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La pornografia dello svago

Ogni giorno in Italia cade un Boeing e muoiono tutti i passeggeri. I numeri sono gli stessi e ce n’è perfino qualcuno in più. Ogni giorno in Italia qualcuno non sa quando potrà concedersi il lusso di amare una persona fuori regione, l’amore non è considerato una giusta causa. Ogni giorno in Italia qualcuno guarda la serranda della propria attività che si è arrugginita a rimanere troppo abbassata (o è ancora abbassata) e si domanda che lavoro si ritroverà a fare domani, se ci sarà un lavoro, e se non ci sarà un lavoro come ci si inventerà un reddito. Ogni giorno qualche centinaio di famiglie piange un morto. Decine di migliaia di persone cadono nella preoccupazione di essersi ammalati e i loro famigliari e i loro frequentatori si arrabattano per cercare un tampone in giro.

Eppure mentre durante la prima ondata si assisteva a una riflessione ampia su ciò che accadeva (addirittura con furbe derive preoccupazionali) questa seconda ondata ha un sapore diverso, niente di buono, qualcosa che cammina sul filo della rimozione e della narrazione populistica. Si racconta delle attività chiuse (e delle loro evidenti difficoltà) prendendola al contrario: non vorrete mica un governo cattivo che vi vieti il cenone di mezzanotte? Dicono così. Non vorrete mica dover scegliere gli ospiti del cenone di Natale? Si reclama a gran voce il diritto dello svago e non lo si fa con il pensiero a chi quello svago lo produce e lo distribuisce (il che avrebbe almeno qualcosa di solidale) ma come affermazione del proprio bisogno fottendosene del resto. Ma attenzione, non è un atteggiamento solo di alcuni cittadini, no, è proprio una discussione che inonda anche i giornali e le televisioni: discussioni orrende e inutili sull’orario di nascita del bambinello e nessuna riflessione un po’ più approfondita sulla manutenzione degli affetti che di questi tempi sono così difficili da mantenere e da reinventare.

Tutto superficiale, tutto raccontato come se fosse solo un rispetto delle tradizioni, tutto declinato in una commedia nazionalpopolare in cui scompare la paura, la solitudine, la lontananza, la sofferenza e tutto diventa lustrini, lucine, panettoni e tute da sci. Ma siamo sicuri di trattare questo tempo cupo con la complessità che merita? Siamo sicuri di rispettare il nostro ruolo di narratori della realtà? Oppure viene più facile agitare simboli senza volere nemmeno approfondire un po’?

È un’epoca profondamente dolorosa che viene trattata con lo stesso vocabolario di una simpatica accidentale caduta con le risate finte. Le ferite (fisiche, sociali, economiche, affettive) non si supereranno con un bicchiere di spumante in compagnia. Noi invece siamo lì, fermi lì, protesi su quel bicchiere lì. Ed è uno spreco di attenzioni, anche piuttosto irrispettoso.

Buon giovedì.

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Ricchi che vorrebbero insegnare la povertà

Si è aperto il can can sulla patrimoniale. Da noi succede sempre così, quando si parla di uguaglianza e di ridistribuzione si fotografano tutti con la mano sul cuore e gli occhi stretti e dolci poi appena capiscono che ridistribuire significa tassare i ricchi si accende uno strano meccanismo: i ricchi convincono anche quelli che non sono ricchi di essere lì lì a un passo di diventarlo, i ricchi giocano a dipingere il loro mondo fatto solo di ricchi e così si alza una levata di scudi che fa spavento.

Si oppone la destra. Diciamocelo, ci sta. La destra difende la conservazione dei privilegi acquisiti negli anni ed è da sempre dalla parte dei ricchi, anzi la destra in Italia è stata per decenni un ricco evasore che incarna il sogno americano in versione panata milanese. Si oppone la presunta sinistra o meglio centrocentrocentrocentrosinistra. Ci sta anche questo: sono di destra sotto mentite spoglie da parecchio tempo ed è normale che la pensino così. Si oppongono quelli che non sono “né di destra né di sinistra” (che scientificamente sono sempre di destra): loro vogliono combattere la povertà senza disturbare nessuno, non hanno ancora capito che non è fattibile e che i diritti in economia sono un punto di equilibrio.

