Tagliategli tutto, ma non le medaglie. E non quelle che premiano atti di coraggio “sopra e al di là del dovere” o l’estremo sacrificio al fronte. No, i militari italiani sembrano più affezionati alle decorazioni di San Maurizio, il “protettore delle nostre armi”, che suggellano cinquant’anni di carriera in uniforme, calcolata in modo più virtuale che virtuoso: onorificenze inventate da Carlo Alberto nel 1839 e sopravvissute indenni attraverso guerre e repubbliche. Sono realmente medaglie d’oro: quest’anno costeranno ai contribuenti oltre un milione e 200 mila euro, che si aggiungono al milione e 800 mila euro spesi nel 2013. Più di tre milioni per un riconoscimento dorato. E pensare che su eBay c’è chi le offre, di dubbio conio, a soli quindici euro.
Medaglie, cene di gala e privilegi di rango sono sempre più un’eccezione nei bilanci della Difesa. Certo, ammiragli e generali restano maestri di mimetismo e tattiche evasive, anche quando si tratta di occultare qualche lusso nelle pieghe della contabilità: gli stati maggiori conservano quasi un milione e 600 mila euro per “impieghi riservati”, che ogni tanto si trasformano in buffet, brindisi e feste di rappresentanza. Ma gli sfarzi, come i tre milioni stanziati nel 2010 per il nuovo circolo ufficiali della capitale o la pioggia di campi da tennis realizzati nelle caserme di Roma e dintorni, appartengono al passato. Il mantra del ministro Roberta Pinotti è «ripensare, rivedere, ridurre». Non a caso gli interventi per “sport, benessere e qualità della vita” dei militari hanno subito l’assalto più duro nella battaglia dei risparmi: dai 60 milioni del 2014 ai quindici previsti per il prossimo anno. Una robusta sforbiciata, ma poca cosa rispetto ai venti miliardi che si tireranno fuori per le forze armate, carabinieri inclusi.
Il problema è che questi soldi vanno quasi tutti a stipendi. Dei 14 miliardi destinati alla funzione Difesa, ossia senza l’impatto dei carabinieri, ben 9700 milioni ossia il 67 per cento servono per le paghe del personale e limare il resto diventa sempre più difficile. In questi giorni negli alti comandi si combatte a sciabolate per difendere ogni aereo, ogni nave e ogni carrarmato dal tritacarne della spending review. Il diktat di Renzi è chiaro: nel 2015 bisogna eliminare il 3 per cento dello stanziamento totale, ossia 600 milioni. Una somma lontanissima dal miliardo e mezzo sbandierato nelle slide del commissario Cottarelli che hanno illuso gli italiani sulla speranza di abbattere in fretta gli esborsi bellici.
I programmi più costosi – dai caccia Eurofighter ai sottomarini U-212 – hanno corazze a prova di taglio: annullare i contratti implica penali a nove cifre. La lista dello shopping per il 2015 comprende 1180 milioni per gli aerei, 487 milioni per gli apparati elettronici di comunicazione e controllo, 184 milioni per le navi, 162 per i missili e 158 per armamenti assortiti. Ma è un campo minato: non c’è modo di disinnescare questi ordini senza finire intrappolati in cause legali destinate a una cara sconfitta. Al massimo si può dilatare l’impegno su più anni, con la prospettiva alla fine di ritrovarsi in mano sistemi ormai obsoleti. Oppure aggrapparsi ad appigli tecnico-politici per negoziare sconti: quello che in questi giorni stanno facendo tedeschi e spagnoli, che contestano problemi strutturali agli Eurofighter per cercare di abbassarne il prezzo stratosferico. A noi italiani i 96 esemplari dell’intercettore europeo costeranno 21,1 miliardi: 219 milioni l’uno, includendo pure gli investimenti per lo sviluppo. Un record assoluto.
