore a chi ha avuto il coraggio di dire la verità.
L’eventuale condanna al maresciallo Masi sarebbe una macchia al vivere civile. E il nostro silenzio sarebbe un’onta.