La favola che usano gli oppositori è che in fondo ognuno di noi, frugandosi nelle tasche e guardando bene nei cassetti, abbia un patrimonio di 500mila euro senza nemmeno saperlo. Fortissima la barzelletta delle case: “chi di voi non ha una casa o non ne ha ereditato una che vale almeno 500mila euro”? Peccato che qui si stia parlando di valore catastale dell’immobile e non di valore commerciale. Questo lo omettono. E bisogna dirlo a tutti, per bene, spiegarlo con attenzione. Badate: se qualcuno ha immobili per 500mila euro di valore catastale ha sicuramente lo 0,2% (1000 euro, eh, stiamo parlando di 1000 euro) per superare le disuguaglianze del Paese in cui vive. A proposito: il patrimonio è personale, ricordarselo bene.

Il fatto è che a furia di parlare molto confusamente di “tasse” (che sono il mezzo per ridistribuire la ricchezza) anche certa sinistra si è persa il vocabolario ed è finita a parlare come quegli altri. Notate bene: quelli che si oppongono alla patrimoniale sono gli stessi che tasserebbero di più i dipendenti pubblici, che tasserebbero di più lo smart working perché lo definiscono fin troppo comodo, sono gli stessi che dicono che non vanno tassati i ricchi.

Chi guadagna di più deve pagare di più? La domanda semplice semplice è questa. A ognuno la sua risposta. Ma che i ricchi ci insegnino la povertà è qualcosa di ferocemente patetico. Un po’ come quelli di destra che dicono alla sinistra come deve fare la sinistra. Una cosa così.

Buon martedì.

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Sorvegliata specialmente: Eddi Marcucci

Da marzo l’ex combattente nel conflitto dei curdi contro l’Isis è sottoposta a sorveglianza speciale. Con motivazioni inconsistenti e in virtù di una norma di dubbia costituzionalità

Siamo quasi a dicembre e Eddi Marcucci, 29 anni, continua a essere sottoposta a sorveglianza speciale dal mese di marzo. La “colpa” di Eddi (qui intervistata proprio sulle pagine di Left) è quella di avere combattuto per nove mesi nella battaglia dei curdi contro l’Isis, una guerra che sarebbe spettata a noi e che invece è stata celebrata nelle fasi iniziali e poi volutamente, consenzientemente dimenticata se non addirittura condannata. Eddi è partita nel 2017 per il Rojava con lo scopo di affiancare gli Ypj curde contro gli islamisti che controllavano il Nord della Siria.

Secondo il tribunale di Torino l’essere addestrata all’uso delle armi sarebbe un potenziale pericolo, non si sa bene per chi, e per questo le è stato ritirato il passaporto, ritirata la patente, imposto di stare nella sua abitazione dalle 21 alle 7 ed è obbligata a comunicare tutti i propri spostamenti. Entro Natale la Corte d’appello di Torino deciderà sul ricorso presentato da Marcucci contro la sorveglianza speciale. Le erano anche stati negati i social che ieri sono stati riattivati. Nessuna spiegazione sul perché siano stati tolti e nessuna spiegazione perché ora siano tornati indietro. Niente.

La sorveglianza speciale (eredità dei regi decreti dell’epoca fascista, quando veniva usata come strumento di repressione) è una misura che non viene presa come reazione a un reato commesso ma al fine di prevenire eventuali reati. Si basa sostanzialmente su una serie di indizi sul possibile reato senza nessun riscontro, rimanendo nel campo delle ipotesi. Si pongono ovviamente anche dei dubbi costituzionali su una misura così arbitraria (lo ha sottolineato anche nel 2017 la Corte europea dei diritti umani) che intacca la presunzione di innocenza e che comporta comunque afflizione. Sulla vicenda tra l’altro c’è un gran bel libro edito da People (Dove sei?) scritto da Roberta Lena, madre di Eddi.

