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Il dramma di Pasquale Francavilla, moribondo in attesa di operazione sbattuto e morto in prigione in poche ore

A Pasquale Francavilla mancano dieci mesi di pena per scontare la sua condanna definitiva inflittagli nel processo “Apocalisse”. Ma la sentenza è stata peggiore, come accade spesso nelle carceri italiane, e alla fine è morto nel carcere di Cosenza. Da alcune settimane le sue condizioni di salute erano peggiorate e il quadro clinico era stato giudicato incompatibile con il regime carcerario dai sanitari che lo avevano in cura ma il magistrato di sorveglianza non era dello stesso avviso e così appena dimesso dall’ospedale l’ha rispedito in cella.

Pasquale Francavilla soffriva di una grave patologia vascolare che fino a quattro giorni prima della morte l’aveva costretto sul letto dell’ospedale “Sergio Cosmai” di Cosenza: il detenuto aveva riferito ai suoi familiari che una volta dimesso sarebbe stato trasferito in un altro reparto per essere sottoposto a un intervento chirurgico ma una volta protocollate le dimissioni (con il suggerimento di un altro ricovero in ospedale per le cure del caso) per lui si sono aperte ancora una volta le porte del carcere: «Pasquale – ha spiegato il suo avvocato Mario Scarpelli – è stato ricoverato d’urgenza in ospedale, dieci giorni fa, per la presenza di alcuni trombi. Si trovava nel reparto di terapia intensiva. Cinque giorni fa ho avuto modo di sentirlo tramite video chiamata e mi aveva annunciato l’imminente trasferimento in un altro reparto. L’ho visto sofferente, mi ha detto che lo avrebbero dimesso dall’intensiva e ricoverato in un reparto. Tra un mese avrebbe dovuto sottoporsi ad un altro delicato intervento, ma è tornato in carcere ed è morto perché gli è sopraggiunto un trombo alla gamba».

«La mia collaboratrice – ricorda ancora l’avvocato Scarpelli – è andata subito dal magistrato per capire il motivo di quella disposizione, e in tutta risposta la giudice ha detto che non aveva ancora la cartella clinica». Un fatto, secondo l’avvocato, singolare. «Mi chiedo come sia possibile disporre la carcerazione quando ancora non si ha contezza della situazione clinica! Anche se c’era stata una lettera di dimissioni firmata dal medico dell’ospedale, bisogna prima valutare in base alla cartella», chiosa l’avvocato. Ancora più incredibile è il fatto che, come racconta sempre l’avvocato, «anche il direttore dell’istituto penitenziario è rimasto sorpreso quando inspiegabilmente il magistrato di sorveglianza ha disposto il trasferimento del paziente in carcere». E anche il medico del Sergio Cosmai avrebbe «informato il direttore dell’istituto penitenziario dell’impossibilità di trattenere il paziente in cella e della necessità di lasciarlo in ospedale per via della terapia farmacologica alla quale Francavilla avrebbe dovuto sottoporsi». L’avvocato Scarpelli aveva presentato immediatamente istanza per incompatibilità con il regime carcerario, a distanza di 24 ore però sopraggiunge il decesso. «I medici che lo avevano avuto in cura – aggiunge – avevano confessato ai familiari della vittima la presenza di solo il 5% di possibilità di sopravvivenza». Oggi sarà effettuato l’esame autoptico sul corpo di Francavilla – alla presenza del medico di parte, il dottor Arcangelo Fonti – in attesa di nuovi sviluppi delle indagini avviate dalla Procura di Cosenza che ha aperto un’inchiesta sulla morte del detenuto.

L’avvocato Emilio Enzo Quintieri (già consigliere nazionale dei Radicali Italiani, impegnato in Calabria nell’attività di promozione e tutela dei diritti delle persone detenute o sottoposte a misure restrittive della libertà personale) ha raccontato che nei giorni successivi «tutta la popolazione detenuta sta facendo una battitura (i detenuti stanno dando vita a una protesta battendo forte contro le celle e provocando rumori che si sentono distintamente anche a molti metri di distanza, ndr) contro il Servizio Sanitario dell’Istituto ritenuto responsabile di non aver fornito al loro compagno deceduto le cure necessarie» e ha promesso di segnalare la questione al Collegio del Garante Nazionale dei Diritti delle persone private della libertà personale chiedendo una visita ispettiva presso la Casa Circondariale di Cosenza per gli opportuni accertamenti, oltre a un’interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia.

