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slot machine

Finalmente. Arrestato il “re delle slot” Corallo (e c’entra anche un ex deputato e il cognato di Fini).

Dall’accumulazione illecita di decine di milioni di euro sottratti alle casse dello Stato all’acquisto della famosa casa di Montecarlo ereditata da Alleanza nazionale e venduta al cognato di Gianfranco Fini, passando per un decreto che si sospetta «comprato» per continuare a guadagnare soldi con la gestione dei videogiochi. E’ la trama scoperta dall’indagine della Procura di Roma e della Guardia di finanza che ha portato all’ordine di arresto per l’imprenditore Francesco Corallo, ribattezzato «re delle slot machine», l’ex deputato Amedeo Laboccetta e altre tre persone coinvolte nel presunto riciclaggio, condotta in collegamento con l’autorità giudiziaria olandese che ha competenza su una parte delle isole Antille.

La rete di società nei paradisi fiscali

Al centro dell’intrigo – secondo l’accusa sostenuta dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dal sostituto Barbara Sargenti, accolta dal giudice dell’indagine preliminare Simonetta D’Alessandro – , c’è proprio il gruppo di Corallo, che grazie alla concessione per l’impianto e l’utilizzo delle «macchinette mangiasoldi» e una rete di società off-shore nei cosiddetti «paradisi fiscali», ha «costruito un impero economico, sfruttando la posizione di concessionario pubblico del gioco legale, commettendo sistematiche violazioni della legge penale, prima tra tutte il reiterato peculato attraverso l’appropriazione delle somme di denaro che avrebbe dovuto versare all’Amministrazione dello Stato a titolo di prelievo unico erariale».

L’appartamento di Montecarlo

Anche Sergio e Giancarlo Tulliani, suocero e cognato dell’ex presidente della Camera, Gianfranco Fini, sono indagati nell’ambito dell’inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma. Tra i finanziamenti elargiti dalla Corporate Agents, la fiduciaria che controlla le società del Gruppo, c’è almeno un milione e mezzo di euro trasferiti nel 2008 ad altre tre ditte riconducibili a Giancarlo Tulliani e, in un caso, anche alla sorella Elisabetta, compagna dell’ex leader missino e di An Fini. Con una parte di quei soldi, 327.000 euro – rintracciati al centesimo dagli investigatori delle Fiamme gialle, comprensive di parcelle e spese connesse – l’11 luglio 2008 è stato comprato l’appartamento di boulevard Princesse Charlotte 14, nel Principato di Monaco; la stessa casa è stata rivenduta nel 2015 per un milione e 360.000 dollari. Ma ci sono altri soldi finiti da Corallo alla famiglia imparentata con Fini. Per esempio 2 milioni e 400.000 euro accreditati presso una banca belga sul conto corrente di Sergio Tulliani, padre di Giancarlo e Elisabetta, per un incarico di consulenza considerato fittizio dagli inquirenti.

(fonte)

La mafia gioca a videopoker

online-videopokerVideopoker e slot machine in provincia di Lecce erano “cosa loro”: impossibile per titolari di bar ed esercizi commerciali sottrarsi alle imposizioni di due gruppi criminali, sgominati dalla Guardia di finanza nell’ambito dell’operazione “Clean Game”. Ventisette le ordinanze di custodia cautelare (19 in carcere e 8 ai domiciliari eseguite in Salento, a Rimini, Crotone, Milano e Modena), firmate dal gip Antonia Martalò su richiesta dei sostituti procuratori Carmen Ruggiero e Giuseppe Capoccia, che hanno coordinato le indagini delle fiamme gialle, nate due anni fa, all’esito di controlli che hanno rilevato manomissioni delle slot.

Le ipotesi di reato contestate sono associazione per delinquere di stampo mafioso, truffa ai danni dello Stato, frode informatica, esercizio di giochi d’azzardo ed esercizio abusivo di giochi e scommesse, aggravati dal metodo mafioso, illecita concorrenza con minaccia e violenza, trasferimento fraudolento di valori, corruzione per atti contrari a doveri d’ufficio e associazione a delinquere. Nel mirino degli inquirenti i fratelli De Lorenzis di Racale (Saverio, Pietro, Pasquale e Salvatore, quest’ultimo noto anche per l’amicizia burrascosa con Patrizia D’Addario e per il matrimonio con la gieffina Carolina Marconi), titolari di un impero di macchinette, che vengono considerati “i capi promotori e organizzatori” del sodalizio criminale.

