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speranza

L’era dell’incompetenza

Minima&Moralia pubblica un’intervista che va tenuta da parte con cura a Tom Nichols:

Questa intervista è uscita in forma ridotta su “Il Messaggero”, che ringraziamo

di Renato Minore

Dice Tom Nichols: “I primi anni ‘70 del secolo scorso sono stati caratterizzati non solo dalla perdita di fiducia della gente nella maggior parte delle istituzioni governative, questo periodo fu ‘il decennio dell’Io’. Con la comparsa di quella specie di narcisismo che ha prodotto persone che si sentono più intelligenti degli esperti e hanno fatto assurgere a virtù l’incompetenza per non sentirsi inadeguate”.

Nichols è un politologo che insegna a Harvard, autore di un libro di cui si parla e discute molto “La conoscenza e i suoi nemici “(Luiss University Press) in cui offre una chiara analisi della crisi del sapere corrente. Analizzando “l’era dell’incompetenza e i rischi della democrazia”, smonta l’arroganza della “società degli ignoranti”, la faciloneria di chi contrappone credenze a scienza, l’approssimazione diffusa contro i tecnici e gli esperti. Spesso, sebbene la gente abbia a disposizione grandi quantità d’informazioni e accesso all’istruzione, si rifiuta di credere a tutto ciò che contraddice le convinzioni radicate. Sui temi del saggio abbiamo conversato con Nichols, che è stato in Italia per ricevere a Roseto il premio “Città delle Rose” per la saggistica internazionale.

Come spiega che la conoscenza e la competenza siano diventati bersagli di risentimento da parte dell’uomo comune?

Ritengo che questo si possa in gran parte attribuire all’avvento dell’era dell’informazione. Prima tutti avevano chiaro il concetto della categoria del lavoro fisico, cioè persone che potevano costruire delle cose, e sapevano che era diverso dalla capacità intellettuale, cioè la categoria di persone che possedevano specifiche competenze professionali. Tuttavia il XXI secolo appartiene a coloro che sono in grado di comprendere e manipolare le cose immateriali come i dati e l’informazione, un’abilità che non rientra in alcuna di queste categorie. Ciò ha creato un divario fra le persone che capiscono come funziona oggi il mondo e quelle che si sentono lasciate indietro da un mondo che, solo dieci o vent’anni fa, erano in grado di capire.

C’è stato qualche episodio di incompetenza e ignoranza così’ forte da determinare un vero salto paradigmatic o, nel senso che la sua è diventata una analisi di casi generalizzati, e non di singoli casi? Quando ha capito che era l’era dell’incopetenza con relativi rischi per la democrazia?

Come ho scritto nel mio libro, mi sono accorto di questo la prima volta negli anni ‘80 del secolo scorso, gli anni in cui si sono visti i primi risultati del cambiamento della cultura mondiale iniziato alla fine degli anni ‘60 e fiorito negli anni ‘70. I primi anni ‘70 del secolo scorso sono stati caratterizzati non solo dalla perdita di fiducia della gente nella maggior parte delle istituzioni governative (almeno negli Stati Uniti), ma qui in America questo periodo fu definito “il decennio dell’Io”, durante il quale le persone si sono chiuse in se stesse e hanno pensato più a loro che non al posto che occupavano nella comunità civile. Credo che gli anni ‘70 abbiamo segnato la comparsa di quella specie di narcisismo che ha prodotto persone che si sentono più intelligenti degli esperti e che hanno fatto assurgere a virtù l’incompetenza per non sentirsi mai inadeguate.

Non la preoccupa tanto l’ignoranza ma il fatto che per tanti essa è diventata una vera virtu?

È così. L’ignoranza è sempre esistita, anche nelle società più colte e istruite. L’ignoranza non si può eliminare perché gli esseri umani non sono perfetti e alcuni sono portati ad abbracciare la conoscenza più di altri. La differenza sta nel fatto che oggi tendiamo a celebrare l’ignoranza perché abbiamo caro il concetto di “autenticità” e la stupidità giuliva ci appare più autentica, oppure onesta, del linguaggio freddo e distaccato della competenza. Anche questa è una conseguenza del narcisismo: vogliamo poterci immedesimare in tutta la società, compresi esperti e politici. Non si tratta più di voler avere il miglior chirurgo quando stiamo male, ma pretendiamo che sia una persona a noi gradita, con la quale potremmo anche andare a bere qualcosa. In realtà si tratta di un approccio alla vita molto infantile, ma purtroppo assai comune.

Qualcuno ha detto (Michele Serra): il problema è anche il consumismo. Se ciò che conta è ciò che si ha , ciò che si sa passa in secondo ordine. E’ d’accordo?

Non sono d’accordo. Esistono diversi aspetti del capitalismo, e il capitalismo e la virtù – e la religione organizzata – sono riusciti a convivere felicemente per molto tempo. Lo sanno soprattutto gli europei. Max Weber ha scritto su questo e molte generazioni di analisti politici ed economici hanno studiato a lungo il rapporto tra il mercato libero e i comportamenti virtuosi. Il mercato può insegnarci molte cose, compresa la necessità di essere leali (se vogliamo fidelizzare i nostri clienti facendo sì che tornino ad avere rapporti con noi e continuino a interagire) e l’importanza del merito e dell’eccellenza (se vogliamo che i nostri prodotti e servizi abbiamo successo). Un aspetto del capitalismo – o perlomeno del capitalismo non regolamentato – che, a mio parere, è sbagliato è il fatto di assecondare i nostri peggiori impulsi dandoci tutto ciò che desideriamo, anche quando questo non è un bene per noi. Se vogliamo cibo spazzatura, il mercato crea cibo spazzatura. Se vogliamo pornografia, il mercato la produce. Nel caso del declino della competenza, il mercato ha generato una molteplicità di media e di flussi d’informazione che ci lusingano e ci ripetono continuamente che abbiamo ragione a lamentarci e che non è mai colpa nostra. Abbiamo chiesto al mercato di fornirci una razionalizzazione per i nostri comportamenti e il mercato è stato pronto a farlo. I Padri Fondatori americani credevano che senza virtù la nostra democrazia non potesse prosperare. Io non credo che il problema sia il capitalismo. Credo che il problema sia che non apprezziamo più la virtù, lo stoicismo o qualsivoglia nozione di gratifica differita. Ci rifiutiamo di crescere e di ammettere che non sappiamo tutto e che forse siamo responsabili di molte delle nostre sventure.

