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Sicurezza

Scuole: senza manutenzione una su 4 e solo il 27% adeguato sismicamente

Quanto è sicura, accessibile, «sana» la scuola dei vostri figli? Nonostante la «vera svolta» dichiarata dal ministro Valeria Fedeli (nove miliardi, tra soldi già spesi e altri impegnati per il futuro), l’elenco delle magagne è ancora lunghissimo. Riassunto puntualmente, come ogni anno, da Cittadinanzattiva, associazione nazionale dei consumatori.

Il rapporto

Nel XV Rapporto sulla sicurezza delle scuole presentato oggi a Roma, si legge che più della metà degli edifici scolastici italiani si trova in una zona sismica (54%), ma solo sul 27% degli istituti è stata verificata la vulnerabilità sismica (obbligatoria dal 2013). Una scuola su quattro (23%) ha una manutenzione inadeguata e solo il 3% è in ottimo stato. Circa un quarto di aule, bagni, palestre e corridoi presenta distacchi di intonaco, mentre segni di fatiscenza, come muffe e infiltrazioni, si riscontrano nel 37% delle palestre, nel 30% delle aule, nel 28% dei corridoi, nel 24% dei bagni. Gli impianti elettrici sono completamente a norma in meno di un’aula su quattro. Ventotto scuole su cento sono senza palestra. Il cortile c’è nell’88% delle scuole monitorate, ma quasi in un caso su tre (30%) è usato come parcheggio da personale e famiglie; in un caso su quattro, invece, presenta ingombri o rifiuti (23%) o aree verdi degradate (24%). Metà dei bagni (47%) è privo di carta igienica; nel 64% manca il sapone e nel 77% qualsiasi tipo di asciugamano. Una scuola su cinque (19%) risulta priva di bagni per disabili. Assenti anche le porte anti panico.

Più vandalismo

Aumentano anche gli atti di vandalismo, per lo più a opera di soggetti esterni: a subirli è stato il 28% degli istituti. Una scuola su 5 (19%) ha invece registrato episodi di bullismo. D’altronde, dicono gli esperti, persiste la cattiva abitudine di lasciare i cancelli aperti (45%) durante l’orario scolastico. E per finire, nell’11% delle scuole non è stato trovato alcun cartello che segnalasse il divieto di fumo.

L’indagine

L’analisi di Cittadinanzattiva fa il punto su sicurezza, qualità e accessibilità delle scuole italiane raccogliendo informazioni su 75 edifici scolastici di 10 regioni e aggiungendo i dati ricavati, per la prima volta, tramite l’istanza di accesso civico inviata dalla onlus in 2.821 Comuni e Province, relativi a 4.401 edifici scolastici di 18 regioni. Un lavoro finalizzato ad ottenere un quadro più aggiornato rispetto alla sicurezza strutturale e sismica degli istituti scolastici e dare informazioni dettagliate sulle certificazioni e gli investimenti degli Enti locali.

Gli interventi

«Molto è stato fatto dal 2015 ad oggi sull’edilizia scolastica da parte del governo, ma non si può ancora parlare di un’inversione di tendenza», afferma Adriana Bizzarri, coordinatrice nazionale scuola di Cittadinanzattiva. D’altronde, dice l’indagine, l’87% dei dirigenti o dei responsabili del servizio di protezione e prevenzione ha chiesto interventi manutentivi all’ente proprietario, ma in un caso su cinque non sono stati effettuati. Oppure sono stati portati a termine con qualche ritardo (43%). Una scuola su quattro ha chiesto interventi strutturali, mai effettuati (74%) o effettuati con ritardo (21%).

Occorrono dieci anni

La conclusione della onlus? «Occorre proseguire per almeno un decennio in questo titanico impegno, offrendo certezze a Comuni e Province circa la continuità nell’erogazione dei fondi – , afferma Bizzarri -. Occorre lavorare molto sulle amministrazioni pubbliche, affinché rendano davvero accessibili e trasparenti dati di interesse pubblico come quello sulla sicurezza delle scuole; sui tanti (80%) che non hanno risposto, è necessario fare un lavoro culturale e di formazione perché considerino i cittadini una risorsa e non un intralcio».

(fonte)

Il pugno di Minniti?