Tra le limitazioni c’è anche il divieto di parlare in pubblico e di fare politica: in sostanza non può raccontare la propria storia e quello che le sta accadendo. Per questo vale la pena raccontarla. E per questo sarebbe il caso di sapere quali sarebbero gli “indizi” di questa misura così straordinaria. Anche perché se si tratta solo dell’essere stata addestrata a maneggiare armi allora ci sarebbe qualche milione di persone con un servizio militare alle spalle che andrebbero sorvegliati, subito, qui da noi. No?

Buon venerdì.

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Parliamo di povertà?

Mi scrive uno sfogo densissimo Filippo. Filippo è uno di quelli con le mani dentro la povertà, ce ne sono tanti nel nostro Paese, anche se ce ne dimentichiamo spesso. È un membro anomalo in un ente religioso: di sinistra, ateo, sbattezzato. Con le mani, per lavoro, dentro gli angusti dolori di chi è stato sopraffatto dalla pandemia. Ma sopraffatto vero, senza la preoccupazione di dove andare a sciare il prossimo Natale.

“Bene, ora, da qualche mese a questa parte, mi trovo quotidianamente a conoscere e a confrontarmi con persone, con famiglie per lo più composte da giovani genitori e bambini poco più che neonati, che, trattenendo le lacrime, si sono trovate, senza capire come, nella condizione di dover chiedere aiuto a me, a noi, ai professionisti e ai volontari di organizzazioni caritatevoli.
Dov’è oggi lo Stato Sociale? La povertà non era stata abolita? Come può pensare uno Stato di essere sulla strada giusta se i suoi cittadini devono dipendere da queste associazioni e non possono fidarsi degli organi pubblici predisposti? È normale che in Italia, in una piccola Provincia piemontese, oggi sia stato fondamentale l’intervento economico di due enti caritatevoli per permettere a due famiglie di riavere luce e gas? E’ normale che vengano spesi 38.000 € (giuro, 38.000 €) per le luminarie natalizie quando la luce ogni giorno viene a mancare nelle case dei cittadini?
Sui giornali, nei tg, in radio, leggo e sento solamente discussioni su quanto sia importante andare a ballare o a sciare, ma le urla e le lacrime disperate di chi non riesce a pagare affitti, bollette per luce o gas non meritano lo stesso interesse dei capricci del Briatore di turno?
“Quando torneremo alla normalità vi restituirò tutto”, è questa la frase che oggi mi sono sentito ripetere più e più volte da persone che rivolgevano lo sguardo a terra, che si vergognavano di essere li, di aver deluso i canoni di questa società fondata sul successo personale, sui beni materiali. Ma io, noi, non vogliamo niente in cambio, tutto quello che facciamo, dalla distribuzione di alimenti, al pagamento di utenze, alla ricerca di offerte di lavoro, lo facciamo perché crediamo nell’umanità (un grazie a quella parte di umanità che sostiene i nostri progetti).
Da un lato aiutare queste persone, sentirmi dire “grazie, senza di voi non so come avrei fatto” mi fa sentire bene, mi da una carica oserei dire “rivoluzionaria”, ma solo per pochi istanti, subito dopo subentra la Disperanza, una sensazione di rabbia mista a impotenza che ti fa venir voglia di mollare tutto, che ti fa sentire piccolo, impotente di fronte a un mostro imbattibile e fa percepire come inutili tutti i tuoi sforzi per garantire un’esistenza dignitosa a chi da questo sistema viene sacrificato.
È normale che uno Stato non sia in grado di garantire uno stile di vita dignitoso ai suoi cittadini? È normale che uno Stato debba dipendere da associazioni caritatevoli per sopperire alle sue mancanze e che non se ne interessi minimamente a livello centrale? Quale è stato il preciso momento in cui il mio Paese, quel Paese per il quale mia nonna ha sacrificato la sua gioventù lottando per un ideale di giustizia e equità, per il quale io mi sono messo in gioco difendendo le cause degli ultimi, dei più deboli, ha abbandonato il suo popolo?
Dopo una giornata emotivamente devastante, dopo essermi trovato di fronte a ragazzi miei coetanei, che spensierati sgargarozzavano birre guardando le partite con me nei bar fino a poco tempo fa e che ora non dormono la notte, tormentati da quella maledetta sensazione, quella maledetta ansia che folgora cuore e stomaco e annebbia la ragione causata dal sentirsi inadeguati, dal convincersi di aver fallito e di non essere degni dei proprio genitori, dei propri figli per non riuscire a garantirgli un’infanzia spensierata come quella da noi vissuta, l’amministrazione comunale cosa fa? Si vanta di aver vinto una causa in tribunale che gli permette lo sgombero di un campo Rom…9 persone, 2 bambini, a fine novembre, in mezzo a una strada. Tanto “qualcun altro” ci penserà….”