Le chiedo: guardando all’Italia degli ultimi tempi la ha sorpresa qualche episodio significativo del fatto che la gente può credere alle sciocchezze, in campo politico o anche in altri settori?

Non sono un esperto di politica italiana, ma non posso dire di essere rimasto sorpreso dalle vostre recenti elezioni. Essendo americano di origine greca, ho pensato che gli stessi problemi che sono sorti in Grecia alla fine avrebbero afflitto anche l’Italia. Ricordo di essermi recato in Grecia verso la metà degli anni ‘90 con mio padre, il quale una sera ebbe una discussione con dei nostri parenti che ricordo molto bene. Disse che la cultura dei pensionamenti precoci e dell’assistenzialismo in vigore in Grecia non avrebbe mai funzionato nell’era moderna. Mio padre non era un uomo istruito o un esperto, ma non serviva un genio della matematica per capire quanto la situazione fosse insostenibile. Credo che la stessa cosa si sia verificata in diversi paesi europei e che gli elettori, pur di non confrontarsi con gli aspetti economici del problema, abbiano cercato dei capri espiatori ai quali addossare la colpa: l’economia, gli immigrati, gli esperti, i tedeschi, le banche, e così via. Mentre mio padre, un uomo che aveva a mala pena finito la scuola secondaria, aveva previsto più di vent’anni fa quello che sarebbe accaduto non solo in Grecia, ma nella gran parte dell’Europa meridionale, basandosi sul semplice teorema che i governi non possono continuare a spendere più di quanto riscuotono.

La campagna di Trump rappresenta quasi un modello per chi guarda con preoccupazione alla fine della competenza?

Vorrei mettere in chiaro che non ho scritto il libro a causa del Presidente Trump (e le mie parole non rappresentano le opinioni del governo degli USA o del popolo americano). Ho scritto quasi tutto il libro molto prima delle elezioni. Non l’ho scritto neppure come reazione alla Brexit, anche se ne parlo. Non avevo previsto la vittoria di Trump, ma ero convinto che prima o poi sarebbe arrivato qualcuno come lui. In questo senso Trump è l’esempio più calzante di ciò che accade quando si fa una campagna elettorale contro gli esperti e si tenta di governare senza esperienza, soprattutto per quanto riguarda la politica estera. L’economia americana sta andando bene in questo momento, ma questo accade soprattutto perché nessun presidente americano ha mai il controllo sulla gestione dell’economia del paese, per quanto tentino di prendersene il merito.

E il suo comportamento una volta eletto da presidente? Mi può indicare un esempio più forte di altri?

Credo che l’esempio migliore sia la politica estera in quanto, in qualsiasi nazione, serve molta competenza per capire e attuare la politica estera. La politica estera americana è alla deriva e va in direzioni diverse nello stesso tempo. La NATO è nel caos. I russi, i cinesi e altri sono diventati spavaldi. Anche i recenti eventi in Corea, per quanto sembrino promettenti, si sono verificati quasi malgrado gli americani, che hanno promesso un summit con una delle peggiori nazioni del mondo e (finora) non hanno ricevuto niente in cambio. Questo accade quando un presidente prende una decisione senza avere nessun ambasciatore sul posto o senza riflettere sui passi successivi assieme a consulenti intelligenti. Ripeto, a molti elettori piace questo modo di fare perché sembra “autentico” e “genuino”, mentre in effetti è alquanto pericoloso.

Come combattere tutto questo? Con un’istruzione adeguata?

Non credo che l’istruzione da sola possa risolvere il problema. L’Italia e l’America sono entrambe nazioni con livelli elevati d’istruzione, ma in tutta l’Europa e nel Nord America la gente è preda di scarsa informazione e decisioni stupide e non per mancanza di istruzione, bensì perché sceglie di non informarsi sulle questioni fondamentali. Spesso, malgrado la gente abbia a disposizione grandi quantità di informazioni e accesso all’istruzione, si rifiuta di credere a tutto ciò che contraddice le sue convinzioni più profondamente radicate. Il mio più grande timore è che questo rifiuto delle conoscenze specialistiche finirà solo quando si verificherà un disastro: una grande depressione, una guerra o una pandemia. Storicamente questi eventi hanno riportato gli esperti al centro della vita pubblica. Spero solo che impareremo la lezione prima che ciò accada.

Ma il pensiero critico non è l’abilità intellettuale presa più di mira anche nelle università americane?

Questa è forse una delle cose che mi fa sentire più orgoglioso di essere americano, o magari è semplicemente la mia limitata esperienza di insegnamento in alcune delle migliori università americane, ma ritengo ancora che gli Stati Uniti abbiamo i migliori istituti d’istruzione al mondo. Tuttavia ciò che compromette il pensiero critico in questi luoghi è un approccio troppo egualitario all’istruzione, col quale i professori incoraggiano i giovani a considerarsi dei pari invece che studenti. Io penso che gli insegnanti e gli studenti siano dei partner che devono compiere insieme un viaggio di apprendimento – ma non come pari. Forse in questo campo possiamo imparare qualcosa dall’istruzione superiore europea, o magari da quella che era un tempo.

