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sempre

Chi voto

Me lo chiedete in tanti. E poiché amo le preferenze le uso sempre con attenzione e parsimonia. Sulla mia scheda ci saranno i nomi di Civati, Druetti e Rinaldi. Due donne e un uomo. E il simbolo di Europa Verde. Perché i miei figli il venerdì scendono in manifestazione e mi chiedono di preparagli un mondo migliore con gli strumenti che ho a disposizione.

A voi auguro un buon voto antifascista. E di lasciare perdere la manfrina del voto utile. Ma davvero.

È sempre il solito razzismo, anche senza pallone

Kalidou Koulibaly è un difensore francese naturalizzato senegalese che gioca nel Napoli, in Serie A. Nell’ossessiva mercificazione della bontà rarefatta in salsa natalizia la Lega Calcio ha pensato di proporre anche da noi (in Inghilterra accade da anni) una giornata di campionato in versione natalizia per “portare le famiglie allo stadio” (hanno detto i responsabili della Figc). Non è andata benissimo, no.

Nella partita Inter-Napoli Koulibaly è stato tra i migliori in campo, come spesso succede. È stato anche bersagliato da buuu, ululati e versi scimmieschi che per tutta la partita l’hanno colpito in quanto nero. Anzi, negro, come si dice oggigiorno. Anche questo succede spesso: dai campi di Serie A fino a quelli di provincia il razzismo, insieme alla violenza, il colore della pelle diventa una caratteristica da insozzare con i più plateali insulti.

All’esterno dello stadio di San Siro si sono susseguiti violenti scontri tra tifosi. C’è anche un morto: Daniele Belardinelli, 35 anni, è stato investito da un’auto durante i tafferugli.

Come era prevedibile si sono alzati i peana di chi condanna le violenze e i cori razzisti come se lo stadio fosse un mondo a parte, come del resto torna utile e comodo credere e lasciar credere. C’è un altro particolare interessante: la vittima e i carnefici sono stati puniti allo stesso modo. Koulibaly si è preso due giornate di squalifica per l’espulsione guadagnata in campo (eh, sì, ha perso la pazienza, che vergogna, nevvero?) e due giornate di squalifica alla curva dell’Inter. La pilatesca giustizia sportiva ha trovato una comoda via d’uscita. Niente da dire invece su una gara che sarebbe stata da sospendere per inciviltà. Non sia mai che lo spettacolo si interrompa.

Poi ci sono due frasi, tutte e due da incorniciare. Una l’ha pronunciata la vedova dell’agente di Polizia che perse la vita proprio fuori da uno stadio, Marisa Raciti: «Bisogna investire di più nella cultura, nella scuola e nell’informazione. Tutto il sistema è carente da questo punto di vista e non mi stupisco se a 12 anni dalla morte di mio marito il linguaggio è sempre quello. Mio marito tornava a casa sempre ferito, fin quando non è più tornato». Poi c’è la dichiarazione di Koulibaly: «Mi dispiace la sconfitta e soprattutto avere lasciato i miei fratelli. Però sono orgoglioso della mia pelle. Di essere francese, senegalese, napoletano, uomo».

Eppure quella gente (quelli che vanno allo stadio a vomitare insulti a un nero perché nero) a fine partita si sparge per le strade, va a lavorare in ufficio, si ferma a chiacchierare nei bar: sono il Paese. Anzi, ad ascoltare la propaganda, verrebbe da dire che la maggioranza degli italiani la pensi esattamente come loro. Uno stadio che oggi più o meno è al 30%. Perché allora questo futile stupore? Abbiate il coraggio di esserne fieri. O no?

Buon venerdì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/12/28/e-sempre-il-solito-razzismo-anche-senza-pallone/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Non si può dire sempre no. Quindi sempre sì

È una riflessione che mi rimbalza in testa da un po’ di tempo e che in questi giorni mi si è acutizzata: nel campo delle semplificazioni, in quel banale prato verde in cui tutto è bianco oppure tutto è nero, galoppano felici da qualche anno quelli che lamentano l’esistenza del fronte del no. Li chiamano quelli che dicono no a tutto e nella definizione tengono dentro collettivi diversi, siano loro cittadini o partiti o associazioni, che decidono di contestare un’opera pubblica. Una qualsiasi.