Da leggere (e meditare) l’articolo di Francesco Anfossi:

Dicono che Marco Minniti stia lavorando per diventare il prossimo premier. Il vento contro i migranti sembra avergliene dato l’ occasione e anche i sondaggi lo danno in testa nelle classifiche di gradimento dei ministri, subito dopo lo stesso premier Gentiloni. Fatto sta che è indubbiamente Minniti ad aver spostato l’ asse politico del Governo sugli immigrati. Ha cominciato a imporre un codice per le Ong che soccorrevano i naufraghi, imponendo polizia armata a bordo e negando il trasbordo da una nave all’ altra. Il risultato è stato quello di allontanare le navi delle organizzazioni umanitarie dal Mediterraneo e di aver contribuito alla più grossa campagna di screditamento delle Ong mai subita nella loro storia. Il resto lo ha fatto Matteo Renzi, decretando il “de profundis” per lo “ius culturae”, che riconosceva la cittadinanza ai minori figli di immigrati residenti da almeno cinque anni dopo che avevano frequentato almeno un ciclo di studi, tra gli applausi di Alfano. Non c’ è più tempo per la politica alta e per l’integrazione, siamo in campagna elettorale.

«Governare i flussi migratori non è un optional, è un tema centrale per la nostra sicurezza. Per la nostra democrazia», ha detto Minniti imperturbabile nel tradizionale incontro ferragostano con i giornalisti. Il punto è come governarli. A manganellate, come chiede l’uomo della strada e la suburra digitale di Facebook? Finora è questa la risposta del Governo. Piace il suo piglio pragmatico, la sua faccia di duro, persino il suo passato di vecchio comunista: «Quando ero nella sede del Pci in Calabria avevo attaccato fuori un cartello: “Qui si lavora e non si fa politica”. Volete farmela fare adesso?». Ha citato il suo maestro di gioventù, Antonio Gramsci: «Il compito di una classe dirigente non è quello di mantenere la propria posizione per il proprio controllo della società ma per il proprio superamento». Legge e ordine, insomma, non è stato anche il motto di Blair?

Il problema è che Minniti sta alzando un po’ troppo l’ asticella dell’ ordine. A Roma si sono viste scene di guerriglia urbana degne del Venezuela nei confronti di un gruppo di rifugiati politici: uomini donne, vecchi, bambini e persino portatori di handicap che sono scappati dalla guerra. Tutti con i documenti in regola, titolari dello status di rifugiato. Occupavano da 4 anni un palazzo di via Curtatone ed erano stati sgomberati. Poliziotti in assetto antisommossa hanno usato gli idranti e si sono messi a manganellare per liberare la piazza da un centinaio di loro, tra cui numerose donne in lacrime, alcune delle quali inginocchiate con le braccia alzate. Uno spettacolo indegno per una democrazia, che ha suscitato le proteste di Amnesty International e dell’ Unicef per come sono stati portati via i bambini sui pullman della polizia. Nemmeno il governo dei respingimenti di Berlusconi, che pure si era ritrovato una condanna della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, si era mai spinto fino a questo punto.

Non sappiamo se andrà avanti così fino alla fine della campagna elettorale. Non sappiamo nemmeno se la nuova politica contro gli immigrati sarà premiante in termini di consenso elettorale per il Partito democratico (a quel punto tanto vale andare all’ originale, Lega Nord e grillini in primis). Sappiamo però che questo pomeriggio si è scritta una pagina nera per la democrazia. Nera o rossa, che poi è lo stesso: comunismo e fascismo sono due totalitarismi contigui, in fondo. Questo Gramsci lo sapeva benissimo.

(fonte)

Metti che un giorno l’Italia sia guerrafondaia e filonucleare: giocare d’anticipo, stavolta

Lo scorso ottobre durante una riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che trattava di disarmo e questioni di sicurezza internazionale, 123 nazioni hanno votato a favore della Risoluzione L.41,  mentre 38 (compresa l’Italia) hanno votato contro e ci sono stati 16 Paesi astenuti. La risoluzione votata (la trovate qui) si proponeva di fissare una conferenza programmatica di tutti gli Stati membri per individuare uno “strumento giuridicamente vincolante per vietare le armi nucleari, che porti verso la loro eliminazione totale”.