Prendiamo il caso dei vaccini pensa sempre che abbiamo bisogno di un grande spavento per convincerci del valore della competenza rispetto alla chiacchiera che non li vuole?

L’ironia dei vaccini è che sono vittime del loro stesso successo. Non rendendosi conto di quanto fossero comuni le malattie prima dei vaccini, la gente crede che adesso non funzionino o che non servano più. Nella mia famiglia ci sono persone che hanno subito i danni della poliomielite e per questo motivo da ragazzo non ho mai esitato a farmi vaccinare contro la polio, ma molti americani più giovani non hanno ricordi simili. Quando dissi a un mio studente che da ragazzo ero stato vaccinato contro il vaiolo, si meravigliò molto. “Il vaiolo?! Perché le hanno fatto il vaccino contro il vaiolo? Nessuno prende più questa malattia!”. Era totalmente incapace di collegare il successo dei vaccini con l’eliminazione del vaiolo. Non si tratta solo di non capire la scienza, ma dell’incapacità di comprendere i nessi di causalità e la logica di base.

E’ d’accordo con Eistein: c’è qualcosa di peggio dell’incompetenza. La vera crisi è la crisi dell’incompetenza?

Sì. Ritengo che la causa alla radice di tutti i nostri problemi, compreso il declino delle competenze, sia il benessere. Nei paesi sviluppati il tenore di vita è così alto che non ci rendiamo più conto di quanto siano difficili anche le cose più piccole. Come dico ai miei studenti, ogni volta che aprite il rubinetto e sgorga acqua pura e pulita, non dovreste considerarla come una cosa normale, ma come un miracolo. Ci sono voluti urbanisti, scienziati, economisti, idraulici, scavatori e sì, anche politici, perché voi possiate bere un bicchiere d’acqua fresca in una giornata afosa. La gente non considera più queste cose come una sfida. Noi americani non andiamo sulla Luna da oltre quarant’anni perché è diventato noioso. Siamo arrivati a pensare che i viaggi nello spazio siano normali e facili. E ora pensiamo che tutto debba essere facile, a buon mercato e semplice. Ma la vita non è così. Le persone si ribellano all’idea di dover imparare come funzionano le cose perché le fa sentire impotenti e piccole. Invece imparare come funzionano le cose – dall’odontoiatria alla diplomazia – dà potere, se solo ci prendessimo il tempo per farlo.

In conclusione Nichols da voce quello che chiama il suo più grande timore: il rifiuto delle conoscenze finirà solo quando si verificherà un disastro, una grande depressione, una guerra o una pandemia”. Ma ha anche una speranza, “impareremo la lezione prima che ciò accada”.

(fonte)

«Carnaio è uno schiaffo in pieno volto che prova a svegliarci e che ci ricorda che siamo ancora in tempo a ridare speranza a questo paese chiamato Italia. Leggetelo.»: Salvo Ognibene recensisce Carnaio

Ci ho messo un po’ a leggere Carnaio. Non troppe pagine in realtà ma il racconto di Giulio Cavalli fa male. E ci illumina.

Nel racconto dello scrittore lombardo c’è la tragedia che colpisce il paesino di DF, l’umanità di Giovanni Ventimiglia, il parroco che predica bene e razzola male, il sindaco padre che insieme al sindaco figlio si alterna alla guida della città da sei mandati, i giornalisti locali con la loro continua ricerca della ribalta mediatica. C’è tutto questo e c’è la normalità di DF che farebbe pensare a come si è ridotto il nostro di paese…Carnaio è un incubo di carne e soldi, la profezia di un mondo prossimo che a pensarci bene non è poi così lontano dal nostro.

Concita De Gregorio, che lo ha proposto al Premio Strega 2019, ha scritto nella sua presentazione: “Potremmo diventare, siamo già diventati DF: il paese chiuso, appestato, impenetrabile dove gli abitanti si arricchiscono e blindano il segreto inconfessabile della loro ricchezza mentre sono, nel tripudio del cinismo, destinati all’estinzione“.

Carnaio è uno schiaffo in pieno volto che prova a svegliarci e che ci ricorda che siamo ancora in tempo a ridare speranza a questo paese chiamato Italia. Leggetelo.

Giulio Cavalli lo trovare qui e Carnaio in libreria, qui o naturalmente IBS Amazon o dove volete.

fonte

PAUSA CAFFÈ recensisce Carnaio

Carnaio è un romanzo scritto da Giulio Cavalli, pubblicato nel 2018 da Fandango. Un romanzo distopico, inquietante, grottesco, attuale e necessario. Contro le onde che nascono dagli eventi, contro l’indifferenza.

“Questo non è un cadavere del nostro mondo, signor
commissario.” Sembrò a tutti una frase rotonda, perfetta.

Sinossi
Giovanni Ventimiglia è un pescatore, da tutta la vita raccoglie nelle sue reti acciughe e granchi, anche se negli ultimi anni il mare è diventato avaro e sulla sua piccola nave non ha più un equipaggio. Il pesce lo vende nel mercato di DF, un paesino aggrappato alla costa come tanti, con un parroco che fa la predica ma va a puttane, un sindaco che è padre di sindaco, un’emittente locale che scalda i cuori delle casalinghe con il suo conduttore brizzolato. Ma un giorno di marzo Giovanni attraccando al pontile trova un cadavere, un uomo che in ammollo dev’essere stato per giorni, un ragazzo non di quelle parti, forse dell’Est o del Sud, uno di colore comunque. E dopo di lui, i ritrovamenti di cadaveri sbiaditi dall’acqua, tutti giovani, tutti neri si susseguono, senza che le autorità locali riescano a trovare un filo, cumuli di cadaveri da seppellire, identificare, gestire. E da DF chiedono aiuto, ma da Roma prendono tempo, impongono accertamenti, tanto che, per non venire sommersi, i cittadini saranno costretti a escogitare un sistema per affrontare l’emergenza, e poi nel tempo trasformarla in profitto. Con uno sguardo che ricorda Saramago e Bolaño, Carnaio è un incubo di carne e soldi, la profezia di un mondo prossimo, in cui l’ultimo passo verso l’abisso è già alle nostre spalle.