Quando torniamo seriamente a parlare di povertà?

Buon giovedì.

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L’audizione di Renzi getta nuove ombre sul caso Regeni: quando fu informato il governo italiano?

È successo qualcosa di importante nell’audizione di Matteo Renzi, nella veste di ex Presidente del Consiglio, di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, ritrovato senza vita il 3 febbraio 2016 in Egitto. Secondo quanto dichiarato da Renzi la morte del ricercatore friulano gli sarebbe stata comunicata il 31 gennaio, ben 6 giorni dopo la scomparsa. Ha detto Renzi: “Noi abbiamo reagito mettendo in campo tutti gli strumenti – ha detto – Abbiamo lavorato tutti insieme a livello istituzionale come una squadra. Sì, abbiamo rimpianti. Io ho pensato ‘perché abbiamo saputo questa notizia solo il 31 gennaio?’ Se avessimo saputo prima avremmo potuto agire prima”.

Peccato che l’allora ambasciatore italiano in Egitto Maurizio Massari avesse dichiarato alla stessa Commissione che l’ambasciata italiana venne informata dal professore che Regeni avrebbe dovuto incontrare, Gennaro Gervasio, il 25 gennaio alle 23.30. E a sottolineare l’incongruenza c’è anche un comunicato del Ministero degli Esteri che “precisa che le Istituzioni governative italiane e i nostri servizi di sicurezza furono informati sin dalle prime ore successive alla scomparsa di Giulio, il 25 gennaio 2016”. Non è una cosa da poco: attivarsi sin dalle prime ore della sparizione di Regeni avrebbe sicuramente permesso un intervento più tempestivo, come ammette lo stesso senatore di Italia Viva, e forse avrebbe permesso un più facile accertamento della verità.

Smentito dalla Farnesina Renzi ha voluto controbattere con una nota del suo ufficio stampa: “nel corso dell’audizione di questa mattina il senatore Renzi ha espressamente richiamato la relazione del ministro Gentiloni e del Segretario Generale Belloni come parte integrante della sua esposizione. Che la Farnesina fosse informata dal 25 gennaio alle 23.30 è vero per esplicita dichiarazione lasciata a verbale dall’Ambasciatore Massari”. Quindi secondo Renzi la Farnesina sapeva ma non aveva informato il Presidente del Consiglio. Ma è possibile che il capo del Governo non sappia che un suo concittadino all’estero risulta irreperibile?

Ma i dubbi non sono finiti: il 27 e il 30 gennaio l’intelligence italiana ha incontrato gli omologhi egiziani, che avevano già avvisato l’ambasciatore italiano della scomparsa di Regeni. È possibile che in quelle due riunioni non si sia affrontato l’argomento? Ed è pensabile che i servizi italiani (che fanno riferimento al Presidente del Consiglio) non abbiano avuto occasione di aggiornare Renzi sulla scomparsa di un giovane italiano? Tutti dubbi che hanno bisogno di essere chiariti in fretta perché nella storia di Giulio Regeni (e delle responsabilità della politica egiziana) non possiamo permetterci di avere ombre anche sulle istituzioni italiane. La morte di Giulio Regeni non merita altre macchie. Davvero, no.

