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Insozzare la Liberazione

Ci sono molti modi di insozzare il 25 aprile, ognuno con il proprio stile ma tutti tesi (come un braccio teso) per svilire e in fondo per provare a non scontentare i fascisti. Siamo ancora al punto in cui almeno si vergognano di leccare spudoratamente i fascisti e quindi provano ad accarezzarli di sponda. Almeno questo.

Giorgia Meloni se la gioca (come era immaginabile) trasfigurando la libertà di andare al ristorante e mette in mezzo partigiani (senza citarli, sia mai) e lavoratori provando a innescare la solita guerra tra disperazioni: “La libertà, mentre la celebriamo, non è più scontata – scrive – a oltre 70 anni dall’inizio della nostra Repubblica democratica, e ad oltre un anno dall’inizio della pandemia, il governo ancora pensa di potersi arrogare il diritto di decidere se e quando gli italiani possano uscire di casa. Appello a tutti coloro che credono nel valore della libertà: aiutateci ad abolire il coprifuoco“. Insomma: il coprifuoco è il nuovo fascismo, dice Giorgia Meloni. Complimenti.

A ruota arriva Salvini, che ormai è una Meloni in versione analcolica. Pubblica un video sui suoi social e urla: “Noi, donne e uomini liberi d’Italia, chiediamo la cancellazione dell’insensato COPRIFUOCO e la riapertura di TUTTE le attività nelle zone (gialle o bianche) in cui il virus sia sotto controllo’. Al momento le adesioni sono 7.750. Nel video pubblicato sul web, Salvini aggiunge: “Se saremo 10mila è un conto, se saremo 100mila o un milione… Oggi è la giornata della Liberazione. Io e la Lega daremo l’anima dentro al governo, perché le le battaglie si combattono stando dentro e non uscendo o scappando, cercando di limitare la prepotenza di chi vede solo rosso, divieti, chiusure e coprifuoco”. Insomma, una Giorgia Meloni al maschile con la differenza che lui sta al governo con quelli che vorrebbe pugnacemente combattere. Un eroe.

Pietro Ichino prova a allargare il campo riuscendoci male: “La Festa della Liberazione non può ridursi a un’acritica celebrazione dell’epopea partigiana: deve essere anche occasione per riflettere sulle responsabilità delle forze antifasciste nell’avvento della dittatura”. Benissimo: poi scriviamo un saggio sulla colpa degli ebrei che la Shoah se la sono andata a cercare.

Il sindaco di Codogno Francesco Passerini dimostra di essere più pandemico della pandemia rifiutando di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini con motivazioni che fanno spavento: “Codogno diede l’onoreficenza a Mussolini nel 1924, fu una iniziativa nazionale dell’Anci del tempo. E’ un atto storico, come quando Napoleone ha dormito a Codogno e poi andò a Lodi a far guerra. Non è che poi è venuto giù il palazzo dove dormì. Abbiamo anche alcune strutture che ricordano il periodo fascista, come Villa Biancardi che è ancora lì. E per fortuna. Non si può pensare di cancellare e demolire tutto perché costruito da una parte della storia ‘particolare’”. Insomma erano particolari, mica fascisti.

Fenomenale anche il sindaco di Salò: “Dopo la caduta del Fascismo – dice all’opposizione che chiedeva simbolicamente di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini – sui banchi dove state ora accomodati, si sono seduti uomini che di antifascismo e lotta partigiana potevano sicuramente fregiarsi di sapere tanto, tanto più di Voi, e di Noi, avendo fatto parte personalmente di quella lotta, avendoci messo la faccia e, avendo spesso, rischiato la vita per gli ideali in cui credevano. Eppure queste persone non si posero, allora, il problema della Cittadinanza onoraria”. Insomma: se non l’hanno fatto gli altri io mi sento assolto.

Sceglie la linea del banalissimo e goffo provocatore anche il professore universitario Riccardo Puglisi, star presso se stesso su Twitter, che ci butta un po’ di liberismo d’accatto: “Mi sembra di capire che parecchi partigiani comunisti volessero passare direttamente dalla liberazione alla dittatura del proletariato”. Che spessore, ma dai.