“Il primo cadavere lo ritrovarono impigliato tra gli scogli, quelli bassi, all’attaccatura del pontile. Indossava una camicia a quadrettoni rossi e blu tutta sbordata e allacciata solo negli ultimi due bottoni in fondo, e poi dei pantaloni corti, da calciatore, forse di qualche squadra importante, resi trasparenti e velini dal caldo, dal sale, dal sole. Niente scarpe.”

Non è stata una lettura facile e parlane è difficile, sono stata male, mi ha disturbata, questo era il suo scopo, e parlarne è doveroso. La narrazione avviene attraverso vari personaggi, in modo che la vicenda venga raccontata dai vari punti di vista. La storia ha un crescendo sempre più paradossale, alimentato da paura, da censura e da una dittatura subdola. L’umanità, intesa come sentimento di comprensione e solidarietà umana, si sfalda, l’empatia scompare del tutto e ci si adegua. Pochi resistono cercando di non essere indifferenti, di indignarsi, di credere ancora di poter scegliere tra bene e male, ma sono davvero un minuscolo puntino luminoso di speranza in un buio vuoto. Nessuno si salva, tutti finiscono nel carnaio.

“Chi non si adatta diventa straniero. Chi è straniero diventa un impiccio, anche se un’ora prima era tua moglie, tuo fratello, tua figlia.”

Il libro mi è rimasto dentro e riemerge ogni volta che sento politici, giornalisti e persone comuni parlare degli immigrati (difficilmente dell’immigrazione). La parola “immigrato” si è snaturata, non ha più significato di “persona che si trasferisce in un altro paese”, la “persona” non è inclusa nel concetto, “immigrato” è divenuta una parola che indica qualcosa di negativo, pericolo e paura. L’immigrato è divenuto un capro espiatorio per i nostri fallimenti e per le nostre frustrazioni, è divenuto un qualcosa di astratto, è divenuto un qualcosa che si può sfruttare ed usare, cosa che non si può fare con le persone, sarebbe immorale! E allora li prendiamo, li spostiamo, li mandiamo, li usiamo. “della carne che ci porta la marea non si butta via niente. Niente. Come il maiale.”

“La barca mi ha insegnato che non è vero che domani andrà meglio, no, domani potrebbe piovere, potrebbe alzarsi il vento di Ponente, i pesci potrebbero decidere di schifare l’esca che si sono sempre mangiati, loro e i loro padri e i loro nonni, potrebbe sbiellarsi il motore, potrebbe incagliarsi la rete e magari ti tocca anche tagliare l’ancora. Tu sei un pessimista cronico, mi dice Maria, sei uno di quelli che vede il nero e poi ovvio che il nero ti arriva.”

“Perché quello che voglio è non diventare come loro, più di tutto il resto.
Con tutte le mie forze. Mi sforzo di tenere a memoria il giusto e lo sbagliato, il tollerabile e l’intollerabile, la normalità e la ferocia. Come da bambina, di fronte alla voglia di un’avventura che mi scaricava adrenalina nello stomaco, mi fermavo sul burrone a pensare cosa mi avresti detto tu, cosa avresti voluto tu, per misurare la giustizia, allo stesso modo oggi ho bisogno di un termometro per misurare lo schifo, non sentirmi pazza, essere confortata anche se
sola.”

«Ai soccorsi, arrivati con poca voglia di soccorrere, DF si presentò come una palla di vetro con neve, quelle dei mercatini dove gli ambulanti portano guanti tagliati sulle dita. Le palle di vetro provocano la felicità più meravigliosa e più breve che si possa provare in natura, il tempo di uno scrollo, i più resistenti ne fanno due, e poi finiscono nel comò per almeno tutta una generazione, vengono ritrovate quando sono morti da un pezzo sia gli acquirenti che gli ambulanti e un bambino la scrolla di nuovo, una volta, massimo due. DF era cosi. Senza scrollo. Con le mosche al posto della neve.»

(fonte)

Il bomber senza rete

Ansou ha anche un profilo Instagram. Gli hanno insegnato che il primo passo per diventare un calciatore è crederci, del tutto, anche se giochi in un campo in cui le righe se le sono mangiate le erbacce e il fondo è duro come un dente. Allora eccolo lì, Ansouneymar che sorride nello spogliatoio, abbracciato ai compagni che lo chiamano fratello. Mercoledì è tornato in campo per l’allenamento: corse, torello e la partitella finale su un campo di granita di fango. Ma Ansou la stanchezza non la sente, no: gioca il sabato con la squadra Juniores e la domenica con la prima squadra. Non ha paura di correre: a 19 anni è partito dal Senegal, ha corso per terra e per mare fino al primo stop a Lampedusa. Poi Castelnuovo di Porto. Ansou gioca nella Castelnuovese, la squadra di Castelnuovo di Porto. Sì, quel Castelnuovo di Porto che è il primo esperimento di deportazione senza meta deciso dal ministro dell’inferno con il suo decreto Sicurezza.

E per sapere esattamente cosa sia questo decreto che dovrebbe renderci più sicuri basta chiederlo a Ansou Cissè che nell’innocenza dei suoi 19 anni ti racconta che era arrivato due anni fa e ora gli sembra un miracolo che tutti gli vogliano bene.

