A Casa Loro (estratto lettura scenica)
Lo scorso 11 luglio. A Scandiano.
per info sullo spettacolo info@epochearteventi.it
Lo scorso 11 luglio. A Scandiano.
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Alla fine ce l’abbiamo fatta. Siamo andati in scena con A Casa Loro che adesso, come succede dopo un’anteprima, diventa grande ed è pronto per andare in giro. È una scommessa ardita, questo spettacolo, perché, credetemi, negli anni ho scoperto ben bene come ci voglia coraggio anche a metterli in scena certi temi, anche a farsene organizzatori. E la questione della Libia e dell’immigrazione continua ad essere uno di quesi discorsi che si preferisce lasciare alle conversazioni private. Lo scriviamo anche nello spettacolo:
«Solo che i morti di indifferenza muoiono che non se ne accorge nessuno. Si spengono come lampadine di una strada deserta in cui non passa nessuno.
Il vicolo deserto in cui non passa nessuno, trattato come un sacco dell’umido da chiudere stretto senza nemmeno guardarci dentro, per non rovinarsi l’appetito, è la Libia di cui tutti parlano e nessuno legge, la Libia che è diventata la discarica dei nostri errori e dei nostri orrori. E invece lì dentro ci sono storie che vanno prese a piene mani e portate in giro. Con pazienza, cura. Come quando si cambia una lampadina, appunto.»
Intanto ringrazio tutti quelli che a questo spettacolo hanno lavorato duramente in questi mesi: Nello Scavo nella scrittura, Amanda Pisi e Giordano Gelati nell’organizzazione e nella cura, Alessandro Nidi nella regia video e tutti quelli che ci hanno creduto fin dall’inizio. Come scrive Civati (che sull’immigrazione si spende da sempre) nel suo post:
L’atto unico (senza appello, potremmo dire) è forse la cosa migliore che sia stata pensata e messa in scena sul luogo comune più scontato della politica nazionale (e non solo nazionale, ahinoi): una vera lezione sul modo di rendere «plastica» l’esperienza delle migrazioni e dei suoi protagonisti.
Del resto sono anni che lo sentiamo dire, «Aiutiamoli a casa loro», a cui qualcuno (totalmente svaporato) ha voluto aggiungere: «davvero». Uno slogan che non spiega niente ma liquida tutto, come lo speculare «padroni a casa nostra», con l’immancabile corollario del «prenditeli a casa tua».
Ecco. Ora facciamo in modo che A Casa Loro vada in giro per casa nostra. Grazie a tutti.
Non credetegli. Mai. Il mare non uccide. Le persone uccidono. Anche l’indifferenza uccide, sì, anche quella: i morti per indifferenza li riconosci perché quando muoiono se gli apri gli occhi, con le dita, come si aprono due lembi, dentro ci trovi la pupilla di chi l’aveva capito da tempo che sarebbe finita così. Non sono mica come i morti improvvisi, quelli con lo sguardo interrotto che non ha nemmeno fatto in tempo di stringersi per il buio che gli veniva addosso: se avessero un minuto, un minuto ancora, un minuto di quelli che un minuto prima di andarsene uno torna e dice – ah! Scusa, un’ultima cosa – se avessero avuto quel minuto lì ve l’avrebbero raccontato anche loro che il mare, il mare non uccide. Uccide trascinarsi per il deserto come una mandria zoppa in balìa di pastori a forma di soldati; uccide farsi porto a forza di pregarne uno e provare a farsi legno per non bollire di sole e sale; uccide nascere dalla parte sbagliata del mondo, come una mela che casca dalla parte del dirupo; uccide l’indifferenza. Sì, l’indifferenza uccide, eccome se uccide. Ci sono più morti di indifferenza della somma di tutte le guerre mondiali, anche delle guerre dei tempi passati. Solo che i morti di indifferenza muoiono che non se ne accorge nessuno. Si spengono come lampadine di una strada deserta in cui non passa nessuno.
Il vicolo deserto in cui non passa nessuno, trattato come un sacco dell’umido da chiudere stretto senza nemmeno guardarci dentro, per non rovinarsi l’appetito, è la Libia di cui tutti parlano e nessuno legge, la Libia che è diventata la discarica dei nostri errori e dei nostri orrori. E invece lì dentro ci sono storie che vanno prese a piene mani e portate in giro. Con pazienza, cura. Come quando si cambia una lampadina, appunto.
(dal mio spettacolo “A casa loro”, scritto insieme a Nello Scavo, che è uno spettacolo teatrale ma forse sarebbe il caso che fosse un bigino da tenersi in tasca durante questa brutta campagna elettorale. Buon venerdì:)
Scrivevo giusto qualche giorno fa, a proposito della mia candidatura, che il programma politico in fondo è in tutto quello che faccio. Qualche giorno fa con Gino Strada a Casa Emergency ho avuto l’onore di presentare in anteprima alcuni passaggi del mio nuovo spettacolo “A casa loro” che ho scritto con il prezioso aiuto di Nello Scavo.