Per il procuratore di Lecce, Cataldo Motta, “avvalendosi della forza di intimidazione legata al nome che si erano fatti, anche in virtù dei passati legami con il clan Troisi di Casarano e Padovano di Gallipoli”, avrebbero imposto l’acquisto e l’utilizzo dei loro apparecchi taroccati a decine di esercizi commerciali. I software delle slot,  stando a quanto è emerso dalle indagini, sarebbero stati alterati per limitare il numero delle puntate vincenti da parte dei giocatori e anche per trasmettere solo parzialmente i dati delle giocate ai Monopoli. Proprio negli uffici dei Monopoli di Stato, il gruppo De Lorenzis avrebbe avuto un complice molto attivo, ovvero un funzionario che informava gli indagati di ispezioni e controlli, tenendoli costantemente aggiornati sulle attività investigative di cui era a conoscenza, finito agli arresti per corruzione e concorso esterno in associazione mafiosa.
Altri complici – come ha spiegato il procuratore della Dna Francesco Mandoi – i salentini li avevano trovati nel clan calabrese dei Femia, che forniva le schede contraffatte da imporre ai commercianti. Oltre agli arresti i militari del Nucleo di polizia tributaria e del Gico (coordinati dal colonnello Nicola De Santis e dal maggiore Giuseppe Dinoi) hanno effettuato il sequestro di 69 fabbricati, 25 terreni, 3 autovetture, 10 società di capitali e 2 ditte individuali, nonché soldi attivi di conti

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Con le slot la ‘ndrangheta si mangia Roma

E’ terra loro il Lazio. Il luogo discreto dove investire, gonfiando a dismisura la cassa dei clan. Il ritiro strategico, la retrovia da usare per riorganizzarsi, per poi tornare nella Piana di Gioia Tauro, più forti di prima.

Questo era il piano di Girolamo Molè, detto Momo, il capocosca che dal carcere ordinava agli affiliati le strategie dopo l’omicidio per faida di Rocco Molè. Quella morte la chiamava “lo schiaffo”, un affronto da restituire al momento opportuno. Con pazienza, chiudendosi a riccio, mettendo al sicuro i ventenni, eredi della ndrina. E investendo, ripulendo i soldi dove è possibile diventare invisibili, sapendo che “la potenza militare della famiglia è direttamente rapportata a quella economica”. Puntando direttamente sul business sicuro dei locali e, soprattutto, delle slot machine. Macchine in grado di macinare utili presentabili, puliti, non tracciabili. Un asse Gioia Tauro – Roma mantenuto in piedi anche grazie ad una rete di telecamere, in grado di mostrare in tempo reale agli uomini della Ndrina cosa avveniva nei locali controllati.

L’operazione del Ros dei carabinieri di martedì mattina ha chiuso tre anni di indagine della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Tutto era partito da un albergo dei castelli romani – a sud della capitale – il Villavecchia, gestito da imprenditori di Colleferro, legati alle famiglie di ‘ndrangheta della piana di Gioia Tauro.

Cinque anni fa il locale fu sequestrato (operazione “Maestro”), mostrando come per la ‘ndrangheta il territorio romano era un territorio strategico. E come le cosche fossero in grado di rendersi invisibili, grazie ad alleanze compiacenti, che passavano attraverso ambienti insospettabili para massonici. Da quel momento i magistrati calabresi non hanno più mollato la presa, coordinandosi con i colleghi romani guidati dal procuratore Giuseppe Pignatone. Hanno seguito i soldi, le aziende controllate attraverso prestanome, ricostruendo con pazienza gli schermi societari e i trucchi contabili. Fermare i soldi era strategico per bloccare l’ala militare, pronta ad agire.