Poi, nei giorni scorsi, i suoi amici del Cara di Castelnuovo di Porto hanno iniziato a fare le valigie. Destinazione: sconosciuta. Conta solo andarsene. Dove? Non si sa. È un po’ come correre sulla fascia senza crossare e senza accentrarsi verso la porta, finendo di corsa tra alla linea di fondo con la palla in mezzo ai piedi. Senza senso, dice lui.

In termini calcistici si direbbe che è stato ceduto a nessuno. Gli mancano otto mesi per sapere se è stato accolto il suo ricorso per la richiesta di asilo politico. Otto mesi sono un campionato intero. La sua storia però ha solleticato la stampa locale, quella che ha bisogno di un po’ di commozione facile per condire la cronaca che di questi tempi è terribile già così.

Eppure, a Castelnuovo di Porto, se si avesse la voglia di ascoltare, hanno tutti una loro storia, anche quelli che non giocano a calcio e che non segnano gol, anche quelli che semplicemente sono finiti per essere solo le ferite che hanno addosso e che a differenza di Ansou non sono capaci di produrre speranza, quelli a cui si è rotta la ghiandola del futuro.

Ma la storia di Ansou serve, come servirebbe conoscere tutte le loro storie, perché se la smettessero di essere niente sarebbe molto più difficile farcirli solo dei nostri pregiudizi. E sentirci assolti.

Buon venerdì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/01/25/il-bomber-senza-rete/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Les Fleurs du Mal recensisce #Carnaio

Di Alessandra Micheli, fonte

Troppo presi da noi stessi per riflettere su due parole che in fondo, hanno perduto tutta la loro carica ideale.

Mi chiedo spesso cosa davvero significa oggi essere umano. 

Oggi si è solo se si appare, si è nello scenario coreografico dei reality, si è solo con una manciata di like. 

Per un nome su una copertina, per un intervista, un ospitata. Siamo cosi legati alla tecnologia che siamo solo postando foto su instangram.

Anche il cibo, un tramonto non è più qualcosa di profondamente nostro,ma di tutti. 

Uno scatto, non è più una foto da tenere nel cassetto perché ha immortalato, congelato un momento. 

E’ solo merce, per gridare al mondo che esisti. 

Ma se devo gridarlo, se devo sgomitare per farmi riprendere dal grande occhio, io allora davvero esisto?

Se prima ero solo pensando, se prima ero solo sciogliendo il cuore per un emozione, per lacrime cocenti persino su una delusione politica, su un libro, un una carezza o una notte d’amore.

E ci sentivamo vivi ascoltando canti che non avevano altro che la stessa passione che avevamo rinchiusa nel cuore. 

E oggi invece è tutto cosi artefatto, cosi stantio e perfettamente di plastica. Uomini di plastica, sentimenti di plastica, sorrisi resi fissi da un botulino che lo ripeto, non è più estetico ma dell’anima. 

Che per non invecchiare perde i suoi naturali moti interiori, onde e maree, burrasche e uragani, cosi necessari per smuovere tutto quel marcio che sulla superficie si forma. 

Lo sapete no? 

I riflussi permettono al mare di non stagnarsi con alghe o relitti o residui. Il mare è il nostro io, l’inconscio oscuro di Jung, la nostra mente cosi fervida ma anche cosi betoniera da ospitare ogni cazzata, ogni orrore. E allora le onde dei pensieri le spazzano via, le portano a riva e aspettano i gabbiani, gli spazzini a ripristinare il ciclo. 

Ma quando l’onda ci porta il simbolo della nostra distruzione, della nostra decadenza, rende manifesto l’inferno che noi, non un Satana, un Lucifero, un Seth abbiamo creato, allora la speranza si rannicchia piangente, recisa, ferita. 

E singhiozza sul sogno perduto di un umanità che vibra, il cui cuore pulsa di compassione. 

Un umanità che ha tradito Dio vendendo se stessa e l’altro, suo specchio, per una manciata di soldi. 

Blood money lo chiama Bon Jovi, soldi per comprare la coscienza, per vendere l’altro in prospettiva di un grande unico bussiness, capace di portarci fuori dalla banalità e dalla mediocrità. 

Blood money quando i soldi sono fatti sulla sofferenza dell’altro.

Su una finta giustizia. 

Sono creati dalle guerre, dalle vite delle persone, ree di cercare anch’esse un momento di gloria o si sole che noi, la parte perfetta dell’umanità gli neghiamo. Blood money per comprare il nostro silenzio complice, per renderci partecipi della spettacolarizzazione della morte, della disperazione. 

Del resto sono solo corpi, morti, perché oramai neanche il decesso ha la sua dignità. 

E’ spettacolo, è solo opportunità per gli avvoltoi di ingrassare le loro flaccide pance. 

Mentre tutti noi diventiamo finalmente protagonisti, le comparse sono quei cadaveri di gente venuta da fuori. 

Gente straniera, che serve al politico per mendicare una manciata di voti o per riabilitare una fedina penale che gronda lordura. 

Per il prete che si sente migliore e riesce per un attimo a non guarda il verme trionfante che si ciba della sua carità. 

Tanto basta un rosario, tre ave marie e io pulisco e suppuro la mia anima.

Ma l’anima non c’è più fuggita altrove, perché anche lei non riesce a vedere l’onda di morte che insozza le nostre coste, le nostre vite, che insozza noi stessi. In questo libro l’umanità muore. 

O forse non esiste da tempo. 

Blood money è quello che conta. 

Il business prende il posto dei nostri sogni. 

Non si vola più nel cielo della speranza. Si cammina a terra come polli da macello. 

L’onda dei morti arriva, ma noi siamo sordi. 

Sordi perché chiusi nell’egoismo di chi si sente privilegiato. 