Leggi anche: Regeni, la procura di Roma è pronta al processo agli 007 egiziani. Ma il governo italiano teme al-Sisi

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Sul caso Genovese auguri al carnefice e attenuanti alla vittima: il mondo rovesciato di Vittorio Feltri

È dura essere Vittorio Feltri. Ogni mattina si sveglia e deve riuscire a intercettare gli umori peggiori dei più bassi discorsi da bar e metterli su pagina per manganellare qualcuno. Oggi il “giornalista” se la prende con la vittima di Alberto Genovese e lo fa con un editoriale che si racconta già dal titolo: “Ingenua la ragazza stuprata da Genovese”.

Si comincia instillando un dubbio: “Certo, gli piacevano le donne e non credo che faticasse a procurarsene in quantità – scrive Feltri. Che necessità aveva di rincorrere allo stupro per impossessarsi di una ragazza bella e giovane dopo averla intontita con sostanze eccitanti? Ciò è incomprensibile sul piano logico”.

E così il dubbio è subito bello e servito. Ma Feltri dà il peggio di sé nella descrizione dello stupro: “Dicono che Genovese sia andato avanti tutta la notte a violentare Michela, una ragazzina di 18 anni la quale pare fosse la terza volta che si recava nell’abitazione del nostro “eroe” del menga […] Come si fa a darci dentro per tante ore. Io, anche quando ero un ragazzo, dopo il primo coito fumavo una sigaretta…”.

Finito qui lo schifo? No, no. Feltri ci dice “personalmente ho constatato che si fa fatica a farsi una che te la dà volentieri, figuratevi una che non ci sta”. Capito? Per Feltri, come per tanti sostenitori del giornalismo fallocratico, non c’è differenza tra violenza, stupro e un normale rapporto amoroso: è tutto solo un atto sessuale, è tutto solo quella cosa lì, tutto uguale, sempre uguale.

Il finale poi è un manifesto di indegnità giornalistica. Feltri si domanda se la vittima “entrando nella camera da letto dell’abbiente ospite” pensava “di andare a recitare il rosario”, senza sospettare “che a un certo punto avrebbe dovuto togliersi le mutandine senza sapere quando avrebbe potuto rimettersele” e scrive che “sarebbe stato meglio rimanere alla larga da costui”. Insomma, se l’è cercata.

Il vomitevole editoriale si chiude con “lui” che “adesso la vedrà brutta o non la vedrà per anni (indovinate cosa, nda) con l’augurio di “disintossicarsi in carcere”. E la vittima? Scrive Feltri: “Alla vittima concediamo le attenuanti generiche. Ai suoi genitori tiriamo le orecchie”. Auguri al carnefice e attenuanti alla vittima: il mondo rovesciato di Vittorio Feltri è tutto qui.

Qualcuno dice che non bisognerebbe sottolinearli certi pezzi, qualcuno dice che bisognerebbe fare finta di niente. Ma c’è una responsabilità sulle parole che ritorna proprio in questo periodo ancora più prepotente: la violenza sulle donne inizia quasi sempre con la parola, è lì che si infila la prima fallocrazia. Qualcuno dice che Feltri fa così per provocare, benissimo, allora mettiamoci d’accordo su quale sia il limite delle cosiddette “provocazioni” che poi non sono altro che articoli che vogliono parlare a un pubblico ben preciso: i maschi che per sentirsi maschili sanno solo essere maschilisti. La violenza sulle donne è qualcosa di troppo grave e di troppo serio per essere lasciata in mano a Feltri e per questo c’è da continuare a sottolineare qualsiasi sua schifezza, soprattutto se pubblicata su un giornale di tiratura nazionale.

Del resto ci sono articoli scritti bene, articoli scritti male, articoli giusti, articoli sbagliati e articoli scritti con il cazzo dentro la penna. E in questi ultimi Feltri (e quelli di cui fieramente si fa portavoce) è un maestro. L’Ordine dei giornalisti non ha niente da dire?

Leggi anche: Il triste declino di Vittorio Feltri: da erede di Indro Montanelli a provocatore pro-Salvini (di F. Bagnasco)

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A proposito di fiducia e di vaccini

Vale la pena di leggere le parole del professor Andrea Crisanti sui «dati di efficacia e di sicurezza» da mettere a disposizione della comunità scientifica

C’è, com’è normale che sia, un gran chiasso intorno ai vaccini anti Covid che stanno arrivando nei prossimi mesi in giro per il mondo. Nel numero di Left in edicola ne parliamo approfonditamente e proviamo a analizzare la situazione uscendo dagli steccati degli annunci e dei complotti (a proposito, è l’occasione buona per regalarsi e regalare un abbonamento, qui) e siamo in quel momento in cui i complottisti e i tifosi tireranno le bombe per minare la credibilità di ciò che accade. Un film già visto.