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Il dramma di Domenico Forgione: sbattuto 7 mesi in cella per una omonimia…

Domenico Forgione ha 47 anni e vive a Sant’Eufemia d’Aspromonte, in provincia di Reggio Calabria, un paesino di una manciata di migliaia di abitanti in cui si conoscono praticamente tutti. Laureato in Scienze Politiche con un dottorato di ricerca in Storia dell’Europa Mediterranea ha insegnato per molti anni all’università di Messina. Era consigliere comunale e il 25 febbraio 2020 finì in carcere con il sindaco Domenico Creazzo (accusato di voto di scambio), il vicesindaco Cosimo Idà (accusato di essere capo promotore ed organizzatore di una fazione mafiosa all’interno del locale di Sant’Eufemia d’Aspromonte), il presidente del consiglio comunale Angelo Alati. Gli arresti si inserivano nella più ampia inchiesta Eyphemos (a cui ne seguirà anche una seconda) ordinata dalla Dda di Reggio Calabria che ha portato a un totale di ben 76 imputati.

Con il tempo però le basi dell’inchiesta hanno cominciato a sfaldarsi: ad aprile dell’anno scorso il presidente del consiglio comunale Alati è stato rimesso in libertà dopo una sentenza di “inconsistenza indiziaria” del Tribunale del riesame di Reggio Calabria. A novembre è stata la volta di Cosimo Idà: i suoi avvocati, dopo aver richiesto diverse perizie, sono riusciti a provare che “u diavulu” di cui si parla nelle intercettazioni, non è lui. Il nome associato al soprannome in questione, che ai magistrati e agli investigatori era distrattamente sfuggito, non è il suo. «Possiamo dire che il nostro cliente è stato scagionato, sebbene avremo ogni certezza tra qualche giorno con la chiusura dell’indagine», avevano detto gli avvocati di Idà lo scorso novembre. Ulteriore beffa: Idà risulta tutt’oggi nella lista degli imputati.

A casa di Domenico Forgione le forze dell’ordine arrivano alle 3 di notte. Gli agenti gli chiedono di seguirli in Questura, lui è convinto che sia qualcosa di risolvibile nel giro di poche ore e avvisa sua madre che sarebbe stato di ritorno da lì a poco. Non andò esattamente così: il capo di imputazione è gravissimo. In alcune intercettazioni tra mafiosi ad un certo punto uno saluta il suo interlocutore con un “ciao Dominic” e “Dominic” è anche il soprannome di Forgione. Gli inquirenti non hanno dubbi. Inizia l’odissea. Due giorni dopo Forgione si ritrova di fronte al Gip, respinge tutte le accuse e fa notare la sua fedina penale assolutamente pulita e la sua vita specchiata, lui scrittore di saggi, studioso e apprezzato da tutti. Resta in carcere. Con il suo avvocato preparano una perizia fonica di parte da consegnare al Tribunale del Riesame, lui è convintissimo dell’evidenza di una voce completamente diversa dalla sua. La pratica viene valutata solo l’11 aprile ma i giudici respingono la perizia affermando che la qualità dell’audio non è buona. Capito? La qualità dell’audio è abbastanza “buona” per un arresto ma non è abbastanza “buona” per dimostrare la propria innocenza.

L’avvocato di Forgione non si arrende, chiede che sia un perito della Procura a fare tutti gli accertamenti che ritiene opportuni. Nel frattempo Forgione viene trasferito nel carcere di Santa Maria Capua Venere, ammanettato mentre si reca in autogrill come un pericoloso criminale. Forgione rimane anche sconvolto per le situazioni in cui si ritrovano le carceri, racconta di avere visto acqua marrone scendere dalle docce, di avere avuto problemi alla pelle perfino mesi dopo la sua scarcerazione.

In cella insegna l’italiano a un arrestato nella sua stessa operazione. La scarcerazione avviene il 16 settembre, dopo 7 mesi: non è lui quell’uomo intercettato, non è sua quella voce. 7 mesi di carcere da mafioso per un innocente sulla base di un’omonimia detta veloce durante un saluto. Ora Forgione è libero, innocente ma la sua vita è cambiata: ha deciso di dedicarsi ai casi di malagiustizia con l’associazione “Nessuno tocchi Caino” e intende usare la sua voce per denunciare un sistema che in un secondo può stravolgerti la vita. È l’ennesimo caso, ancora. Dice di sentirsi tradito dallo Stato ma in fondo con la sua storia siamo stati traditi tutti, anche noi.

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Sbattuto in carcere per la macchina del fango grillino-leghista, Uggetti assolto dopo 5 anni

Mi sono detto che forse il fatto di essere lodigiano avrebbe potuto condizionare il mio ruolo da giornalista. Anzi, a pensarci bene, ho anche l’onta di essere cresciuto e di avere passato parecchi anni della mia vita fianco a fianco con Simone Uggetti, l’ex sindaco Pd di Lodi che fino a 48 ore fa era uno dei criminali, bocconi sempre ghiotti, da usare come clava contro gli avversari politici e ora è improvvisamente santo. «Non mi sento per niente riabilitato, non ho nessun senso di colpa perché non ho mai fatto nulla di male e oggi sono altri a dover riflettere sui propri errori» mi ha detto ieri al telefono senza nemmeno avere quella naturale voglia di rivalsa che sarebbe perfino una debolezza perdonabile. Poi mi sono detto che forse proprio perché sono “dentro” a questa vicenda questo pezzo sarebbe stato ancora più leale, anche perché ho passato anni a leggere pessimi editoriali di esimi colleghi e direttori che hanno raccontato l’arresto di Uggetti più per confermare se stessi che per analizzare i fatti.