E invece finire nella parte fortunata del mondo è un caso, un disegno del destino che forse, voleva spronarci a guarda con coraggio le nostre imperfezioni, e prendere l’ardua di scelta di navigare verso un altro porto, dove la puzza di Marcio è nascosta dall’odore del maestrale. 

Guardo i comizi, le lotte tra chi sostiene l’immigrato come risorsa o come fastidio. 

Che noia questi morti di fame! 

Che noia le loro lamentele sulla guerra.

Una guerra che però serve alle nostre macchine veloci, che permette all’imprenditore di pasteggiare a champagne e caviale, all’altro di sentirsi meno fallito. 

E chi considera un uomo una risorsa economica, una merce è soltanto un demone peggiore degli incubi che combattevano gli esorcisti fissati nella cacciata del demonio. 

Beh mammona è tra noi e cammina fiero tra le nostre strade. 

Non la sentite la risata?

Non avvertite il suo osceno olezzo?

Avrei dovuto recensire questo libro non di pancia.

Lodando lo stile dell’autore. 

Omaggiando la sua coraggiosa CE. 

E invece sono solo incazzata. 

Perché la realtà è che siamo troppo vigliacchi per evitare che l’onda di morti ci sommerga, che le acque della nostra coscienza straripino di colpa, fino a morirne.

Siamo troppo comodi nelle nostre poltrone, fissati con liti e reality per smettere di considerare l’altro come oggetto, utile alla nostra bestiale corse verso il successo. 

A costo di tutto. 

A costo della compassione. 

A costo di noi stessi.

Blood money. 

Ecco cosa stringiamo. 

Ecco cosa alimenta il nostro finto benessere. 

Blood money. 

E ora prendete in mano la pala e iniziate a seppellire la vostra coscienza. 

Hey Patty Garret 

ecco come ti chiamano. 

Dicono che mi stai cercando.

Ho sentito che ti hanno premiato con un distintivo di argento

Ti hanno pagato, per avere in cambio il mio sangue. 

In fondo questo non riguarda la nostra amicizia. 

Non riguarda me o te

Quando il potere chiama

i confini della giustizia cambiano

e non esiste nessun confine tra fratelli

Fa ciò che devi senza tirarti indietro

mi chiedo cosa sarebbe successo se tu fossi stato il killer e io l’eroe

Le cose sarebbero state le stesse

Anche io ti avrei venduto 

Avrei barattato la tua vita per la mia?

Avrei pagato I miei debiti con quei soldi insanguinati?

Non lo so. 

Fa cosa senti, non tirarti indietro 

Soldi, soldi insanguinati 

Cosi LI CHIAMO 

Perché vedi soldi in cambio di sangue non è uno scambio equo

Soldi soldi insanguinati 

Comprato e venduto 

Ma vedi la tua coscienza è poi l’unica cosa che puoi portare con te nella tomba. 

Bon Jovi ( libera traduzione)

E noi novelli Patty Garrett, una coscienza non l’abbiamo più.

Un Paese incapace di provare speranza

Proviamo a uscire per un attimo dal gioco xenofoboadolescenziale del ministro dell’inferno: se la tracimazione dello sfogo, della rabbia, della cattiveria e della predisposizione alla vendetta fossero gli effetti della disperazione? Attenzione, per carità, qui non si vuole fare un trattato spiccio di sociologia ma la disperazione ha tutto il senso nel suo nome: è disperato chi non riesce più a fabbricarsi speranza ed è quindi afflitto da un inconsolabile sconforto.

Pensateci: non è sconforto appoggiare la testa sul proprio posto nel treno regionale che riporta a casa gente consumata dalla stanchezza eppure che ha guadagnato troppo poco per poter rispettare gli impegni?  Non è sconforto rinunciare al necessario per pagare servizi che dovrebbero essere garantiti? Non è sconforto sdoganare odio tra disperati, tutti preoccupati che qualcuno gli rubi un pezzo di disperazione?

Il Censis (che invece con i numeri fa sul serio, mica a sensazione) nel suo ultimo rapporto parla di un’Italia in preda a «una sorta di sovranismo psichico prima ancora che politico» che «talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria – dopo e oltre il rancore ‒ diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare». E no, non c’è solo l’ostilità contro i migranti, come farebbe comodo a qualcuno: l’Italia è il Paese europeo con la più bassa percentuale (23%) di cittadini convinti di aver raggiunto una condizione socio-economica migliore dei loro genitori (la media Ue è il 30%, il 43% in Danimarca, il 41% in Svezia, il 33% in Germania). Il 96% delle persone con un basso titolo di studio e l’89% di quelle a basso reddito non pensano di poter migliorare la propria vita. E il 56,3% degli italiani dichiara di non credere che le cose stiano veramente cambiando.

Sempre a proposito di numeri: il 35,6% degli italiani è pessimista per il futuro, il 31,3% è incerto e solamente il restante 33,1% sfoggia ottimismo. Ovvero speranza.

Il problema è complesso, ahinoi, molto di più di come viene raccontato. Nonostante si insista sui migranti per raccattare voti e fomentare paura (nei telegiornali del 2018 sono stati dedicati 4.068 servizi all’emergenza immigrazione, con la stessa ossessione di alcuni potenti) siamo un Paese che ha perso manualità nel provare speranza, semplicemente. E la soluzione richiederebbe passione per la complessità, in questo tempo di banalizzazioni. E invece tutto intorno si spande un po’ di superficialotto paternalismo (chi per i compiti delle vacanze, chi per i tradizionalismi e le buone maniere passate) che viene facile facile per rimpiangere il passato. Perché rimpiange il passato (anche quello che non c’è mai stato) chi è incapace (o disperato) nel futuro.