Nei giorni scorsi si è fatto molto chiasso su una presunta dichiarazione di Crisanti che avrebbe dichiarato di non volersi vaccinare subito, appena disponibile il vaccino, ma di preferire aspettare qualche tempo per esserne sicuro. Ammetto di essere rimasto piuttosto stupito della leggerezza della comunicazione (del resto si pone il solito tema dei medici che spesso hanno più di qualche falla come divulgatori) ma proprio ieri Crisanti ha voluto tornare sul tema e ha scritto parole che vale la pena leggere. In una sua lettera al Corriere della Sera puntualizza di volere «i dati di efficacia e di sicurezza» vengano «messi a disposizione della comunità scientifica» e «delle autorità che ne regolano la distribuzione». Crisanti fa notare, in effetti, le modalità di annuncio delle case di produzione che si sono concentrate sui proclami senza occuparsi «di condividere i dati con la comunità scientifica». «Se le aziende in questione – scrive Crisanti – sono in possesso di informazioni che giustificano annunci che possono apparire rivolti in particolare ai mercati finanziari, queste devono essere rese pubbliche anche in considerazione del fatto che la ricerca è stata finanziata con quattrini dei contribuenti»·

La credibilità e la fiducia è qualcosa che si costruisce operando con trasparenza. Sempre. In tutti i campi. Il fatto che si aspetti (giustamente) un vaccino come un popolo assetato aspetta la pioggia non può essere l’unica spinta per proporlo. E sui dati che devono essere pubblici si discute da mesi anche per quello che riguarda i contagi e le modalità del contagio, che ogni regione gestisce un po’ come gli pare. Su un tema come questo si dovrebbe limitare il più possibile la richiesta di atti di fiducia (e talvolta di fede) e giocare a carte scoperte. Sarebbe la risposta migliore e più solida contro negazionisti e altre corbellerie varie. È un filo sottile, la fiducia.

Buon martedì.

Per approfondire, Left del 20-26 novembre 2020

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Azzolina ha ragione: riaprire tutto ma tenere chiuse solo le scuole è semplicemente assurdo

Si parla di tutto. Regali, negozi, centri commerciali, cenoni, spostamenti, virgole per descrivere chi siano i congiunti abbastanza congiunti e quando ci si può spostare e dove: la discussione che si infiamma sul Natale finge di volere essere parareligiosa e invece si fionda sui modi per permettere di spendere soldi, di incassare soldi, di spostare soldi. Per carità, va bene anche così: i soldi sono lavoro e sopravvivenza di alcune attività (ma siamo sicuri che poi non finiscano nelle tasche dei soliti noti che da questa pandemia ci hanno pure guadagnato?) ma ciò che stupisce, o forse non stupisce più nemmeno, è che dal dibattito sia scomparsa ancora una volta la scuola. Ancora.

Qualcuno timidamente prova a ricordarlo (il coordinatore del Comitato tecnico scientifico Agostino Miozzo lo ripete da giorni) e la ministra Azzolina prova a insistere, ma niente. Badate bene: l’apertura delle scuole non è un vezzo italiano, no: le maggiori organizzazioni delle Nazioni Unite come Who, Unesco e Unicef, oltre che le decisioni di Paesi come Francia, Regno Unito e Germania concordano sul fatto che l’apertura delle scuole sia un obbligo da perseguire con cura e attenzione, un bisogno primario per tenere in piedi la salute e lo sviluppo delle generazioni di ragazzi, un dovere di Stato per evitare gravi ripercussioni psicofisiche, sociali e culturali su intere generazioni che in questa pandemia sono retrocesse nella lista delle priorità.