Il voto contrario dell’Italia (a braccetto con gli USA) scatenò nei mesi scorsi un folto coro di polemiche indignate. Brevi e postume, come al solito. Ovviamente. Fu piuttosto triste assistere anche al malcelato silenzio (o al massimo qualche editorialino sdraiato) da parte di una certa stampa che di quei tempi (era ottobre ma sembra un secolo fa) aveva la preoccupazione di non disturbare il manovratore Renzi.

E non fu un errore o una decisione presa d’improvviso: quel voto è avvenuto dopo una chiara risoluzione del Parlamento Europeo che invitava tutti gli Stati membri Ue a partecipare in modo costruttivo ai negoziati ma nemmeno questo era bastato.

(continua su Left)

La bufala della sicurezza a Milano spiegata (bene) da Piero Colaprico

(Piero Colaprico, da Repubblica, qui)

“Milano trema”. Ma dove ballavano i ben oliati kalashnikov, con le loro raffiche, e persino i bazooka della ‘ndrangheta, adesso lampeggiano i coltelli a buon mercato. Chi conosce i poliziotti e i carabinieri di strada sa che anche la loro paura nel tempo è radicalmente cambiata. Quando negli anni Ottanta inseguivano qualcuno, lungo le strade buie delle periferie di Milano, il pensiero comune era: “E se questo è armato?”.

Oggi si domandano un’altra cosa: “E se fosse malato?”. Si è passati dai placcaggi in stile rugby alle perquisizioni con i guanti da chirurgo.

Allora, ai tempi di criminali stra-conosciuti, come Francis Turatello, Renato Vallanzasca e Rossano Cochis; Epaminonda detto il Tebano con i suoi killer chiamati “gli indiani” per la ferocia dei delitti; ai tempi delle rapine dei terroristi rossi e neri, i morti ammazzati si contavano letteralmente a centinaia, ma Milano – lo ricorderà chi c’era – reggeva l’urto e, se era il caso, si mobilitava. Adesso, che si registrano tra i dieci e i venti omicidi l’anno, invoca l’esercito e si barrica in casa: “Milano trema” nonostante vittime e carnefici siano quasi sempre non i cittadini comuni, ma i senzacasa, i disperati, gli immigrati all’arrembaggio, quelli che hanno organizzato, al massimo, traffici da poche migliaia di euro. Questi assassini? Li arrestano quasi tutti. Le sezioni Omicidi qui funzionano con numeri da record: “fanno scuola”.

E, per capirci sino in fondo, dove c’erano le inchieste difficili, per esempio, sugli altezzosi boss della Comasina, e sui loro agguati tragici e spettacolari, costati undici morti solo nell’ultima faida metropolitana, “vinta ” dai fratelli Flachi negli anni ’90, adesso esiste un piano di sicurezza integrata. Prevede telecamere accese e sala operativa unica. Ha portato all’immediato arresto dei giovani filippini dell’altra sera, gli ultimi a finire nei telegiornali sotto la voce “allarme sicurezza”. Ragazzi, bisogna precisarlo, che hanno aggredito e ferito non per la droga, o per la supremazia da delirio delle bande. Ma solo perché altri filippini non sono arretrati. Hanno difeso il loro ballo proletario, sotto le luci fredde del Palazzo della Regione. Tentato, insomma, di salvaguardare una festa in strada: l’unica possibile, in questa costosa capitale morale, se non si hanno i venti euro d’ingresso per le discoteche, o la macchina, per inoltrarsi tra il dedalo dei capannoni industriali, riadattati e con security nerovestita, di via Scalarini, l'”ultima location”.

La stessa matematica, scienza di solito rispettata, era ed è categorica sui reati: quest’anno siamo scesi ancora, attestandoci a quota, sinora, 105mila “delitti in totale”. Cioè, abbiamo di fronte a noi milanesi numeri decisamente crollati rispetto ai 152mila reati del 2015; e diminuiti dai 162 mila del 2014. Il “meno 36 per cento dei reati a Milano in dieci anni”, viene assicurato dal ministero dell’Interno.

Il prefetto Alessandro Marangoni ha avuto un’immagine efficace per inquadrare la cosiddetta paura percepita: “Ci si sente con la spada di Damocle che ci cade sul collo, invece questa spada si allontana sempre più, non ci colpirà così facilmente, ma “ci crediamo” lo stesso”, dice, con chiara amarezza. Se c’è una città che gli dà ragione, ed è molto probabilmente la Milano che ha studiato di più, che conosce e pratica il volontariato, che ha relazioni sociali valide ed è meno povera, ce n’è anche un’altra che “trema”. E che rivendica un’inquietudine diventata un diritto, e non è più un deficit, sentendosi sostenuta dai politici che ribadiscono e rilanciano allarmi stentorei a ogni avvenimento criminale.