Non scervellatevi troppo: non conta quale sia il progetto, l’importante è dividere l’umanità in due scaglioni immediatamente riconoscibili, sempre per quella storia del tifo come unico motore del consenso di cui mi è capitato spesso di scrivere. Vorrebbero farci credere, questi innovatori che si intestano qualsiasi cambiamento come una vittoria indipendentemente dal fatto che sia in meglio o in peggio, che esista un partito del no contro le opere pubbliche, tutte le opere pubbliche, che va combattuto con un partito del sì a favore delle opere pubbliche, tutte le opere pubbliche.

Sia chiaro: non si tratta solo della manifestazione Sì Tav di Torino (a proposito: in prima fila campeggiava uno striscione, proprio nella prima fila davanti a tutti, in cui si leggeva No ZTL a pagamento, roba da film neorealista) ma in generale della bassissima densità del dibattito sulle opere pubbliche. Sembrano esserci in campo solo due partiti: quelli del sempre sì e quelli del sempre no? Ma non vi sembra una cagata colossale?

Dico: è possibile che tutte le Grandi Opere (che è un marchio che meriterebbe di essere registrato come la Coca Cola o Babbo Natale) siano totalmente giuste o totalmente sbagliate? Davvero i nuovi progressisti sono coloro che cambiano per il gusto di cambiare e i presunti conservatori sono tutti quelli che hanno qualcosa da ridire? Ma la banalità della discussione non vi fa esplodere il cervello?

Va bene fare opposizione, per carità, ma un corsivo di Repubblica di ieri rende bene l’idea:

“Siamo qui per dire sì al futuro, sì al lavoro”, ha detto Mino Giachino, che ha parlato dall’autobus scoperto utilizzato come palcoscenico di fronte a Palazzo Reale. Tanti i cartelli Sì Tav e i tricolori, le uniche bandiere ammesse dagli organizzatori della manifestazione. Giachino, sottosegretario ai Trasporti nell’ultimo governo Berlusconi, ha dedicato l’iniziativa a due “imprenditori lungimiranti”, Sergio Pininfarina e Sergio Marchionne. Ed ha espresso solidarietà alle forze dell’ordine che “per vent’anni si sono presi gli sputi e le botte in Val Susa”. “Ce ne hanno fatte di tutti i colori – ha concluso – ma dopo vent’anni siamo ancora qui a dire sì”.

A posto così? Approfondire, argomentare, magari?

Buon martedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/11/13/non-si-puo-dire-sempre-no-quindi-sempre-si/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La morale è sempre doppia quando non c’è

Scusatemi se mi butto nel fango. La lotta tra le ghiande, ruzzolando in mezzo ai maiali, è antipatica e stomachevole però vi giuro che no, non riesco a starne fuori. Andiamo con ordine: nella notte tra il 18 e il 19 ottobre a Roma è stata ammazzata Desirée Mariottini, una ragazzina di sedici anni il cui cadavere è stato ritrovato in uno stabile abbandonato e occupato in via Lucani, quartiere San Lorenzo. Il caso vuole che i fermati come sospettati per l’omicidio siano stranieri. E negri. E ancora una volta apriti cielo. Ronde, ruspe, quel becero avvoltoio del ministro dell’inferno subito pronto a pisciare sul palazzo per marcare il territorio e già delle belle ronde da dare in pasto ai giornali.

Sia chiaro. Da queste parti, di chi scrive, una giovane donna uccisa, per di più dopo una probabile violenza, è un dolore schifoso e inaccettabile. È necrofilia anche lucrare sui morti, paragonarli, ma per sbugiardare i vermi bisogna entrare nel verminaio. Eccoci.

Tra la morte di Pamela (usata ovunque per spargere odio fecale) e la morte di Desirée sono passati dieci mesi. Dieci mesi. Solo nei primi sei mesi di quest’anno sono state uccise altre quarantaquattro donne. Quarantaquattro.  Nel 2017 sono state uccise 113 donne. Centotredici. Due di loro erano al quinto e al sesto mese di gravidanza. Ad uccidere sono stati, nella quasi totalità dei casi, mariti, compagni o ex, incapaci di accettare la fine della relazione o la volontà della partner di volersi ricostruire una vita al di fuori della coppia. Niente negri, niente drogati. Bianchissimi e merdosissimi mariti. Vi ricordate qualche nome delle altre donne oltre a Pamela e Desirée? Uno, anche solo uno. Niente, vero? Vi sembra normale? No, non è normale.