Buon mercoledì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/12/12/un-paese-incapace-di-provare-speranza/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

ArtAPartOfCulture su #Carnaio

(fonte articolo)

C’erano in programma nell’ultimo giorno “La trattativa Stato-Mafia con MarcoTravaglio e Marco Lillo o la Tavola rotonda sull’Africa con vari autori stranieri, Saggi su Israele con, fra gli altri, Pierluigi AllottiAlberto Cavaglion, Arturo Marzano e Alessandra Tarquini od anche Anatomia spassosa e crudele del mondo di internet dell’americano di San Francisco (patria di Facebook) Jarret Kobek, che la cosa la conosce fin dalle origini.

Ma le scelte, quando il menù è troppo ricco, possono portare anche alla sola presentazione di due romanzi molto forti e dalle tematiche molto attuali. Quello che ne viene fuori è però molto di più di un semplice convegno od una conferenza sull’argomento del giorno prima.

Giulio Cavalli, giornalista, scrittore, drammaturgo è stato sotto scorta per rivelazioni sulla mafia. Caustico quanto basta per dire quello che pensa sullo schifoso mondo che stiamo vivendo ha creato un romanzo, Carnaio (Ed. Fandango), in cui in assenza di risposte dallo Stato centrale, un paese diventa Stato ed il Sindaco-Presidente decide, secondo le linee di pensiero più squallide ed arriviste di far diventare un affare (business, business..) l’afflusso inaspettato ed abnorme di corpi morti arrivati dal mare sul suo territorio.

Si racconta come si può produrre energia per combustione di tutto quello che fa schifo e con cui non si vuol coabitare, che è poi la soluzione migliore in un processo di disumanizzazione, acquisita sempre più come normale.

Del resto – ha detto Cavalli – nello stesso linguaggio, consumato da tutti, esseri umani di serie b e cadaveri sono la stessa cosa. E la domanda è sempre la stessa: come li possiamo usare? Anche chi si oppone (un certo Giovanni Ventimiglia) non ha un linguaggio diverso, nuovo, per contrapporsi al verbo feroce che si instilla e si installa dappertutto e cederà pian piano come sta succedendo a tutti coloro che ancora hanno radici buone e pensiero. In Carnaio le persone riescono a lasciare tutto fuori, come ormai in un Italia incattivita riusciamo a lasciare tutto fuori dal nostro quartiere, dal nostro condominio, dalla nostra porta.

Ha narrato Cavalli che una sera a Pozzallo riuscì a parlare con un pescatore che gli parlò di un corpo che aveva ritrovato ormai lessato dalla lunga permanenza in mare. E quella parola lesso (termine culinario in voga) lo aveva così colpito per l’impermeabilità che abbiamo ormai acquisito rispetto ai fatti più feroci.  “Mors tua vita mea”. Cavalli ha ricordato anche che il libro è stato scritto un anno e mezzo fa quando il mondo distopico che descriveva non era ancora diventato reale. Quando ancora la parola sovranismo non si era identificata con egoismo.

Alle domante fioccanti di Annalisa Camilli sul suo impegno socio-politico ha risposto che ancora la letteratura più che gli editoriali o le trasmissioni TV può aiutare a capire meglio, perché frutto di lunghi studi sull’argomento trattato.

Quello a cui è più interessato è la disumanizzazione crescente di un Paese dove tutti hanno cominciato a perdonarsi tantissimo senza però perdonare agli altri, che vedono di serie b, per cui a breve toccherà anche ai più deboli, ai più fragili, agli sconfitti subire i più forti, che ne faranno uso ed abuso.

Tutto può rientrare in un disegno più grande di sfruttamento delle risorse umane, anche dei loro corpi, nella rivendicazione superiore del diritto di usare la forza da parte dei più potenti (Parigi docet).

Un romanzo che man mano diventa più truce più violento – ha detto la Camilli – senza più speranza? E la criminalità organizzata di cui l’autore ha sempre parlato? Essendo un potere forte, aspetta solo che aumenti la fragilità dei cittadini, per avere più manodopera, pagata sempre di meno, con un impoverimento sempre più avanzato di beni materiali ed idee – ha concluso Giulio Cavalli – .

«Distopia o presente?»: Pietro Bertino recensisce Carnaio

(fonte articolo originale)

Faccio fatica a inserire questo splendido romanzo di Giulio Cavalli, duro come sono dure le verità nascoste, sgradevole come la paura, necessario come un cielo azzurro, nel genere distopico. Troppo greve è la realtà di questi giorni, troppo gravida di orrori antichi e nuovi, troppo satura di violenza che aspetta solo di essere innescata per non considerarlo un libro sul nostro presente.

A DF, un paese mediterraneo, cominciano ad arrivare cadaveri stranieri, tutti uguali, come se fossero clonati. Li porta il mare, dapprima pochi alla volta, poi a ondate, a decine di migliaia. Con pagine acute, colorate dall’acre sarcasmo di cui è capace solo chi quotidianamente si batte per gli ultimi e si sente sempre più solo, l’autore descrive lo squallore, il vuoto di valori, le meschinità degli abitanti del paese e, talora, anche squarci di umanità, come raggi di sole nel cielo autunnale.

Quei cadaveri tutti uguali, stranieri, non nostri, perché a contare sono solo i quattordici corpi dei cittadini di DF, gli altri rappresentano solo un fastidioso problema da risolvere in fretta, mi hanno riportato alla memoria la frase di Gunther Anders a proposito dell’Olocausto, in cui afferma che possono morire a milioni lasciandoci indifferenti, saranno le storie di due o tre ad aprirci gli occhi. Forse oggi, non bastano più neanche quelle.

DF si difende dalla funebre marea e arriva anche, aderendo alla logica globalista e di mercato in cui siamo immersi, logica che reifica anche gli esseri umani, a monetizzare  i cadaveri, di cui non si getta via nulla. Fino all’epilogo che non rivelo per non rovinarvi la lettura.