La registrazione non è un granché ma dentro ci trovate molto di quello che dico, che ho da dire, che voglio dire. Se ne avete voglia è qui:
Alla fine ci siamo convinti. Ci siamo detti che uno spettacolo politico (al di là delle legittime posizioni di ognuno) fosse un’occasione troppo importante per lasciar perdere e così ci siamo messi, penne in mano, a raccontare quanto sia falso che “non c’è alternativa” e quanto bisognerebbe avere memoria per avere il vocabolario per leggere il presente.
Così “Sono tutti uguali” si è fatto spettacolo ed è pronto per partire: il 23 gennaio ci vediamo al Teatro Verdi a Milano, alle 21, per una prima faticosissima ma che ci dà soddisfazione (a proposito, potete prenotarvi mandando una mail a info@bottegadeimestieriteatrali oppure attraverso l’evento Everbrite qui oppure direttamente su Facebook qui). Se avete voglia di “preacquistare” il vostro biglietto e invece volete contribuire anche alla produzione dello spettacolo potete andare qui nella nostra pagina del crowdfunding. Lo spettacolo (pensavo non ci fosse bisogno di dirlo ma lo dico) è completamente autoprodotto e autofinanziato e ovviamente anche le date organizzate dipendono tutte dalle nostre forze: per questo il crowdfunding è importante.
Perché l’abbiamo scritto questo spettacolo? Le risposte le trovate tutte nella nostra scheda:
“Uno spettacolo politico, sì, perché c’è bisogno come l’aria di teatro e di politica e perché forse nel tempo della comunicazione troppo facile e troppo veloce è davvero il caso di prendersi un palco, fare buio in sala e provare a raccontare quello che siamo stati, quello che siamo ma soprattutto quello che vorremmo essere. Per anni, facendo teatro, mi sono sentito dire che il mio teatro (“civile”, no? Lo chiamano così) era troppo politicizzato, detto con la faccia schizzinosa di chi s’è arreso a credere che la contemporaneità sia un fastidio che non deve irrompere sui palchi: questo spettacolo è politicizzato e tutto politico. In nome della caduta delle ideologie si è voluto, in questi anni, stropicciare anche le idee e l’eredità della storia come se fossero un souvenir di bigiotteria; e allora cosa c’è di meglio del teatro per provare a rimettere le cose in ordine?” (Giulio Cavalli)
«Sono tutti uguali» è un refrain molto popolare. Eppure dovrebbe avere tutt’altro significato: da corrivo slogan contro i politici (tutti quanti) dovrebbe tornare a essere espressione rivoluzionaria, costituzionalissima, potente. Con Giulio abbiamo pensato fosse possibile e lo abbiamo messo in scena, prendendo dichiaratamente le distanze da qualche ‘retroscena’ che distrae di solito l’attenzione del pubblico. (Giuseppe Civati)
Ci si vede in teatro.
L’anteprima dello spettacolo (teatrale e politico) “Sono tutti uguali” ci ha dato soddisfazioni. Il teatro e la parola sono armi bianche che non si fermano, sono virali: un’etica infettiva (e una visione di mondo) che vogliamo raccontare. Ora è il tempo della produzione (delle scene, dei materiali, del lavoro grafico e di tutti gli ingranaggi amministrativi) e per tutto questo abbiamo attivato un crowdfunding (che è parola anglofona e cacofonicissima) che noi preferiamo chiamare “produzione sociale”. Se vi va, se vi piace, potete preacquistare i biglietti (e avere la nostra gratitudine) qui.
La cifra indicata è il limite minimo per “aprire il sipario” ma, appena partiti, abbiamo già un inaspettato sostegno. E più saremo e più, sono convinto, sarà un viaggio da ricordare.
Carla ci scrive i motivi che l’hanno spinta a coprodurre con noi il progetto “L’amico degli eroi”. Se volete (e potete) darci una mano potete farlo anche voi qui.