Giuseppe Galluccio era – per la Dda – l’uomo della cosca Molè che aveva in mano i fili degli affari romani, “il vero e proprio braccio operativo nel settore delle slot machine”. Condannato in primo e secondo grado – già nel 1994 gli era stata contestato di essere “intraneo” alla Ndrina dei Molè – è stato recentemente assolto dalla Cassazione “per un mero difetto formale”, una mancata notifica ad un difensore. Dalla sua casa in Calabria gestiva bar, ristoranti e il giro delle slot, utilizzando un sistema di telecamere installate nei locali. Un sistema che, per il Gip, faceva “arrossire le migliori teleassistenze di cui oggi la P.A. dispone”.

La rete delle slot controllata dai Molè è vastissima. Due società coinvolte nelle indagini – la Power Play e la MD Trasporti – avevano, per gli inquirenti, piazzato videopoker in locali a Roma, Latina, Monterotondo, Tivoli, Velletri, Fiumicino e Guidonia. E poi pub, ristoranti, come il “Pozzo dei desideri” di Tivoli. E ancora, imprese sul litorale romano, a Ostia, al centro della recente indagine della procura di Roma “Nuova Alba”, dove si incrociano i destini delle mafie siciliane, campane e della capitale.

Qui Giuseppe Galluccio chiamò Rocco Femia – il boss delle slot a Modena, noto anche per aver minacciato il giornalista dell’Espresso Giovanni Tizian – per risolvere i contrasti che sorgevano nella gestione dei videopoker. Una rete collaudata, solida, attiva sull’intero territorio romano, che si spingeva fino a Terni, con investimenti che stavano entrando anche nel settore della sanità privata.

Intanto la giovane leva della Ndrina di Gioia Tauro cresceva, si preparava a prendere in mano l’organizzazione, lasciata dal “capo carismatico” Girolamo Molè, recluso in carcere. Al figlio Rocco – durante i colloqui – il capo cosca spiegava: “E’ finito di giocare … non esiste il gioco … mi dispiace … mi dispiace ma non c’è gioco … sto puntando tutto su di te (…) siccome c’è questo problema dobbiamo lasciare perdere il giocare … dobbiamo vedere solo la famiglia e basta”. La conferma – per i magistrati – che la cosca di Gioia Tauro – oggi in contrasto con i Piromalli – è più viva che mai. Lanciata verso la conquista economica della capitale.

(clic)

Nulla è definitivo, tranne l’azzardo

Il mafioso mondo delle slot, sempre indisturbato:

Ma anche qui la partita resta apertissima: nel luglio 2013, mentre era ancora latitante, Francesco Corallo riuscì a far annullare il suo arresto in Cassazione perchè erano spariti gli audio delle sue intercettazioni, rubate da ignoti nel tribunale di Milano. Dopo di che la “nuova” Bpm ha azzerato a sorpresa l’accusa che lo univa all’ex banchiere Massimo Ponzellini, ritirando la querela per la loro “corruzione tra privati”: e così le tangenti pagate dal re delle slot proprio per farsi prestare i 148 milioni necessari a salvare la sua concessione, sono già diventate «non punibili». Forse ha ragione Corallo: in Italia nulla è definitivo, tranne l’azzardo.

La notizia intera è qui.

Se i baristi sfrattano le slot

Ogni tanto la sensibilità e l’umanità arrivano prima di una buona legge:

Li ha visti strapparsi i capelli, scoppiare in lacrime, maledire lo schermo. E ha detto basta. «Per rispetto». Mai più slot machine al bar Fantasy di Garrufo, in provincia di Teramo. «Non potevo sopportare ancora che i miei clienti si accanissero così davanti ai videopoker, dilapidando risparmi sottratti alla famiglia. Ho deciso di eliminare le slot e di tornare a fare bar come una volta- racconta il titolare Emilio Marinucci – Ai giovani voglio di nuovo offrire un divertimento sano. Dal bancone ho visto scene che avevano dell’incredibile. Non succederà più».

Marinucci si aspetta che altri seguano il suo esempio. «Ma so – spiega – che rinunciare a quei soldi non è semplice».

La (bella) notizia è qui.