Andare a scuola non significa semplicemente prendere parte a una lezione, andare a scuola significa spesso vivere il momento più importante di formazione e di socialità per crescere nella propria identità. Eppure le scuole continuano a essere trattate come un disturbo burocratico a cui tendere poco la mano, qualcosa di sacrificabile in nome dell’economia che si deve muovere e deve crescere. Se davvero la preoccupazione è la salute dei cittadini (nel senso più ampio del temine) allora viene difficile giustificare un lockdown generalizzato in cui tutti si spostano, per lavoro, mentre i ragazzi rimangono confinati in un limbo.

Si parla delle riaperture prossime per fare cassa e la scuola scivola forse all’11 gennaio. Quando forse poi ci diranno che gli acquisti compulsivi natalizi hanno riacceso la terza ondata e si tornerà al punto di partenza. E in tutto questo fluire di previsioni continua a mancare il danno, grave e difficilmente reversibile, di chi, insieme agli anziani, vive tutto questo come una forzata clausura: i giovani. “I dati ci dicono che i contagi in età scolastica non sono significativamente diversi da quelli di altre classi di età e non abbiamo evidenze per capire se siano avvenuti a scuola o fuori”, dice Miozzo. Ma sembra non interessare a nessuno.

Leggi anche: 1. “In Puglia rischiamo una nuova Bergamo, dovremo scegliere chi intubare”: parla il presidente dei rianimatori / 2. Crisanti a TPI: “A mettere in dubbio il vaccino è il Ceo di Pfizer che vende le sue azioni, non io”/ 3. Esclusivo TPI. Tutti chiusi in casa, ma non l’ordine dei medici di Roma. La denuncia: “Ci sono le elezioni e il presidente vuole far votare 43mila colleghi in presenza”

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Calabria, tutti attaccano Morra: così, però, non si parla più dell’arresto di Tallini

Possiamo tornare al punto, gentilmente? Perché l’arresto di Mimmo Tallini e il quadro indiziario che emerge dall’ordinanza del gip Giulio De Gregorio (che ha accolto la richiesta della Direzione distruttale antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri) disegna un contesto, al di là di quello che dirà l’eventuale processo, su cui varrebbe la pena riflettere. Perché ora sotto la lente dei Ros ci sono anche le comunali di Catanzaro del 2017, le politiche del 2018 e le elezioni regionali del 2020. Nelle carte di legge del Consorzio Farma Italia e della collegata Farmaeko che sono tenute in pugno dalla cosca Grande Aracri di Cutro, nate e subito fallite, come immagine di una regione in cui la malapianta continua a raccogliere frutti.

“Tutto ciò avverrà – scrive il gip De Gregorio – perché l’enorme profittabilità prospettata inizialmente non era riferita a particolari capacità imprenditoriali dei criminali che la dovevano governare, ma allo sfruttamento dei contatti con politica ed economia, all’accesso a risorse finanziarie illecite senza dover corrispondere interessi, alla sostanziale irregolarità delle condizioni di lavoro, ai metodi truffaldini di approvvigionamento”.

C’è un antennista vicino alla cosca come Domenico Scozzafava, legato a Grande Aracri ma anche a Pierino Mellea, il nuovo boss dei Gaglianesi, che votava e faceva votare Domenico Tallini: uno che andava in giro a piazzare bottiglie incendiarie con un pistola con matricola abrasa ed è diventato uomo vicino al presidente del consiglio regionale Tallini. Sono le solite commistioni che raccontano di funzionari in regione che se non eseguono gli ordini del politico di turno vengono rimossi in favore di qualcuno più accondiscendente. L’abbraccio perverso tra economia, politica e ‘ndrangheta è un tema che, al di là degli esiti giudiziari, esce con forza dal punto di vista etico.

Quindi, al di là del caso Morra e della sua infelice uscita, cosa hanno da dire su questo i leader del centrodestra? Oltre alle parole del grillino hanno qualcosa da dirci su un politico già segnalato dalla commissione antimafia diventato così facilmente presidente del consiglio regionale? Salvini che ora lo scarica sa che sono i suoi alleati con cui governa la Calabria? Giorgia Meloni, tutta ordine e disciplina, che ne pensa della fotografia che emerge? Perché tra poco in Calabria si vota e dalle parti del centrodestra qualcuno ha il coraggio di pensare al sindaco di Catanzaro Sergio Abramo come candidato, un uomo vicinissimo proprio a Mimmo Tallini.