Poi: Desirée era stata denunciata per spaccio. Il padre la picchiava, dicono le sue amiche, ed è stato denunciato per stalking. Dopo la separazione dei genitori era stata affidata ai nonni. Bene, ora pensate a come è stato dipinto Stefano Cucchi e come tutt’oggi i suoi famigliari siano ricoperti di fango: perché Cucchi è un drogato rovinato dalla famiglia e invece Desirée è una povera stella massacrata dallo straniero?

La risposta è semplice: in modo orribile in questo Paese ci sono deplorevoli personaggi (capeggiati dal ministro dell’inferno) che grufolano nella spazzatura per trovare morti che tornino utili alle loro tesi. Un esercito di topi con sembianze umane che invocano la sedia elettrica per i negri e citano invece il raptus amoroso se sono bianchi e italiani. Ed è uno schifo indicibile. Una necrofilia cromatica di stercorari che cercano discariche per spargere odio razzista. Feccia. E sullo sfondo il dolore dei morti che vengono sventolati come souvenir.

Chi non ha una morale finge sempre di averla doppia. Ma è niente. Niente mischiato con niente. Niente al quadrato. Sempre zero.

Buon venerdì.

 

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Oui, il Pd c’est moi

Non è tanto Matteo Renzi che stupisce. Renzi è così, piaccia o no, prendere o lasciare, e anche se paga lo scotto di una personalità piuttosto arrembante sempre pronta a sfociare nel bullismo, Renzi nel Pd sta facendo il Renzi, niente di nuovo, il suo solito copione.

Il tema piuttosto è un altro ed è ben altro dall’ex presidente del consiglio o l’ex segretario di turno ed è tutto incentrato sulle minoranze che nel Partito democratico si sono via via succedute e che paiono tutte le volte incagliarsi sullo stesso punto: il coraggio.

La direzione del partito di ieri (che ha praticamente votato sull’intervista televisiva del suo ex segretario) dimostra ancora una volta l’incapacità di elaborare, organizzare e sostenere una visione differente dalla maggioranza riuscendola a spiegare ai propri elettori e prendendosi la briga di portarla avanti anche nei luoghi decisionali del partito.

Mi spiego: al di là di quella che può essere la mia opinione personale su ciò che dovrebbe fare il Pd con il Movimento 5 stelle (e certo spetta al Pd deciderlo più che agli agguerriti editorialisti che si sentono tutti segretari oltre che allenatori) la scena di ieri porta con sé qualcosa di sgraziato nell’esito del voto: si direbbe, leggendo il risultato, che non sia mai esistita una posizione diversa da quella maggioritaria, come se tutto il can can dei giorni scorsi fosse solo una nostra allucinazione.

E non ce ne vorrà il ministro Orlando (e il reggente Martina) se non crediamo alla soffice giustificazione di chi dice «l’importante è essere unitari»: se si avesse così a cuore la solidità percepita da fuori forse si eviterebbero certi toni da tifo. Il tema è un altro: nel Partito democratico tutti si sgolano sulle differenze di posizione ma risultano pochissimo convincenti nei successivi riallineamenti. Tutte le volte. Sempre. Con quella sensazione di fondo che si sia semplicemente rimandata la coltellata e si finga che non sia successo niente.

Poi, però, sono gli stessi che ci dicono che «il Pd si cambia da dentro». E l’ha fatto solo Renzi, pensandoci bene.

Buon venerdì.

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Il colloquio di lavoro

(Ripensavo a un testo per questo primo maggio e per questo lavoro piuttosto deteriorato e mi è venuto in mente un capitolo del mio romanzo Santamamma. Ora, non è mai bello autocitare un romanzo, suona sempre come mossa promozionale, eppure è una scena che contiene molte delle cose che ho vissuto io che sono di quella generazione a cavallo tra il “lavoro” come lo intendevano i nostri genitori e poi il “lavoro” come sarebbe diventato. Eccolo qui)

«Carlo Gatti»

«Sì, buongiorno. Eccomi.»

«Titolo di studio?»

«Maturità classica.»

«E basta?»

«Già, sì.»

«Strano, una maturità classica senza università…»

«Ho preferito cominciare a lavorare.»

«Sì. Ma non ha cominciato a lavorare visto che è qui per il colloquio.»

«Ho fatto il benzinaio.»

«Con la maturità classica. Un po’ pochino, eh. Chissà come saranno stati fieri i suoi genitori.»

«Lavoro estivo. Una cosetta così.»

«Ma qui c’è scritto settembre aprile.»

«Intendevo estivo nell’interpretazione. Anche se d’inverno.»