Teramo, 23 agosto 2014
Ciao Giulio, sono passate circa due settimane dalla mail con cui chiedevi di scrivere o registrare il perché dell’adesione alla tua produzione sociale “L’amico degli eroi”. Ho provato a farlo in video, ma per ora non viene bene. Riproverò. Forse con le citazioni ho appesantito il mio discorso. Porta pazienza: è deformazione professionale… ed anche un po’ timore che le mie sole parole non bastino a rendere l’idea. Ed allora ecco:
aderisco ai contenuti, alla rabbia, all’indignazione, ai modi, ai toni, al colore, al desiderio, che vedo nel tuo impegno e che per me sono i presupposti per la costruzione di una nuova antropologia: “Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo. In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del diventare. A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. E’ un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco.” (Pier Paolo Pasolini)
aderisco soprattutto al COME di questo progetto. Mi riempie di gioia leggerti quando dici “Ho scritto e detto dappertutto che il lavoro vogliamo svolgerlo insieme a tutti i nostri produttori, quindi voi, e insieme raccoglieremo tutti gli eventuali suggerimenti e eventuali critiche”. Trovo sia un grande salto quantico. E’ quello che si chiama “coevoluzione”. La diponibilità, l’apertura all’altro sguardo, la fatica che ne consegue rappresentano il tipo di esperienza che dovremmo imparare a vivere. “Sta diventando generale, ai nostri tempi, una grottesca incapacità dell’intelletto umano a intendere che la vera garanzia della propria persona non si raccomanda già agli sforzi dell’individuo isolato, ma all’universale comunanza umana”. (Fëdor Dostoevskij)
aderisco alla grande voglia di futuro che si respira sempre nelle tue storie e che mi aiuta a riflettere sulle bugie che ci raccontiamo: quelle piccole e quotidiane, quando la vita ci dice di andare avanti ma noi ci fermiamo per paura pigrizia opportunismo o quando c’invita a respirare consapevolezza davanti al bivio per evitare l’inerzia; quelle grandi e collettive, quando scegliamo di fingere di non vedere oppure di opporci. Aderisco alla tua “finzione” (non fiction) perché ho imparato che certe volte fingere serve ad opporsi. “Insomma, gli era presa quella smania di chi racconta storie e non sa mai se sono più belle quelle che gli sono veramente accadute e che a rievocarle riportano con sé tutto un mare d’ore passate, di sentimenti minuti, tedii, felicità, incertezze, vanaglorie, nausee di sé, oppure quelle che ci s’inventa, in cui si taglia giù di grosso, e tutto appare facile, ma poi più si svaria più ci s’accorge che si torna a parlare delle cose che s’è avuto o capito in realtà vivendo.” (Italo Calvino)
aderisco alla felicità di portare nel tuo progetto il mio “sacro poco”, che non è “poco sacro”. “è come andare per il mondo incinti di quello che il mondo, di fatto, al momento, non è, non sa, non può” (Luisa Muraro). Buon lavoro e spero a presto. Ma, soprattutto, Grazie della tua fiducia.
Insomma alla fine sono quasi quindici anni che faccio il mio lavoro, che è il lavoro migliore che potesse capitarmi: raccontare storie. Certo poi alla fine le storie che racconti le paghi e non le cicatrizzi come dovresti, ne soffri le conseguenze e ne acquisisci i benefici, succede così a tutti, in ogni lavoro possibile ma in questi quindici anni alla fine ho imparato che nonostante gli sforzi (più o meno riusciti) di tenere libere le parole ogni libro ed ogni spettacolo sono il risultato del percorso di condivisione. Niente di troppo filosofico, eh: ragionarci insieme, litigarsi una scena o un capitolo, aspettare un cenno di approvazione o banalmente applaudire. Poi pubblicare o andare in scena sono semplicemente la fase ultima, l’emersione di uno spigolo di tutto il resto.
Fare cultura in questo tempo è un lavoro terribilmente politico, inutile fingere, soprattutto se raccontando storie si decide di dichiarare la propria posizione. Fa politica ciò che dici, come lo scrivi, il pubblico a cui decidi di rivolgerti, la storia che scegli e l’editore e il produttore.
Ho consegnato da poco il mio romanzo che uscirà prossimamente e ora c’è la stagione da programmare: saranno due nuovi spettacoli e uno dei due è uno spettacolo (e un romanzo) su Marcello Dell’Utri. Si intitolerà l’amico degli eroi e vuole essere un lavoro diverso da l’innocenza di Giulio nell’uso più cattivo della fantasia. Ne scriverò. Però stasera pensavo che un progetto così ha bisogno di una produzione politica, un editore del libro e un produttore dello spettacolo che siano un segno e un’indipendenza chiara e per questo mi è balenata l’idea di una “produzione sociale”, crowdfunding semplificherebbe qualcuno, che sia partecipazione nella presa di posizione. Ci sto pensando. Voi che ne dite?
Erano gli anni in cui tutto sembrava terribilmente uno scherzo. Gli anni in cui “disonorare era un questione di onore” e non sapevamo nemmeno che quel messaggio poteva essere abbracciato così tanto, così bene, così in tanti. Lo spettacolo di per se soffriva di avere attori divertiti, oltre che divertenti. Ma guardandomi indietro sono fiero di avere partecipato a DO UT DES.
L’abbiamo messo tutto online, a vostra disposizione, qui: