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La subpolitica

Pieter_Bruegel_d._Ä._010Più che di antipolitica, ci troviamo spesso di fronte a forme nuove di pratica politica in un contesto di democrazia mutato, proprio perché non più mediato dai partiti. Smetterei di usare il termine in modo spregiativo, perché rischiamo di non capire nulla rispetto ai processi in atto. Subpolitica è invece un concetto introdotto da Ulrich Beck, non per sminuire il valore di quest’altra politica, ma per sottolinearne il carattere basilare. [..]

Diciamocelo sinceramente, se vogliamo andare al di là degli aspetti della cronaca e della statistica, dobbiamo ammettere che la crisi dei partiti si inserisce in una più generale crisi dell’Occidente, che è poi crisi del nostro stile di vita. Crisi epocale che attraversa tutti i livelli, arrivando persino a lambire persino la Chiesa. Una crisi che – mi e vi chiedo – non ha forse a che fare con questo cedimento strutturale dei meccanismi di produzione di senso condiviso? Si sono inceppati i meccanismi di produzione di un noi,  nel passaggio dalla solitudine di un “io” a alla condivisione di un “noi”. Un’apocalisse del senso che rende vuoti tutti i troni, da quelli secolari fino a quelli spirituali. I luoghi si sono dissolti nei flussi. È un horror vacui, quello che ci coglie. Proprio perché si avverte che la rottura di questi meccanismi di produzione di un senso condiviso ricade in termini di una conflittualità molecolare. Non ci sono più conflitti che organizzano il campo, ma una diffusa competitività aggressiva che rende inoperanti tutti i meccanismi di decisione collettiva e ha colpito, in particolare, i partiti. Ma non solo i partiti. Non è diverso per i sindacati, non è diverso per le imprese e non è diverso per la Chiesa. 

(Marco Revelli, Democrazia senza partiti, Communitas, 24/03/13).

 

Da Bologna una lettera sul lavoro

Mi scrive il circolo bolognese “Gianmaria Volontè” dedicato al tema del lavoro, dei saperi e delle identità. Scrivono con entusiasmo e lucidità del Governo che con un colpo di spugna di democrazia e civiltà vuole spazzare via le organizzazioni sindacali per attaccare direttamente il cuore della contrattazione collettiva e quindi renderci tutti sempre più soli di fronte ai nostri futuri.

Egregio Presidente del Consiglio,
Egregia Ministro,Vi scriviamo questa lettera, riservandoVi tutto il rispetto che meritate, per spiegare le ragioni del nostro disaccordo con le Vostre idee in merito alla riforma del mercato del lavoro oggi in discussione.

Ci sono due elementi che ci accomunano, distinguendoci, al contempo, da Voi: in primo luogo, molti di noi sono stati democraticamente eletti e, più in generare, per i ruoli e le funzioni che svolgiamo, pensiamo di rappresentare alcune migliaia di donne e uomini della nostra generazione. In secondo luogo, tutte e tutti noi siamo nati dopo il 20 maggio del 1970, sicché crediamo di poterci definire, a conti fatti, “giovani”. La scelta di porre il discrimine alla data di entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori è, con ogni evidenza, arbitraria e simbolica, ma costituisce la sola, piccola, libertà che ci concediamo, in questo scritto: per il resto, tenteremo di essere rigorosi, senza però rinunciare a esprimere un punto di vista.

Oggi non vogliamo dar conto delle mille difficoltà di una generazione – che oramai è più d’una – ben “rappresentata” (sul piano dellarappresentazione), pur essendo assai poco rappresentata (sul piano dellarappresentanza). Vogliamo concentrarci non sui problemi, ma sulle soluzioni, poiché quelle che immaginate ci paiono sbagliate, inefficaci e controproducenti.Avete detto a più riprese che ai tavoli di discussione sulla riforma, nessuno ci rappresenta. Sicché, forse in perfetta buona fede, avete dichiarato di volerla comunque portare a compimento, in nostro nome. Eppure c’è un problema di coerenza tra mezzi e fini.

Vi ponete l’obbiettivo di ridurre il dualismo del mercato del lavoro e contrastare il fenomeno della precarietà, favorendo l’occupazione delle fasce più deboli della popolazione, e in particolare dei giovani. Al contempo, intendete rivedere il sistema degli ammortizzatori sociali, generalizzando le forme di sostegno al reddito sì da coinvolgere i molti soggetti che ne sono, all’oggi, sprovvisti.

Ci sentiamo di condividere questi obbiettivi, ma riteniamo inadeguate le misure che state predisponendo per raggiungerli. L’aspetto meno sensato del Vostro disegno riguarda il tema della c.d. flessibilità in uscita e, più in particolare, la connessione che stabilite tra le misure in cantiere e la riforma del sistema degli ammortizzatori sociali. Secondo la Vostra idea gli imprenditori sarebbero restii ad assumere nuovi lavoratori per la difficoltà che potrebbero incontrare al momento del licenziamento. Quindi per favorire l’occupazione dei giovani – intesa come porta d’accesso alla cittadinanza sociale – andrebbero rese più flessibili le regole sui licenziamenti.

Il limite di questo ragionamento sta nel considerare aspetto marginale della cittadinanza sociale la stabilità dei rapporti di lavoro, incarnata, in Italia, dall’art. 18. Ora, questa norma, diversamente da ciò che si dice o si lascia intendere, non impedisce affatto il licenziamento, ma si limita a prevederne l’inefficacia quando manchi una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo (e cioè attinente alla condotta del lavoratore) o oggettivo (e cioè attinente alla gestione dell’impresa da parte del datore di lavoro). La conseguenza prevista dall’art. 18 per i casi di licenziamento illegittimo è la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, ossia il più antico ed efficace dei rimedi contro gli abusi.