«Ah, nell’interpretazione, pensa te. Speriamo che non interpreti anche di fare finta di lavorare, ahinoi.»

L’ufficio aveva piante finte in tutti gli angoli. Smorte comunque. Almeno una spolverata, pensavo, almeno quella ci vorrebbe. Lui rigirava una penna. Lo insegnano a tutti gli ingiacchettati: tenere qualcosa tra le mani evita la fatica di pensare dove metterle. Trucchetto curioso per chi dovrebbe ribaltare l’economia del mondo, ma tant’è. I colloqui di lavoro hanno tutti un filo comune: la recitazione da parte dell’esaminato di un bisogno ma non troppo, di un entusiasmo ma non troppo, di competenze ma non troppo, di umiltà ma non troppo, di troppa buona educazione e una combinazione d’abiti che non vedi l’ora di dismettere. L’esaminatore, invece, sfoggia l’abilità di esaminare ma non troppo, annusa che tu sia brillante ma che non possa fare ombra, gioca al caporale e tu la truppa e poi diventa servo se entra il capo. Al decimo colloquio di lavoro potresti farne la regia in un teatro da mille posti, disegnarne la radiografia. Che messinscena.

«Suona. Anche.»

«Suonavo. Ho studiato pianoforte fin da piccolo. E violoncello.»

«La mia figlia più piccola va a danza. Le maestre dicono che sia portata. Vedremo un po’. Quindi ha suonato alla Scala?»

«Alla Scala c’è una stagione sinfonica. Non concerti solisti.»

«Ho capito, ho capito. Suonava così. Per passione…»

«Ho studiato. Frequentavo anche il conservatorio.»

«Ah, è diplomato! Allora un giorno la invito a vedere mia figlia ballare così mi dice.»

«Non mi sono diplomato. Mi sono fermato al nono anno.»

«Gatti, Gatti… non è riuscito a finirne una…»

«Ho avuto un lutto in famiglia.»

«Oh, mi spiace.»

Almeno un limite di potabilità, me lo ero imposto. Almeno non farsi sbavare addosso. E il lutto è un jolly: funziona a scuola per l’interrogazione e funziona anche qui. Del resto sono tutti maestrini, questi qui.

«Le spiego. Lei sa di cosa ci occupiamo?»

«Ho preso alcune informazioni. Consulenza aziendale specializzata in logistica, mobilità e ottimizzazione.»

«Ha sfogliato il depliant. Almeno quello l’ha finito.»

«Mi informo sempre. Amo sapere con chi sto andando a parlare.»

«Va bene Gatti, adesso non esageriamo. Quello è il mio lavoro. Comunque: esistiamo dal 1949 e il fondatore era un piccolo padroncino che si occupava di consegne e spedizioni nella zona fino poi a coprire tutto il territorio nazionale. Quando l’azienda è passata di mano al figlio, il signor Monti che poi è quello che la pagherebbe se io decido che lei può andare bene, abbiamo deciso di internazionalizzare l’impresa e oggi siamo tra i leader in Europa nella consulenza per le più importanti aziende logistiche. Trattiamo bancali e container che partono dall’Islanda e viaggiano fino alla Nuova Zelanda. Spedizioni che fanno il giro del mondo. Mi segue?»

È forte questa cosa degli incravattati che ripetono manfrine sulla storia dell’azienda com’è scritta sui volantini. È la recita di natale che si ripropone nella versione adulta, solo che qui a noi tocca fare i parenti commossi.

«Noi ci occupiamo che la spedizione avvenga con tutti i crismi: velocità, cortesia, qualità e produttività, soprattutto. Produttività. Abbiamo due divisioni: slancio e controllo. La figura che cerchiamo è per il reparto di slancio.»

«Sì. Di slancio. Che sarebbe?»

«Molto semplice. Il cliente x dice che deve spedire il bancale y da Roma a Berlino. Lei ha i numeri telefonici dei camionisti che collaborano con noi e il nostro sistema le fornisce un’indicazione di prezzo che noi chiamiamo cuneo. Il suo lavoro è di trovare velocemente quale dei nostri trasportatori è disposto a fare la tratta al prezzo più basso. Sulla differenza tra il cuneo e il prezzo che lei è riuscito ad ottenere le spetta una provvigione del 2,5% fino a un abbassamento del 25%, una provvigione del 5% fino al 50% e addirittura del 10% se il cuneo supera il cinquanta. Sembra difficile ma è molto semplice: quel viaggio dovrebbe costare 10.000 euro ma lei riesce a venderlo a un camionista a 5000 e con una telefonata si  è guadagnato 500 euro puliti. Mica male, eh?»

