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straordinario

Contro i furbetti dei vaccini il governo dei migliori scontenti gli egoriferiti governatori e cambi passo

Qualcuno prova a dirlo fin dall’inizio della pandemia, quando il problema erano le difformi azioni intraprese dalle diverse regioni con i rispettivi presidenti nel ruolo di sceriffi per racimolare un po’ di facile consenso, e oggi alla luce di una campagna vaccinale che di nazionale ha solo il nome e che vede le regioni andare in ordine sparso forse sarebbe il caso di scriverlo con ancora più forza perché c’è un modo, stabilito dalla Costituzione e dalle leggi, per cambiare passo per davvero: smetterla di dipendere dalle capacità organizzative delle regioni e avocare allo Stato tutte le competenze della campagna vaccinale.

È vero, la riforma del Titolo V ha demandato alle regioni la gestione della sanità sotto il controllo dello Stato centrale ma una campagna vaccinale di queste proporzioni e di questa urgenza rientra nelle competenze dello Stato perché attiene alla dimensione collettiva della salute (come dice l’articolo 32 della Costituzione) e perché rientra in un piano di profilassi internazionale (art. 117, c. 2, lett. q, Costituzione). Anche la legge di bilancio nel comma 458 del suo articolo I prevede il potere del Commissario straordinario di sostituirsi alle regioni «in caso di mancata attuazione del piano o di ritardo».

Ad oggi siamo fermi al Piano strategico per la vaccinazione anti-SARS-CoV-2 elaborato lo scorso 12 dicembre dal ministero della Salute e attuato con decreto ufficiale dello scorso 2 gennaio poi aggiornato l’8 febbraio. In quel piano risulta che il compito dello Stato sia limitato alla definizione delle «procedure, gli standard operativi e il layout degli spazi per l’accettazione, la somministrazione e la sorveglianza degli eventuali effetti a breve termine». Troppo poco per avere davvero la capacità di coordinare un’operazione di queste dimensioni e per attivare il controllo «per garantire (come si legge nel Piano) l’implementazione dei piani regionali di vaccinazione e il loro raccordo con il Piano Nazionale di Vaccinazione».

Nella dicitura nazionale degli “altri servizi essenziali”, ad esempio, ogni Regione ha deciso di andare per conto proprio includendo chi gli insegnanti, chi i magistrati, chi gli avvocati e favorendo inevitabilmente l’intrufolarsi dei furbetti dei vaccini: per questo Figliuolo si è ritrovato a dover definire con più precisione le “categorie estremamente fragili” eliminando gli “altri servizi essenziali” per provare a fare un po’ di ordine. Allora se questo è il Governo dei migliori, o comunque dei più coraggiosi, si prenda la briga di rischiare di scontentare i presidenti di Regione più egoriferiti e i partiti (che tra l’altro sono quasi tutti al comodo in maggioranza) e cambi passo per davvero con gli strumenti giuridici a disposizione. Altrimenti la sensazione è il solito decisionismo annacquato che non funziona contro il virus.

L’articolo Contro i furbetti dei vaccini il governo dei migliori scontenti gli egoriferiti governatori e cambi passo proviene da Il Riformista.

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San Fatturato

La sentite l’aria che tira? A volte basta mettere insieme un po’ di pezzi, provare a ricomporre le tessere per farsi un’idea del punto in cui siamo, anche perché la preoccupante uniformità di pensiero che si respira ottunde le sensazioni e non c’è niente di meglio delle sensazioni ottuse per inseguire interessi particolari che così sfuggono più facilmente.

Ricapitoliamo: a inizio pandemia si sviluppa un pericoloso focolaio nella bergamasca che provoca una strage di cui abbiamo memoria per i camion militari costretti a trasportare le bare. Ci si interroga (anche la magistratura) sul perché non sia stata istituita per tempo una “zona rossa” che avrebbe potuto limitare i danni e Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, rilasciò una sconcertante intervista in cui disse testualmente che erano «contrari a fare una chiusura tout court così senza senso» e di averne parlato direttamente con la Regione: «Ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse. Non si poteva fermare la produzione», disse.