Dilemma supoercaccia – Certo, si può intervenire sugli F-35, le icone dello spreco militare, che vengono comprati di volta in volta. Per quest’anno l’investimento è stato congelato mentre per il 2015 sono stati ipotizzati 644 milioni. La Pinotti ha però annunciato che entro dicembre firmeremo altri due ordini. Una decisione che pare ispirata dalla volontà di salvare capra e cavoli: rallentare al massimo gli esborsi per il supercaccia senza chiudere lo stabilimento di Cameri, dove si spera che novanta imprese nazionali possano fare affari con l’assemblaggio e la manutenzione del jet. Parte degli accordi sottoscritti con gli Usa dal governo Berlusconi è ancora top secret e sembra di capire che ci siano clausole drastiche: se l’Italia prosegue nella moratoria la prospettiva di perdere le ricadute industriali diventa concreta. Ed ecco che nel racimolare i nuovi 600 milioni di tagli è inevitabile sfoltire il personale. Far scattare subito la riduzione degli organici che dovrebbero passare da 175 mila a 140 mila militari nel prossimo futuro. I primi a cadere potrebbero essere generali e ammiragli, che il ministro vuole portare da 443 a 310: l’avanguardia di una potatura dei comandi che prevede il sacrificio di 4200 ufficiali e 7000 marescialli. Come avverrà la decimazione non è chiaro: licenziare gli statali non si può, gli incentivi alle uscite hanno scarso appeal e quindi resta la mobilità volontaria con il trasferimento in altre amministrazioni.
L’avanzata dei contratti invisibili – Si cerca poi di trovare un modo per vendere una parte delle decine di caserme inutilizzate: immobili talvolta in pieno centro storico, che non trovano acquirenti. Finora, nell’impossibilità di piazzarle all’asta, si è scelta la cessione gratuita – come è accaduto a Firenze – ad altri enti pubblici. Il che comporta un risparmio, tra elettricità, tasse e manutenzione, ma nessuna nuova entrata. Un faro speciale è stato acceso sui contratti che la Difesa assegna senza fare gare, per trattativa diretta o procedura negoziata: una montagna di quattrini, spesso fuori controllo. “L’Espresso” ha esaminato gli ultimi bilanci, adesso integralmente consultabili sul sito web del ministero, dove le sorprese non mancano. Per la manutenzione degli immobili e la manovalanza “straordinaria” nel 2013 sono stati spesi 4 milioni e 285 mila euro, affidati di anno in anno sempre alle solite imprese. Il caso più clamoroso però sono i noleggi di navi e aerei per il trasporto di uomini e mezzi. La Avandero soltanto negli ultimi mesi ha incassato contratti che possono valere fino a 292 milioni di euro (vedi articolo a pagina 36): più di quanto il bilancio preveda per la logistica nel prossimo anno. Ma negli elenchi si trova di tutto. Nessuna gara per la gestione di mense e cucine, che nel 2012 è costata 153 milioni. Ben 372 mila per il noleggio di autobus da una società campana, che al momento del contratto era sotto inchiesta della magistratura, mentre le forze armate possiedono centinaia di pulmann. Gli acquisti di beni e servizi attraverso Consip – la centrale statale che dovrebbe garantire prezzi calmierati – sono un’eccezione. Non solo. Spesso negli accordi trattati direttamente con le industrie si riconosce pure “l’aumento quinto”: un ritocco extra che copre ulteriori costi del produttore in maniera pressoché automatica. Così la Beretta ha avuto due milioni e 400 mila euro in più per fucili e lanciagranate e altri 100 mila per binocoli laser, l’Aerosekur un milione e mezzo, la Rheinmetall 350 mila, l’Iveco 205 mila euro per “revisione prezzi”, la Vitrocisiet un aumento di 233 mila.
Il missile flop da 600 milioni – Accordi piccoli e grandi capaci di sfuggire ai monitoraggi. Ci sono programmi che si trascinano per decenni, fino a perdersi per strada. Come il missile anti-aereo Meads. Un ordigno invisibile: è costato già 2,7 miliardi ma non esiste nemmeno un prototipo completo. Il progetto è stato concepito assieme a Germania e Stati Uniti: l’Italia finora ci ha messo circa 600 milioni. Gli studi sono partiti alla fine negli anni Novanta e non si vede ancora il traguardo. Due anni fa Washington ha detto basta. I politici di Berlino e i generali di Roma non si sono ancora arresi – anche perché l’Aeronautica nel frattempo è rimasta senza batterie terra-aria – e cercano una maniera per rivitalizzare il missile distruggi-quattrini: l’hanno proposto invano alla Polonia, che ha declinato l’invito. Ora bisogna decidere se staccare la spina dei finanziamenti oppure proseguire nell’accanimento terapeutico a carico dei contribuenti. I tedeschi si pronunceranno il prossimo anno, mentre al momento nel nostro bilancio non si materializzano altri fondi. Quei 600 milioni rischiano di essere solo un regalo di Stato alle aziende coinvolte, prima fra tutte Finmeccanica, per fare ricerca tecnologica.