«Eh.»

«Già.»

«Ma perché slancio?»

«Il nome? Perché questo nome?»

«Sì. Una curiosità.»

«Mi sembra facile. Iniettiamo soldi nel mondo del lavoro, creiamo economia, spostiamo merci, accontentiamo clienti e lavoratori. Se al camionista non arrivasse quella telefonata avrebbe il camion fermo in giardino per farci giocare il figlioletto con il clacson e la leva del cambio. Il suo lavoro è tenere tutte queste persone in circolo, con tutti i loro talenti.»

Qui sorrise con trentadue canini. Era evidente che aveva trovato una formula diversa dalla consuetudine intirizzente e ne era entusiasta. L’avrebbe raccontata ai colleghi, agli amici del golf e alla mogliettina simulatamente fiera che l’avrebbe ascoltato mentre sceglieva il sushi. Da noi, in quegli anni lì, il sushi era un marziano con il salotto aperto solo agli eletti.

«Ma lei capisce, signor Gatti, che la responsabilità del ruolo e il prestigio dell’azienda ci impone di scegliere persone con i giusti talenti.»

Daje, con i talenti. Mi venne in mente zio Paperone. Con i sacchi di talenti.

«Per questo ho bisogno di sapere tutto di lei e di protocollo le farò anche delle domande personali. Dobbiamo avere la certezza di affidare il nostro slancio a persone che insieme a noi vogliano cambiare il mondo, aperte a sfide nuove e capaci di interagire con il futuro dandogli del tu.»

«Ovvio.»

«Mi dica Gatti, perché è interessato ad entrare nel mondo della logistica e della grande distribuzione?»

«Perché amo la mobilità. Ecco.»

«Cioè?»

«Credo che il commercio sia la più alta realizzazione delle capacità umane e essere partecipe di un’organizzazione che riesce a dare del tu a tutti i continenti sia una bella sfida.»

«Perfetto. Molto bravo. Ha già capito il nostro spirito. Siamo esploratori, noi. Ha intenzione di farsi una famiglia?»

«Certamente. Pur rispettando la mia autonomia.»

«Appunto. Perché qui non si può fermare il mondo per un anniversario, lei mi capisce. Questo non è un lavoro…»

«È una missione.»

«Una missione. Esattamente. Vuole avere figli?»

«Per ora no. Una famiglia mi basterebbe. Vorrei prima concentrarmi sulla realizzazione personale

«È molto maturo per essere un musicista della domenica, Gatti. Anche se ha letto il greco e latino.»

«La ringrazio.»

«Qui c’è gente che si è presentata in braghe di tela come lei e ora si porta a casa dodici, quindici, diciotto milioni al mese. Ma bisogna crederci, essere all’altezza dei propri sogni, come dice il nostro capo tutti gli anni alla cena di natale. Mi dica Gatti, ma lei è all’altezza dei suoi sogni?»

«Oh certo.»

«Perché qui ha il dovere di sognare. Non so se mi capisce. Questo non è un lavoro, come dirle, è l’affiliazione a un sogno. Qui non ci sono orari e domeniche perché i nostri collaboratori hanno bisogno di venire in ufficio, hanno bisogno di ribassare il cuneo e sentono la necessità di dimostrare al mondo che è possibile spostare un bancale di mille chilometri a metà del prezzo che la società ci vorrebbe imporre. È un fuoco che senti dentro».

«Capisco bene.»

«Capisce, va bene, ma lei ce l’ha il fuoco? Me lo faccia vedere! Ce l’ha il fuoco dentro?»

Sai che forse ci credono davvero questi a quello che dicono? Francesco una volta mi disse che sì, che secondo lui succede che a forza di riempire di polpettone il tacchino qualche tacchino si convince di essere polpettone. Lui aveva suo padre che vendeva porte blindate, le porte blindate più blindate tra le porte blindate, e quando a casa di Francesco gli zingari gli sono entrati in casa per rubargli pochi spicci, le mozzarelle e cagargli sul divano anche quella volta lì suo papà disse che dovevano essere una banda di professionisti, rapinatori da musei e ministeri, se erano riusciti a debellare la sua porta blindata.

«Io ce l’ho il fuoco. Me lo sento che brucia.»