Poi, pensateci: in un anno di pandemia abbiamo visto puntare il dito un po’ contro tutti, siamo passati dagli anziani che pisciano il cane ai corridori agli spiaggiati agli aperitivisti alle scuole – presumibilmente saremmo passati anche ai cinema e ai teatri, ma sono chiusi da un’eternità – e chi poi ne ha più ne metta. Niente su fabbriche e pochissimo sui pendolari. Il mondo del lavoro (soprattutto quello produttivo) sembra immune al virus, se fate la rassegna stampa di quest’anno.

In compenso certa stampa si è lanciata in un piuttosto ridicolo sforzo per dirci che fare il rider è un lavoro bellissimo: ve li ricordate quei giorni in cui si leggevano articoli che favoleggiavano di ciclisti che guadagnavano 4mila euro al mese (poi si scoprì che non era vero) tanto per convincerci che chi non trova lavoro è uno sfaticato e chi è povero è un fallito? Ecco, tenetelo a mente.

Poi. Qualche giorno fa Bonomi ha rilasciato un’intervista da brividi in cui ha chiesto di avere più possibilità di licenziare per rilanciare il lavoro. E nessuno che gli ha riso in faccia, pensa te.

Poi ve la ricordate Letizia Moratti che chiedeva di vaccinare in base al Pil? Prese gli applausi dei soliti turboliberisti ma poi fece un po’ marcia indietro. Bene: ieri Regione Lombardia (la disastrosa regione che non riesce a vaccinare poco più di qualche manciata di anziani che dovrebbero essere una priorità) ha annunciato in pompa magna di avere stretto un accordo con Confindustria (questa volta alla luce del sole) per vaccinare i dipendenti nelle aziende. Qualcuno ha fatto notare che forse ci sono altri problemi a cui dedicarsi e loro hanno risposto che sì, sì ma hanno fatto la conferenza stampa solo così per dire.

Tutto questo mentre ci si prepara per l’ennesima volta al lockdown che ci permetterà di uscire per andare a lavorare, di respirare aria aperta per tornare indietro e addirittura di avere una libera uscita per andare a comprare cibo.

Straordinario.

Buon giovedì.

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Ma la soddisfazione del repulisti è breve

Siamo ancora in quel momento in cui l’eliminazione delle pedine precedenti viene considerata una vittoria, dove ad esempio le dimissioni forzate di Domenico Arcuri bastano per fare esultare elettori e per infervorare capi di partito che si appuntano la medaglia il merito della cacciata (su Arcuri sono Renzi e Salvini, curioso nevvero?) e dove “basta non vedere più certe facce” per sentirsi già meglio, secondo alcuni. Il governo Draghi è all’inizio della sua opera, sentimentalmente è ancora acerbo e il profumo della vendetta continua a spirare. Però alcuni fatti incontestabili si scorgono.

Innanzitutto in meno di una settimana Mario Draghi ha cambiato le persone apicali a cui è affidata la missione contro la pandemia. Non è una scelta di poco conto, soprattutto in un Paese che piuttosto avrebbe mediato, spacchettato e mischiato le competenze per tenere in bilico assetti nuovi e quelli passati. Di questo gli va dato atto: si è preso la responsabilità di imprimere una svolta (per ora almeno sui nomi e poi naturalmente anche sulle dinamiche) della distribuzione del vaccino e della gestione dell’emergenza. Ieri ha preteso le dimissioni del commissario straordinario all’emergenza Domenico Arcuri, prima aveva sostituito il capo della Protezione civile Angelo Borrelli richiamando Francesco Curcio e al coordinamento dei servizi segreti ha messo il capo della polizia Franco Gabrielli, al posto del diplomatico Piero Benassi.

Qualcuno in queste ore ci dice che la dipartita di Arcuri (che per ora cade perfettamente in piedi visto che è e rimane a capo di Invitalia) sarebbe “una vittoria della destra”: falso. Arcuri è, forse sì, uomo molto stretto a Giuseppe Conte ma le osservazioni sul suo operato sono arrivate da più parti. È l’Arcuri che ha fallito su tutta la linea con l’app Immuni, è l’Arcuri dei banchi a rotelle tra l’altro arrivati persino troppo tardi, è l’Arcuri delle costose e inutili primule come centri vaccinali, è l’Arcuri sempre tronfio in conferenza stampa che non rispondeva ai giornalisti o se rispondeva lo faceva con una querela, è l’Arcuri soprattutto che c’entra con l’inchiesta della procura di Roma per traffico di influenze illecito nell’acquisto di 1,25 miliardi di euro in mascherine cinesi intermediato da un giornalista Rai in aspettativa, Mauro Benotti, che ha ottenuto 12 milioni di euro per la mediazione che ha avuto 1282 contatti con Arcuri tra gennaio e maggio 2020. Insomma Arcuri ha molto da spiegare e molto da farsi perdonare e anche su queste pagine ne abbiamo scritto spesso.