Sì, Milano sarà “ringiovanita “, grazie ai giovani universitari, all’uno su quattro di loro che resta qui, e ai nuovi lavori nati con il web. Ma – non scordiamolo – ci sono 90mila e 947 uomini e 115mila 78 donne (censimento del 2011) che hanno settant’anni o più: praticamente un abitante su sei è anziano e non lavora. Non solo: tutti i reati calano, è vero, ma i furti “reggono “. Chi non ha la porta blindata (e sono tanti), chi vive nelle zone ad alta densità di case occupate (almeno 200mila concittadini), si sente oggettivamente “a rischio”.

Anche le violenze sessuali, per quanto diminuite, per quanto avvengano nella stragrande maggioranza dei casi – e va sottolineato anche questo – tra conoscenti, o dentro le mura delle case (di famiglie-prigione) – oscillano sempre tra le 300 e le 250 denunce l’anno. Numeri e storie tali da impensierire chiunque al minimo ritardo.

Esiste dunque una fascia di persone per le quali le truffe e le frodi informatiche, in costante aumento, in media una ventina al giorno, sono faccende esotiche. Viceversa, una rissa in un bar rumoroso fa temere il peggio. E, a proposito di locali, resta sospesa “la” domanda cruciale: ma come può “tremare” davvero una metropoli che ieri sera, come ogni sabato, vede tra le 200 e le 300mila persone a zonzo lungo i quartieri della nightlife e degli aperitivi?

Sembra esistere una “malattia della paura percepita”: difficile pensare che dove lavorano, tra forze di polizia e vigili, quasi 15mila unità, come antidoto bastino 650 soldati e, come d’incanto, sul far della periferica sera, torni nei cuori il sereno.

Bravi, mi raccomando: un esercito in ogni cantone

Ma vi ricordate come si accartocciavano indignati ogni volta che qualche leghista o destrorso a Milano invocava l’esercito per garantire la sicurezza in città? Vi ricordate i dibattiti sulle ronde, sulla strumentalizzazione della paura, sulla Lega che proponeva soluzioni militari perché incapace di elaborare soluzioni politiche? Bene, non vale già niente, sappiatelo. Anche in questo campo si cambia verso tornando indietro.

Così mentre il sindaco Beppe Sala invoca l’esercito in via Padova succede che Salvini abbia la soddisfazione di notare come la sinistra arrivi «sempre troppo tardi sulle nostre stesse soluzioni» mentre il parlamentare milanese Fiano (Pd) dichiara di essere «sempre stato contro l’esercito ma ora ho cambiato idea», dalla Regione Lombardia i democratici (insieme ai compagni di Ambrosoli) dichiarano che è una «scelta di buon senso» e che l’esercito «è un deterrente», Stefano Boeri dice che «l’esercito è una dimostrazione di attenzione verso i cittadini» e così via in una serie di dichiarazioni di questo tenore.

La nuova regola è “se diciamo noi le cazzate degli altri allora vale”. E chissà cosa ne pensano quei democratici che provarono ad avanzare la stessa proposta tempo addietro e vennero additati di fascismo (Penati, ad esempio). Ma la nuova linea porta con sé un messaggio ancora più sottile: l’esercito non serve ma non riusciamo a farlo capire e allora mettiamo l’esercito. Si chiama arrendevolezza arraffaconsensi: è lo stesso vizio dei populisti anche se qui viene articolato come se fosse davvero una cosa seria.

Così nel grigio della giornata alla fine splende il pensiero diamantino di uno che la sicurezza la studia per professione: Roberto Cornelli è professore di criminologia, ex sindaco e dirigente del Partito democratico e sul suo profilo Facebook scrive che si può «provare a reagire alle emergenze con progetti strutturati ed evitando di ricorrere sempre e solo a “sedativi sociali”, tanto facili quanto spesso inefficaci».