«Perché questo è il punto di partenza essenziale. Senza quello io e lei non facciamo neanche questo appuntamento, altrimenti. Perché è lei che vuole venire con noi. Ma come lei ce ne sono migliaia. E bisogna scegliere bene chi ci prendiamo in famiglia.»

«Certamente. La sua è una bella responsabilità, mi immagino.»

«Lo può dire forte, Gatti! Lo può scrivere mille volte sulla lavagna! Ma lei cosa vuole fare da grande?»

«Essere in squadra per una grande impresa

«Molto bene.»

«Grazie.»

«Guardi questo test, guardi qui. Deve mettere una croce. È alla guida di un treno e c’è una biforcazione. Se continua sulla sua direzione troverà sei persone sui binari e inevitabilmente sarò costretto a ucciderli però può azionare lo scambio e decidere di prendere l’altra biforcazione dove sui binari c’è un uomo solo. Da che parte va, lei, Gatti?»

«Non è facile.»

«Non c’è tempo Gatti! Non ha troppo tempo! Non si può spegnere lo slancio!»

«Ne uccido uno solo, forse.»

«Ma è colpa sua, così!»

«Beh, non credo che se uccido gli altri sei mi facciano patrono del paese…»

«Sa qual è la risposta giusta?»

«No.»

«La risposta giusta anche se non c’è il quadretto della risposta giusta?»

«Mi dica.»

«La strada più breve. La più breve è la risposta giusta.»

«Ah, ok.»

«Ha qualche domanda?»

«Niente in particolare. Volevo chiedere, nel caso in cui io possa andare bene, l’inquadramento. Lo stipendio.»

«Le do un consiglio Gatti. Al di là di questo nostro incontro e che poi venga o no a lavorare con noi. Le do un consiglio. Parlare di soldi a un colloquio di lavoro è terribilmente inelegante».

«Sì, questo lo so».

«Però ci è ricascato. Pensi lei se io dovessi essere così rozzo da raccontarle che dispendio di soldi, tempo e energie è per noi fornirle una postazione, occuparci del telefono, le cuffie, il computer, i programmi, il suo armadietto, il badge, la mensa. Pensi quanto mi costa impiegare qualche collega esperto, di quelli che hanno lo slancio dentro, per spiegarle come funziona. Pensi a uno della nostra squadra che piuttosto che iniettare economia deve istruire uno appena arrivato. Gliene ho parlato? Forse mi ha sentito che le faccio pesare il fatto che qui da noi sapere sviolinare il pianoforte conta come il due di picche quando briscola è bastoni? È cambiato il mondo per voi giovani. Io vi invidio. Avete di fronte un futuro aperto a tutte le possibilità: la domanda che dovete fare non è «quanto mi pagate» ma «quanto valgo, io?». Io non le do niente, io non voglio essere come una volta il padrone della sua vita, io sono qui perché lei mi dica quanto guadagnerà. Sono io che glielo chiedo. Quanto guadagnerà Gatti?»

«C’è un rimborso spese?»

«Sono duecentocinquantamila lire di anticipo di provvigioni per i primi sei mesi. Volendo vedere c’è anche un milione di computer sulla sua scrivania, ottocentomila lire di media di bolletta telefonica per ogni collaboratore, la cancelleria e soprattuto questa azienda che vede, che il proprietario ha voluto bella e accogliente più di casa sua.»

«Ho capito. Mi è tutto chiaro.»

«Lei mi piace Gatti. Glielo confesso perché mi piace. Magari mi sbaglio anche se in tutta la carriera non mi sono sbagliato mai ma sento il suo fuoco. Mi prendo il rischio, via: se vuole domani ci vediamo alle 7 e iniziamo. Non lo dica a nessuno che l’ho deciso così su due piedi ma ogni tanto voglio fidarmi del mio istinto. Forse si è perso un po’ con la musica e la scuola ma le posso raccontare di un collega che non sapeva nemmeno parlare in italiano e ora è un caporeparto con la Golf aziendale e uno stipendio da favola. Non le dico il nome solo perché sarebbe inelegante ma lei ha quella luce negli occhi. Se lo prende qui da noi il diploma, si laurea in slancio. Eh?”

«Domani però non posso. Domani.»

«E perché?»

«Ho avuto un lutto.»

«Mi dispiace tanto.»

«Però vi chiamo. Vi chiamo io.»

«Va bene Gatti. Va bene. L’aspettiamo. Come una famiglia!»

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