Ieri sui social girava una card di pessimo gusto di PiùEuropa (quelli che dovrebbero essere seri) che diceva “ciao #Arcuri” con la scritta “Liberisti da divano te salutant”. Salviniani e renziani hanno esultato sbracciandosi. Siamo ancora nel tempo del rancore. E intanto ci ritroviamo pezzi di esercito a gestire la pandemia, con l’aria di un’idea militarizzante che ricorda tanto ciò che fa Bolsonaro in Brasile. E a nessuno viene il dubbio che per quel compito ci sarebbe, proprio per sua natura, ad esempio anche la Protezione civile. Ma quando finirà la voglia di rottamazione, finalmente, osserveremo e giudicheremo i risultati.

Buon martedì.

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L’estate a scuola? Se lo propone Azzolina è una scemenza, se lo dice Draghi ha perfettamente senso

Confessiamolo, non è un gran momento per assistere a discorsi lucidi sulle proposte politiche: la spasmodica attesa e le grandi aspettative del possibile prossimo governo Draghi e il fatto che per il momento sembrano volerci entrare praticamente quasi tutti i partiti hanno sdoganato posizioni fideistiche che confidano sul potere taumaturgico del governo che verrà.

E invece un po’ di lucidità fa bene a noi e può essere d’aiuto anche a Mario Draghi, sicuro. In queste ore sta ottenendo lodi sperticate la proposta del premier incaricato di tenere aperte le scuole fino alla fine di giugno “per recuperare le giornate perse” durante la pandemia (riferiscono così i parlamentari che hanno partecipato alle consultazioni).

Si alzano i cori: “Prolungare la scuola è il vero messaggio al Paese”, scrive l’ex senatore del Pd Stefano Esposito. “Dopo un anno la cui preoccupazione del Governo è stata la chiusura delle scuole […] la capite la differenza?”, fa notare l’ex deputato Fabio Lavagno.

E via così: il giornalista de La Stampa Iacoboni scrive del passaggio “dalla propaganda a delle sane, semplici idee di governo” e gli editorialisti esultano.

Tutto bene, per carità. Ma c’è un punto che forse vale la pena rimarcare: la proposta di prolungare l’anno scolastico fino a fine giugno era già stata lanciata dalla ex ministra Azzolina proprio a dicembre dell’anno scorso, poche settimane fa.

In quel caso la reazione della stampa e della politica fu diametralmente opposta (cadendo spesso nella derisione) e il mondo della scuola pose obiezioni che valgono ancora oggi: la Cisl parlò di idea “inopportuna” chiarendo come ci fossero “scuole dove l’attività non si è mai interrotta, anzi, ci sono scuole in cui si è sempre lavorato tra mille difficoltà”. “Le scuole sono aperte, nessuno ha chiuso”.

Il coordinatore nazionale della Gilda Insegnanti, Rino Di Meglio, parlò di “proposta offensiva verso i colleghi che stanno sgobbando con la dad”. La Uil rifiutò la proposta invitando il Governo a “uscire dall’estemporaneità per il lavoro straordinario e confuso”.

Venne poi fatto presente il problema della sovrapposizione degli esami e dei problemi di salubrità climatica di molte classi del sud. Qualcuno fece notare che il problema della scuola in tempi di pandemia sono i dispositivi di sicurezza, i trasporti e l’areazione delle classi (che sarebbe costata meno dei banchi a rotelle).

Un po’ di lucidità, insomma, perché osannare le stesse proposte dell’altro Governo dopo averle derise non fa bene al clima generale e alla presunta serietà che si vorrebbe imporre. E questo non è un problema di Draghi: questo ha a che fare con la credibilità di tutti gli altri intorno.