Uggetti finisce in carcere a maggio del 2016. «Quando sono arrivati gli uomini della Guardia di Finanza ho sentito che parlavano di custodia cautelare e ho visto nero. Non avevo minimamente idea per cosa mi stessero arrestando», racconta. L’arresto è perfetto per le telecamere e per i taccuini: prelevato in casa lo hanno portato nel piazzale della Polizia di Stato sfilando davanti a 30/40 poliziotti, poi viene portato in Comune in gran parata nella piazza principale della città mentre si svolgeva il mercato settimanale e infine tradotto nel carcere di San Vittore. L’accusa? Turbativa d’asta. E qui qualcuno si immagina un ricchissimo appalto con chissà quali oscuri interessi: si parla della gestione delle piscine comunali per un valore di 5mila euro. Avete capito bene: 5mila euro. L’inchiesta era partita dalla denuncia di una dipendente comunale, Caterina Uggè, tra le altre cose sorella della presidente di una società sportiva che fino a quel momento era sempre rimasta fuori dalla gestione delle piscine lodigiane.

Secondo la tesi dell’accusa il sindaco di Lodi avrebbe brigato un bando ad hoc per favorire la società a maggioranza pubblica Sporting Lodi per permetterle di compensare le perdite che aveva nella gestione di un’altra piscina. Non c’è nemmeno un centesimo promesso, non ci sono privati pronti ad arricchirsi, niente di niente. C’è la scelta del Comune di affidare la gestione di una piscina comunale a una società di cui il Comune possiede la maggioranza. Un osservatore allora si potrebbe chiedere: perché il carcere? Per il gip di Lodi, Uggetti è «soggetto autoritario che riesce a imporsi su coloro che gli ruotano intorno, ponendoli in soggezione, il che rende oltremodo realistica la capacità di questi di subornare e intimidire i testimoni». Gli indagati «con assoluta spregiudicatezza portano avanti con protervia i loro fini, ma anche attività volte a distruggere le tracce del loro accordo […] manifestando apertamente il fastidio derivante da chi denuncia a gran voce le loro condotte nefaste e contrarie alla legge».

Uggetti avrebbe personalità «negativa e abietta» porta a ritenere «con decisa verosimiglianza» che gli imputati «abbiano potuto sistematicamente gestire la cosa pubblica con modalità illecite, commettendo reati contro la pubblica amministrazione». Racconta Uggetti che durante l’interrogatorio con la Gip lei parla di un appalto da 100mila euro. Lui non capisce, chiede dove abbia letto quella cifra. «Sul giornale locale», risponde lei. In carcere finisce anche un avvocato, Cristiano Marini, che ha compiuto il terribile reato di essere stato generoso: Uggetti si era rivolto a lui per un consulto gratuito, per non spendere soldi pubblici. Quando Marini viene portato in carcere la moglie è incinta al sesto mese.

Il ministro Di Maio si fionda a Lodi per denunciare una città ostaggio del malaffare. Anche la Lega decide di manifestare ma Salvini annusando l’aria all’ultimo momento spedisce al suo posto Calderoli. È il tempo del fango: editoriali, servizi, gogna sui social. Uggetti in primo grado viene condannato a 10 mesi di reclusione e 300 euro di multa. Perfino la condanna sembrava risibile per una vicenda che è stata sulle prime pagine di certi quotidiani per giorni. Ovviamente per Uggetti la carriera politica è finita e intanto a Lodi arriva un commissario e poi alle successive elezioni vince il centrodestra. «Quell’arresto ha cambiato il corso della mia vita e ha stravolto il percorso istituzionale di un’intera comunità». Pochi scrivono che persino nella sentenza della condanna i giudici riconoscono che il sindaco ha agito «per il bene pubblico».

Ora è arrivata l’assoluzione ma come capita sempre ormai chi poteva cogliere l’occasione di quell’arresto ormai ha già raccolto i frutti mediatici e politici. Assoluzione perché “il fatto non sussiste”, assolti anche gli altri coimputati. Eppure al di là dell’assoluzione che questa inchiesta fosse mostruosa era visibile fin dall’inizio. «Io non devo riabilitarmi in niente», dice Uggetti. Altri probabilmente invece sì ma non accadrà come sempre.

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