Per chi fatica a intendere aggiunge anche una postilla:

«Sintesi per la stampa: la richiesta dell’esercito è un sedativo sociale, in grado di rassicurare sul brevissimo periodo e a dosi minime (se non diventa cioè una richiesta ricorrente). Per il resto (per ridurre la violenza o assicurare alla giustizia gli autori) serve a ben poco. Può essere addirittura dannoso se concepito come LA soluzione.»

E si torna a respirare. Per fortuna. In tempi di cialtroneria il buonsenso diventa una vetta altissima, del resto.

(il mio buongiorno per Left è qui)

L’esercito in citta? «è un sedativo sociale, in grado di rassicurare sul brevissimo periodo e a dosi minime»

Persone di cui tenere il nome in tasca: Roberto Cornelli, professore di Criminologia, ex sindaco di Cormano e ex Segretario di Milano Città Metropolitana per il PD. Ecco cosa scrive sulla questione milanese (di eserciti, violenza e tutto il resto):

«Un’avvertenza in premessa: sono discorsi difficili, forse non adeguati al mezzo che sto usando. Ma se non si prova a farli anche qui (oltre che nelle aule universitarie e nelle sedi scientifiche internazionali) temo che si perda un’occasione. 

Nelle metropoli talvolta capita che ci si uccida, all’incrocio di una strada come tra i muri di casa. A Milano capita molto più raramente che in altre metropoli d’Europa e del mondo. Ma quando capita la tragedia irrompe, travolgendo chi ne è coinvolto, i familiari, gli amici e la società intera, che rimane scossa dalla propria vulnerabilità e per la propria impotenza.
Che fare? Innanzitutto, ci si deve capire qualcosa di ciò che sta accadendo, e la tragedia, per essere comprensibile, deve avere un senso rispetto alla vita che quotidianamente conduciamo.
Ma che senso può avere per tutti noi l’uccisione di un uomo ad opera di un altro uomo?
Sono convinto che un omicidio che accade sia capace di scuotere profondamente le nostre fondamenta sociali, riportandoci ogni volta a temere ciascun altro come un potenziale nemico. Da qui la ricorrente richiesta di aumentare le protezioni, di moltiplicare i presidi di controllo, di militarizzare il territorio, di ritenere sicuro solo il mio spazio personale privatizzato.
Sono convinto però che un omicidio che accade possa spingerci anche a riflettere sul fatto che nella storia, quella vicina e quella lontana, gli uomini hanno smesso di uccidersi tra loro quando hanno iniziato a collaborare e, collaborando, a imparare sempre nuove modalità di relazionarsi con gli altri che prescindessero dall’uso della violenza. E’ un po’ come quando i bambini in età prescolare apprendono a convivere senza aggredirsi fisicamente, con drammi e fatiche immense (loro e di quelli che stanno loro intorno), e alla fine moltissimi ce la fanno. Gli uomini hanno iniziato a uccidersi sempre meno tra loro quando hanno imparato a stare in società quando gli atteggiamenti che hanno adottato e le istituzioni che si sono dati hanno potenziato il rispetto reciproco (non a caso nelle democrazie consolidate il tasso di omicidi è mediamente più basso).
Così, l’omicidio che accade entra in un’altra trama di significati, in cui proprio la paura di ripiombare in società violente ci spinge a ridare valore a un progetto di società che vede nell’affermazione della dignità di ogni persona un ancoraggio saldo per evitare che le tragedie diventino normalità.
Evidentemente non ho parlato di politiche di sicurezza, ma ritengo che sia proprio a partire da questa opzione culturale che si possa provare a reagire alle emergenze con progetti strutturati ed evitando di ricorrere sempre e solo a “sedativi sociali”, tanto facili quanto spesso inefficaci.

Sintesi per la stampa: la richiesta dell’esercito è un sedativo sociale, in grado di rassicurare sul brevissimo periodo e a dosi minime (se non diventa cioè una richiesta ricorrente). Per il resto (per ridurre la violenza o assicurare alla giustizia gli autori) serve a ben poco. Può essere addirittura dannoso se concepito come LA soluzione.»

 

Limitare la durata delle nomine a due anni è un’ottima idea

gigliomagico

Non sono renziano, tutt’altro, ma davvero non capisco cosa ci si possa trovare di sbagliato nel fatto che il governo abbia voluto limitare i nuovi dirigenti del reparto dell Sicurezza a solo due anni di mandato. Dice, Renzi, che gli sembra corretto non prendere decisioni che riguardino anche i governi che verrano. E io trovo che sia una scelta giusta. Perché se è vero che ormai è conclamato lo spoil system in tutti i comparti (sanità, consulenti, sicurezza e molto altro) la scelta del Consiglio dei Ministri mi sembra intellettualmente onesta. Tutto qui.