Il libro mi ha riportato alla memoria suggestioni diverse: Occhi bianchi sul pianeta terra, film di Boris Sagal che nell’agghiacciante finale ricorda molto la situazone descritta da Cavalli e, soprattutto, Cecità di Josè Saramago, amaro apologo di un’umanità che ha perso sé stessa.

La scrittura è vivace, i personaggi tratteggiati con maestri in un racconto corale di piccoli e grandi mostri, dietro il sarcasmo che permea molte pagine si possono intravvedere gli astratti furori, sempre più concreti in questi giorni, e la pietas dell’autore.

Se riuscite a superare il malessere fisico delle prime pagine, se riuscirete ad arrivare alla fine, probabilmente concorderete con me che si tratta di un libro importante, una riflessione disincatata, chirurgica nella sua spietatezza, sulla nostra società, sulla politica, sull’informazione ridotta a sciacallaggio, sul vuoto umano di tanta brava gente.

Carnaio è l’altra faccia di Exit west di Hamid, libro che lasciava ancora un certo spazio alla speranza, che preferiva la dimensione favolistica per raccontare il dramma di un popolo in viaggio. Cavalli sceglie la dimensione di una rabbia trattenuta e scrive un libro violento e spietato che si traduce in un J’accuseimplacabile verso i colpevoli di ieri e di oggi.

L’incubo descritto da Cavalli è la paura del diverso che arriva a trasformare in diverso, in straniero, chi non si omologa all’opinione comune. Concorderete con me che, alla luce di quanto accade in questi giorni, non siamo dentro una distopia ma immersi in una realtà fin troppo vicina.

L’unico limite del libro, che probabilmente leggerò ai miei ragazzi a scuola, è quello che non arriverà a chi dovrebbe arrivare, perché, è noto, che i nuovi potenti e i loro adepti non frequentano i libri, anzi, il binomio libro-migranti probabilmente per loro equivale a una maledizione. Peccato, perché forse qualcuno di loro, leggendolo, guardandosi allo specchio, si vedrebbe per quello che è, provando, si spera, vergogna.

Un libro terribile, che ci mette davanti all’oscurità per esorcizzarla.  Non lo dimenticherete.

#Carnaio. La recensione di Erika Pucci

fonte: versiliatoday

Carnaio” (Giulio Cavalli, Fandango 2018)

“La barca mi ha insegnato che non è vero che domani andrà meglio, no, domani potrebbe piovere, potrebbe alzarsi il vento di Ponente, i pesci potrebbero decidere di schifare l’esca che si sono sempre mangiati, loro e i loro padri e i loro nonni, potrebbe sbiellarsi il motore, potrebbe incagliarsi la rete e magari ti tocca anche tagliare l’ancora.” 

La storia raccontata nel romanzo da Giulio Cavalli si svolge a DF, un paesino nel Mediterraneo sconvolto da ondate di cadaveri che si arenano sulla spiaggia. “Quelli”, così vengono ribattezzati i cadaveri, sono tutti di carnagione scura, provenienti da un altrove che, ai molti, non importa specificare. La vita del Paese sommerso dai cadaveri restituiti dal mare sui lidi di DF viene stravolta: i corpi sono sempre più numerosi, dal governo centrale nessuno dà indicazioni su come gestire l’emergenza. Allora il sindaco e le altre persone in vista del paese decidono di affrontare autonomamente la questione dei cadaveri: viene costruita una barriera affinché i corpi stiano confinati dai paesani, si ottiene l’autonomia politica e governativa, e dai cadaveri si cerca di ottenere il massimo del rendimento in termini di business economici. Niente dei cadaveri si butta via.

Lo scenario è un crescendo angosciante dove la paura del diverso instaura un clima di paura, censura, libertà violate come nelle dittature. Nessuno si salverà da questo orrore, tutti finiranno nel carnaio di DF.

Chi non si adatta diventa straniero. Chi è straniero diventa un impiccio, anche se un’ora prima era tua moglie, tuo fratello, tua figlia.”

La narrazione di Cavalli è affidata a diversi personaggi in vari stadi della situazione: questo è un espediente vincente perché riesce a dare voce a diversi punti di vista sulla “sciagura” che ha investito il paese e, al contempo, di sbirciare nelle piccole grandi quotidianità di numerose vite uniche e paradigmatiche.

Il cinismo, la paura del diverso, il terrore dell’altro, l’incapacità di governare un’emergenza umanitaria toccano nel libro di Cavalli confini inimmaginabili eppure, a pensarci bene, possibili. La lettura fa davvero male, male fisicamente, oltre che emotivamente: ci sono dei passaggi crudeli delineati con schiettezza, senza mai cadere nel melodramma, capaci per questo di essere ancora più potenti. Di certo la consapevolezza di quanto Cavalli sia da sempre seriamente impegnato nell’informare sullo stato dei migranti nelle vie del mare, rendo tutto ancora più angosciante: l’universo da lui delineato in questo romanzo distopico è solo un’iperbole di micro comportamenti che in fieri già strisciano nei luoghi comuni e nell’approccio governativo attuale.

Il passaggio che, in qualche modo, ho trovato colmo di speranza è indubbiamente quello affidato alla voce di Angelica Magnani: al di là dell’epilogo della vicenda sua e della propria figlia e di eventuali scelte fatte, è proprio nella sua volontà di non restare indifferenti e nella consapevolezza di poter sempre scegliere tra il bene e il male, che, in fondo, la speranza può sopravvivere anche nel peggiore dei futuri possibili.

“Quello che voglio è non diventare come loro, con tutte le mie forze. Mi sforzo di tenere a memoria il giusto e lo sbagliato, il tollerabile e l’intollerabile, la normalità e la ferocia”