Una generazione che dimora da tempo nelle sacche della precarietà – esposta com’è al ricatto del mancato rinnovo di un contratto a termine, alla revoca improvvisa di un incarico di collaborazione a progetto o all’aleatorietà della committenza – ha chiaro il contenuto di questo diritto (pur non avendone quasi mai goduto, e forse proprio per questo!) quanto ce lo ha chiaro un operaio metalmeccanico della FIAT di Melfi: tale diritto è prezioso non soltanto al momento del licenziamento, ma anche e soprattutto durante il rapporto di lavoro, essendovi condizionato l’esercizio di ogni altro fondamentale diritto (sindacale, retributivo, alla professionalità, alla sicurezza sul lavoro ecc.). Questi diritti, anche se riconosciuti formalmente, resterebbero “muti” se il datore di lavoro potesse liberarsi di un lavoratore sgradito senza controllo sulla motivazione del licenziamento (soggettiva o economica che sia) e senza un efficace rimedio per i casi d’illegittimità.

Per questa ragione, siamo del tutto contrari all’abolizione dell’art. 18 e siamo altrettanto contrari a una sua esclusione o sospensione per i (soli) rapporti di lavoro dei giovani, perché ciò comporterebbe un’inaccettabile discriminazione. Questa soluzione, adottata in Francia nel 2006 con ilContrat Première Embauche, mandò letteralmente a fuoco il Quartiere Latino, tanto che il Governo francese si vide costretto a ritirarla, tra l’entusiasmo dei maggiori opinionisti europei e italiani. Stupisce che, nell’Italia di oggi, quel punto di vista sia così disinvoltamente sacrificato sull’altare dello spread.

Non ci persuade, poi, l’idea che le garanzie riconosciute ai lavoratori anziani siano causa delle difficoltà dei più giovani, e ancor meno ci convince la trovata del salvifico baratto tra diritti nel rapporto di lavoro e diritti nel mercato del lavoro (intesi come formazione, politiche attive e, soprattutto, forme di sostegno al reddito nei momenti di non-lavoro). Gli uni e gli altri sono complementari e non alternativi, per la semplice ragione che assolvono funzioni diverse, chiamando in causa soggetti e responsabilità di natura diversa: le tutele nel rapporto hanno a che fare con la sfera del potere privato, e sono orientate – come l’art. 18 – a riequilibrare un rapporto che è naturalmente asimmetrico; quelle nel mercato servono a proteggere i lavoratori (dipendenti o indipendenti che siano) dal rischio della mancanza del lavoro, e chiamano in causa anche i poteri pubblici. Che vi sia connessione anche con il tema dei licenziamenti è fuor di dubbio: con quellilegittimi, però, ossia provvisti di una giustificazione.

È mai possibile che si debba usare toni così didascalici per dire l’ovvio? È mai possibile che diritti di cui abbiamo assoluto bisogno, come misure di sostegno al reddito, universali e generalizzate, diventino merce di scambio per un calcolo improprio, a fattori disomogenei e a saldo sempre negativo per tutti? Verrebbe quasi da dubitare della tecnica dei tecnici, se non vi fosse un più grande paradosso: è mai possibile che, dieci anni or sono, per rendere fluido il (troppo rigido) mercato del lavoro italiano e innalzare il tasso d’occupazione la ricetta fosse “flessibilità flessibilità flessibilità”, mentre oggi che si deve superare il dualismo di quel mercato e ridurre la precarietà la ricetta migliore è… “flessibilità flessibilità flessibilità”? Ricordiamo il mantra degli anni ’90: “dateci flessibilità e l’occupazione salirà, i salari saliranno”. È sconcertante che nessuno chieda conto delle promesse mancate e delle soluzioni sbagliate che furono date a un problema che ora esplode in tutta la sua drammaticità.

A nessuno viene in mente che i diritti possano essere estesi oltre l’alveo delle imprese con più di quindici addetti, oltre il lavoro subordinato e, in parte, oltre il lavoro tout court?

Egregio Presidente, egregia Ministro, siamo disposti a discutere di tutto, purché si cerchino soluzioni vere a veri problemi. Se il 18 costa troppo, perché il processo dura troppo, non si tagli il giudice, si tagli il processo. Se la precarietà è una piaga, non ci si affondi il coltello, si curi la ferita. Se servono i soldi per garantire un sostegno al reddito, li si prenda dove sono, non dove sono sempre meno.

Con questa lettera intendiamo dirvi con chiarezza che non siamo disposti ad arruolarci per la guerra tra poveri. Noi diserteremo questa guerra. Ripensateci, finché siete in tempo. Se invece darete seguito alla “riforma” che avete sino ad oggi immaginato, non esiteremo a batterci, con tutta la forza che siamo in grado di mettere in campo, per una proposta diversa ed alternativa alla Vostra. E se, alla fine, voleste ugualmente dar seguito al vostro progetto, c’è qualcosa che ciascuno di noi ha il diritto di pretendere:not in my name, s’il vous plait.

P.S. Con il dovuto rispetto, siamo certi di un Vostro riscontro, posto che ad un giovane under 40 è stato sufficiente inviare un curriculum al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Catricalà per essere nominato Vice Ministro.