Leggi anche: ‘Ndrangheta, arrestato presidente del Consiglio regionale della Calabria, Domenico Tallini

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La ‘ndrangheta, appunto

Vogliamo occuparci di mafie, mica solo in Calabria? Vogliamo che ritornino nell’agenda della politica? O si aspettano sempre gli arresti, sempre

Si è riusciti a parlare per giorni, settimane, di Calabria senza mai pronunciarla. Non so se avete notato ma le mafie sono scomparse dal dibattito pubblico come se fossero qualcosa di non rilevante in tempo di pandemia (mentre per loro è un momento ghiottissimo) e ora se ne torna a parlare a bomba per l’arresto del presidente del Consiglio regionale calabrese Domenico Tallini, per gli amici Mimmo.

Ora sarà il processo a decidere, noi siamo e restiamo garantisti, ma la parabola di Tallini è interessante perché stiamo parlando di uno che era finito nell’elenco degli impresentabili formulato dalla Commissione antimafia guidata da Nicola Morra. Proprio Morra aveva messo in guardia la presidente Jole Santelli nell’affidare compiti di responsabilità a chi era rinviato a giudizio per diversi profili di corruzione. L’hanno nominato presidente del Consiglio regionale, per dire.

Parliamo di un politico che è sulla scena da 40 anni (a proposito del rinnovamento sempre professato e mai praticato) che esce dalle grinfie del vecchio Udeur e si ricicla, come molti altri, in Forza Italia. Le accuse raccontano che «in qualità di assessore regionale fino al 2014 e quindi candidato alle elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale del 2014, e successivamente quale consigliere regionale», Tallini «forniva un contributo concreto, specifico e volontario per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione», si legge nell’ordinanza che ha portato all’arresto del presidente del Consiglio regionale. «In cambio del sostegno elettorale promesso ed attuato da parte del sodalizio», secondo l’accusa il politico di Forza Italia ha garantito alla cosca «le condizioni per l’avvio prima e l’effettivo esercizio poi dell’attività imprenditoriale della distribuzione all’ingrosso dei prodotti farmaceutici».

Tallini, è scritto sempre nell’ordinanza, è intervenuto per «agevolare e accelerare l’iter burocratico per il rilascio di necessarie autorizzazioni nella realizzazione del Consorzio Farma Italia e della società Farmaeko Srl». Inoltre, «imponeva l’assunzione e l’ingresso, quale consigliere, del proprio figlio Giuseppe, così da contribuire all’evoluzione dell’attività imprenditoriale del Consorzio farmaceutico, fornendo il suo contributo, nonché le sue competenze e le sue conoscenze anche nel procacciamento di farmacie da consorziare». In tal modo, si legge ancora nell’ordinanza, «rafforzava la capacità operativa del sodalizio nel controllo di attività economiche sul territorio, incrementando la percezione delle capacità di condizionamento e correlativamente di intimidazione del sodalizio, accrescendo la capacità operativa e il prestigio sociale e criminale».

«Insomma… l’investimento è per voi… mica lo facciamo per noi… no? Fino a mo’ ci abbiamo solo rimesso…però nonostante tutto… anche gratis… Mi devi spiegare meglio com’è impostato tutto il ragionamento», diceva a Domenico Scozzafava, «un formidabile portatore di voti» per il politico di Forza Italia finito ai domiciliari, ma anche uno «’ndranghetista fino al midollo», secondo la magistratura.

Ora al di là del profilo processuale rimane però un punto sostanziale: vogliamo occuparci di mafie, mica solo in Calabria? Vogliamo che ritornino nell’agenda della politica? O si aspettano sempre gli arresti, sempre. Anche perché le mafie intanto in questa disperazione stanno prosperando come non mai. E sarebbe il caso di accorgersene prima che ce lo dica la magistratura.

Buon venerdì.

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