Leggi anche: 1. Borghi (Lega) a TPI: “Sostegno a Draghi è la scelta più sovranista che possiamo fare” / 2. La moltiplicazione dei pani, dei pesci e dei titoli derivati: Mario Draghi santo subito (di Alessandro Di Battista)

L’articolo proviene da TPI.it qui

Un regalo: la comunanza

La comunanza è una chiave di lettura collettiva di persone che si riconoscono uguali in qualcosa. Sotto l’albero quest’anno vi auguro di trovarne un po’

La chiameremo comunanza anche se è una parola che si è impolverata parecchio in questi anni di verbi ipermuscolari, di termini affilati per tagliare i pochi caratteri dei social e di aggettivi sempre magniloquenti e turbo per dopare il dibattito. Comunanza invece è una parola mite come la presa di coscienza collettiva, che non è mica arrendevole anche se quest’anno ha avuto la tentazione di arrendersi spesso. La comunanza è una chiave di lettura collettiva di persone che si riconoscono uguali in qualcosa: pensiamo che sia il virus, no, non è così semplice, non è così immediato, non è così superficiale.

Sotto l’albero quest’anno vi auguro di trovare un po’ di comunanza, anche una fetta sottile, da dividere come si dividono il pane quelle comunità che vivono degne perché rifiutano e allontanano gli ingollatori, li giudicano indegnamente avari per potere essere membri della comunità.

Abbiamo la comunanza di paure. Ed è un collante straordinario la paura. Pensa se sotto l’albero trovassimo la forza e la lucidità di riconoscersi spaventati per elaborare, ognuno con l’esperienza del proprio spavento, una strategia comune per riconoscere le paure, riconoscerne la dignità e per prendersene cura. Pensa se sotto l’albero trovassimo un vocabolario contrario a quello di chi usa e ha usato le paure per esacerbare gli animi e invece trasformassimo le paure in un’occasione di nobiltà e di gentilezza. La comunanza di paure genera mostri oppure costruisce comunità.

Abbiamo la comunanza di affetti da manutenere difficoltosamente. E quest’anno potremmo avere in regalo l’occasione di capire che gli affetti per sbocciare dignitosamente e per essere innaffiati hanno bisogno di capacità di spostamenti, di avere gli strumenti per poter dire che “andrà tutto bene” perché la frase da sola è uno slogan che non salva nessuno. Gli affetti hanno bisogno di un futuro possibile. Ce ne siamo accorti: il diritto all’affetto non è il diritto all’abbraccio (rifiutarlo può essere una premura) ma è il diritto ad esercitarlo con dignità. Questo Natale non mancheranno i cenoni, mancherà per molti la possibilità di dirsi che sì, ce la faranno.

Abbiamo la comunanza di sperare nel lavoro. E nel lavoro non ci si dovrebbe sperare in un Paese normale. I diritti quando mancano mancano come manca l’aria e ora il reddito spaventa anche chi aveva il lusso di non interessarsene. È una comunanza dolorosa ma su cui si potrebbe costruire uno scenario diverso se non fossimo qui ad accapigliarci per i chilometri da percorrere.

Abbiamo la comunanza della dignità della malattia. Erano così meno i malati che i loro diritti sembravano una fissazione per pochi e invece ora sono diventati terribilmente popolari, tragicamente popolari. Pensa che regalo se ora diventassero un chiodo fisso per molti.

Ecco questo Natale vorrei che la comunanza trovata sotto l’albero non si disperdesse e diventasse lei, lei sì, virale davvero. Pensa come cambierebbe tutto.

Buon venerdì.

L’illustrazione in alto di Fabio Magnasciutti è una delle opere che compongono il calendario 2021 di Left. Lo trovate in edicola fino al 7 gennaio in allegato al numero 52 

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“Quello che mi resta di mamma morta di Covid? Un sacchetto con le sue cose infette”, la terribile storia di Moira

Una foto che gronda solitudine, un sacchetto rosso appoggiato per terra con gli indumenti e gli effetti personali della madre morta di Covid all’Irccs Policlinico San Donato. Moira Perruso, che di mestiere è una giornalista ma si occupa anche di fotografia, ha condiviso quel momento sul suo profilo Facebook: «Ai miei piedi ciò che mi restituiscono di mia madre… Non posso nemmeno buttarmi a capofitto su quegli abiti per sentire ancora una volta il suo odore, sono infetti… Per chi nega, per chi specula, per chi non ha protetto: che possiate sentire anche voi il rumore del cuore in frantumi». In poco tempo sul suo post si sono accavallate centinaia di testimonianze di persone che hanno vissuto lo stesso dolore.