Infine lui, Renzi: “Oggi è festa di libertà. Memoria di chi ha combattuto per salvarci, impegno per il futuro. Rileggere oggi le lettere dei condannati a morte della resistenza commuove e spalanca l’anima”. Non è festa di libertà ma festa della Liberazione dal nazifascismo, ma figurati se riesce a dirlo. E scrive “resistenza” in minuscolo, genio. Però la festa della libertà, se gli può interessare, si festeggia proprio domani in Sudafrica. Sempre che non abbia impegni dal principe saudita.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Ricordati di ricordare

shoah11La Giornata della Memoria significa ricordare che le vittime sono stati un numero impensabile: 6 milioni di ebrei, da 3 a 6 milioni di civili slavi, da 2 a 4 milioni di prigionieri di guerra, da 1 a 1milione e mezzo di dissidenti, 200-800 mila tra rom e sinti, 300 mila disabili, da 10 mila a 250 mila omosessuali, 2 mila Testimoni di Geova.

Per me significa ricordarmi di una donna che intervistai nel ’95 e che mi disse di essersi sentita male vedendo alla Tv Erich Priebke. Si chiamava Enrichetta Comincioli e in Priebke che scendeva dalla scaletta dell’aereo dopo l’estradizione dall’Argentina aveva riconosciuto il suo aguzzino, il capitano delle SS (ancora oggi incapace di pentirsi) che nel ’44 la tenne prigioniera a Villa Brignetti, a Brescia, prima di mandarla, dopo giorni di torture, a Ravensbruck, numero 49556… fame, freddo, pidocchi, corrente elettrica nel filo spinato, forni crematori… E significa ricordare gli orrori di quell’Ante Pavelic che a Curzio Malaparte mostrò un paniere di vimini e che alla domanda se erano ostriche disse: “E’ un regalo dei miei fedeli ustascia: sono venti chili di occhi umani” (da Kaput).

(Francesco Lo Piccolo, qui)

Nonna, tu sei il mare, io sono un’onda

Nella melma degli articoli d’agosto una splendida Liliana Segre raccontata da Alessia Rastelli su Il Corriere della Sera:

«So cos’è, mi disse vedendo il tatuaggio sul mio braccio. E io mi sentii capita, senza bisogno di dire niente». È il primo incontro di Liliana Segre – ebrea sopravvissuta ad Auschwitz, – con Alfredo. «L’uomo che poi è diventato mio marito – racconta -. E senza il quale, forse, sarei diventata una di quelle donne che entrano ed escono dai manicomi, considerate “strane” dalle loro stesse famiglie».

Nei primi tempi del matrimonio ma anche negli anni successivi, quando l’entusiasmo e la felicità di giovane sposa non sono più bastati a ovattare gli echi di un passato con cui fare i conti. Parla di una depressione molto forte, la Segre, quando aveva 46 anni e perse l’anziana nonna, ultimo legame con la famiglia distrutta. Poi, intorno ai 60 anni, la consapevolezza di non avere ancora «fatto il proprio dovere» e la scelta di diventare una testimone della Shoah.

«Quando lo comunicai ad Alfredo si preoccupò che per me fosse troppo doloroso. Ma mi appoggiò» ricorda Liliana. «Da allora – prosegue – ho girato centinaia di scuole e parlato a migliaia di studenti. Ogni volta mio marito mi aspettava a casa e mi chiedeva “Come è andata amore mio?”. E io varcavo la soglia e riuscivo a lasciare tutto fuori. Da quando è morto, invece, quattro anni fa, è molto più difficile rientrare e rimanere da sola con i miei fantasmi».
Resta quello che con Alfredo ha costruito. «Siamo stati una famiglia, abbiamo auto tre meravigliosi figli e tre nipoti» dice Liliana, ancora a Pesaro in questa estate di oltre sessant’anni dopo. Insieme con lei c’è Filippo, il più piccolo dei nipoti, di otto anni. «Pochi giorni fa – racconta la Segre – mi ha detto: “Nonna, tu sei il mare, io sono un’onda”. Allora penso che non avrei potuto chiedere di più. E che, nonostante Auschwitz, alla fine ha vinto la vita».

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