Completamente diverso il discorso su Carrai: se davvero Renzi ha pensato che bastasse fare posare la polvere per riproporre la folle idea di un “amicone” con un ruolo nevralgico nei servizi segreti è stato (eufemisticamente) ingenuo. E, stando alle indiscrezioni, sembra che Mattarella questa volta (finalmente) abbia deciso di tenere il punto e bene ha fatto a chiedere a Renzi di farne al massimo un consulente della Presidenza del Consiglio. E anche la vicenda Carrai testimonia perfettamente come la meritocrazia di questi tempi si calcoli in base alla fiorentinità e alla vicinanza con il premier. E questo non è un bello spettacolo. Proprio no.

La sicurezza per i volti noti della tv e dei giornali. Ne parla il giudice Piergiorgio Morosini.

scorta-in-Italia“Il problema della sicurezza non è solo un problema di tutela di alcuni volti noti, perché conosciuti anche in tv o sui giornali. Bisogna proteggere tutti. Bisogna mettere tutti in condizione di potere fare il proprio dovere con serenità. Le istituzioni preposte alla sicurezza non possono credere di assolvere al loro compito tutelando solo alcuni”. Lo ha detto il giudice Piergiorgio Morosini, componente del Csm, intervenendo a Palermo all’assemblea dei magistrati e degli avvocati convocata dopo i fatti di Milano. “Questo è un tema che viene sollevato a Palermo ormai da anni ma è un problema che riguarda l’intera realtà nazionale – dice – perché la nostra sicurezza ela nostra serenità non sono privilegi, ma presupposti affinché possiamo rendere un servizio degno di un paese civile a tutti i cittadini che chiedono giustizia. Noi tutti, con gli avvocati e il personale di cancelleria, dobbiamo pretendere rispetto e volontà di dialogo dei nostri interlocutori istituzionali. E il Csm ha un ruolo importante”.

“Ma come fa la sicurezza a essere una priorità se noi per tanti anni abbiamo sentito di giudici politicizzati e negli ultimi tempi il jingle e cambiato e sentiamo parlare di fannulloni e irresponsabili?”, denuncia Morosini.

(fonte)

Chi ha ucciso Marco Biagi?

In questi giorni al di là delle abitudini sentimentali di Scajola sono le parole e i fatti sulla mancata scorta a Marco Biagi che fanno impallidire:

Marina Orlandi, ha spiegato l’avvocato della famiglia, Guido Magnisi, “come ha sempre fatto, ha portato tutti gli elementi di cui è a conoscenza e segue fiduciosa gli sviluppi dell’inchiesta”. Da quanto appreso, la moglie di Biagi non ha consegnato agli inquirenti nuova documentazione.

Orlandi, da sempre riservata, interruppe il proprio silenzio soltanto a dieci anni dall’omicidio.”Era stato abbandonato dalla polizia, dallo Stato che gli tolse la scorta proprio nel momento in cui era piùesposto. Era stato sbeffeggiato da chi avrebbe dovuto proteggerlo”, disse. E raccontò lapreoccupazione del marito e di conseguenza la propria. Ricordò una sera in cui Biagi andò al telefono per rispondere: “Lo vidi impallidire, dopo poco mise giù la cornetta. Gli chiesi: ‘Ma chi era?’, e lui cercò di minimizzare, ma era troppo turbato. Io insistetti. E allora mi disse che lo avevano minacciato, che era una delle brutte telefonate che riceveva in quel periodo”.

Raccontò anche del 20 maggio 1999, giorno dell’omicidio di Massimo D’Antona, a Roma, commesso dalle Nuove Brigate Rosse. Quello stesso giorno Biagi era nella Capitale: “Lo chiamai supplicandolo di tornare. Mi disse che sarebbe rimasto altri due giorni perché doveva finire il lavoro di D’Antona. Da quella sera ho cominciato a temere per la sua vita”. Eppure rimase senza scorta: “E io che posso fare? – mi disse Marco -. La scorta non me la danno”. Sui motivi e sulle responsabilità proprio di questa decisione, i pm stanno cercando di far luce.