Il programma dall’origine più misteriosa è decisamente quello dell’Aermacchi M-345: un jet per la formazione dei piloti spuntato dal nulla nell’estate 2013. Non se n’era mai parlato prima, ma improvvisamente si decide di rivoluzionare le scuole di volo dell’Aeronautica adottando questa nuova creatura del gruppo Finmeccanica. L’allora ministro Mario Mauro ne è talmente innamorato da annunciare nel settembre 2013 che diventerà il prossimo velivolo delle Frecce Tricolori. Un’exploit sorprendente, soprattutto nell’era delle amputazioni di bilancio. Già si stava faticando per comprare, sempre dall’Aermacchi, un altro aereo da addestramento molto più potente e costoso, l’M-346. E gli stormi dove si insegna a pilotare non sembravano a corto di macchine.
Trenta aerei fermi a terra – In realtà, negli stessi mesi in cui nasceva il nuovo jet negli hangar dell’Aeronautica si è verificato un grosso guaio. Tutti i trenta velivoli scuola sono stati messi a terra: il motore si surriscaldava e rischiava di fermarsi in mezzo alle nuvole. I comandi saggiamente hanno scelto di non correre pericoli e bloccato i decolli. Il problema è che quei trenta aerei SF-260 EA sono semi-nuovi, consegnati sempre dall’Aermacchi tra il 2005 e il 2007. Per avere un’idea, i loro predecessori sono rimasti in servizio per trent’anni di fila e sono ancora ambiti dagli appassionati. Come è stato possibile non accorgersi dei difetti di una macchina tecnologicamente semplice e sbagliarne l’acquisto? Di fatto, gli aerei sono ancora fermi: si è corsi ai ripari facendo istruire gli allievi con vetusti monomotori per il traino di alianti e altri velivoli noleggiati dagli aeroclub. Dopo un anno i tecnici hanno trovato una soluzione per rimettere in aria i trenta aerei azzoppati, tempi e costi però restano dubbi. E nel frattempo si è inventata la necessità di un nuovo reattore.
Il governo Renzi ha finora rotto le ali all’M-345. Con l’arrivo della Pinotti al posto di Mauro, il progetto è stato escluso dalle priorità: nelle ultime previsioni triennali del ministero non viene neppure citato. Aermacchi invece continua a credere nella bontà dell’M-345: il prototipo è stato esibito due mesi fa al salone di Londra con i prestigiosi colori delle Frecce, proclamandone l’ingresso nelle file della nostra aviazione nel 2017. Chissà se alla fine non riuscirà nell’intento.
Spesso nello shopping militare la volontà dell’industria ha la meglio sulle esigenze delle forze armate, imponendo apparati di scarsa utilità o invecchiati precocemente: sistemi che difficilmente si riesce ad esportare. Non è un caso se l’unico blockbuster sui mercati esteri è il fuoristrada blindato Lince, creato in proprio dall’Iveco e venduto in mezzo mondo. D’altronde, i fondi del ministero Sviluppo Economico per armamenti nel 2014 hanno superato i due miliardi di euro. È lo Sviluppo Economico a pagare i supercaccia Eurofighter e i jet d’addestramento M-346, i blindati Freccia e le fregate Fremm. È sempre lo stesso dicastero a farsi carico di Forza Nec, il piano per digitalizzare i soldati con una spesa di 800 milioni per dotare di gadget hi-tech studiati da Selex (Finmeccanica) due sole unità di fanteria. Con il gran finale delle sovvenzioni a scatola chiusa per la flotta: 5,8 miliardi di euro con cui costruire 6 pattugliatori, una nave anfibia, un rifornitore e due vedette per gli incursori. Milioni stanziati senza nemmeno un disegno di massima degli scafi, con l’obiettivo di dare fiato a Fincantieri e garantire un futuro alla Marina: insomma, un finanziamento sulla fiducia. Tante rate, da qui al 2032, che lasceremo sulle spalle dei nostri figli.