«Il post è nato – mi racconta Moira – perché ho chiamato l’ospedale, volevo indietro le cose di mia madre, la sua fede nuziale, una collanina che indossava sempre e che le avevamo regalato noi. “Posso riavere gli oggetti di mia mamma?”, ho chiesto. Quando sono arrivata al Policlinico, al settimo piano del reparto Covid un infermiere mi ha adagiato il sacchetto, con anche i suoi vestiti, e mi ha chiesto una firma. Quel momento mi si è fissato negli occhi e ho voluto fotografarlo perché era un fatto emotivo personale ma anche un fatto pubblico, qualcosa che sta accadendo a migliaia di persone. Solo oggi ho ricevuto centinaia di mail di figli che hanno ritirato così le cose di un genitore. Mia madre stava bene, cresceva i nipoti, tutta una vita messa ai miei piedi. In quel momento mi sono detta: come si fa a negare questa evidenza? Come si fa a dire: “Non muori per Covid ma muori con il Covid”».

Già, questo gioco di frugare tra le parole per sminuire. Mia madre è morta di Covid, mia madre stava bene e ora è un mucchio di vestiti infetti. Capisco anche i medici, non hanno il tempo fisico per trattare il dolore, non possono anche curare “l’umano”, ma io ho avuto il cuore in frantumi. Mi è stata negata anche la “liturgia” della morte, non ha potuto indossare quel maglione rosso che amava, nessuno che la teneva per mano. Era una donna riservata e dignitosa. Ora quando mi addormento la penso sigillata dentro un sacco. Ma come si fa a non avere la responsabilità di proteggere il prossimo? Non possiamo pensare di dare colpa alla politica se non siamo responsabili come individui. La giustizia non è una delle virtù cardinali? Moira ce l’ha con i negazionisti.

Non si può negare, non è più tempo, non si può dire che i Pronto Soccorso sono vuoti, non si può avere il coraggio di dire che le ambulanze girano vuote. Il negazionista cos’ha? Paura della morte? Da che cosa è afflitto? Becera ignoranza? Il mio dolore non è un complotto. Mi è stato negato il diritto di seppellire mia madre e non so nemmeno dove sia in questo momento. Mi è stata negata anche la morte, di mia madre. Sono arrivate tantissime testimonianze. Forse c’è bisogno di parlare del dolore, se ne parla ancora troppo poco. Sì, si sta parlando troppo poco del dolore, nella narrazione si trascurano le persone. I protocolli tra ospedali cambiano: mio padre (anche lui malato di Covid) è all’Humanitas e mi chiamano tutti i giorni per aggiornarmi sulle sue condizioni di salute mentre per mia madre ho dovuto implorare dopo otto giorni di sapere qualcosa, poi mi hanno detto che l’avrebbero svezzata e che andava tutto bene, poi le hanno messo il casco poi la morfina, poi è morta.

Non l’ho più sentita. Ma questa cosa me l’hanno raccontata un migliaio di persone, che è anche una responsabilità, per me. Ho l’immagine di mia mamma terrorizzata che si sarà chiesta che fine avrà fatto la sua famiglia. Lei mi ha accudito per 50 anni e io non sono stata capace di accompagnarla nella morte. Lo so, è una roba scontata, ma dov’è lo straordinario nel dolore? È un momento in cui siamo di fronte a un fatto che sta cambiando il mondo e il nostro modo di affrontare il dolore. E forse chi nega semplicemente ha una paura fottuta.

L’articolo “Quello che mi resta di mamma morta di Covid? Un sacchetto con le sue cose infette”, la terribile storia di Moira proviene da Il Riformista.

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Due, tre cose sul macabro balletto calabrese

Ma il governo si rende conto di non essere in grado di nominare un commissario della sanità per la Calabria senza incorrere in figuracce?

Tre commissari nel giro di dieci giorni. Roba da fantascienza di quart’ordine, sembra un filmato horror di quelli con il pomodoro visibilissimo al posto del sangue, solo che qui ci si gioca la salute di una regione intera come la Calabria e ci si gioca la credibilità di un governo, anche se lassù fanno finta di niente.

Siamo partiti con il prode Cotticelli, l’ex generale dei Carabinieri che è riuscito nella mirabile impresa di umiliarsi in televisione intervistato da un giornalista, quasi come un ladro beccato con le mani nel sacco. Ha cominciato a balbettare discorsi sconclusionati e poi si è accorto seduta stante di dover essere lui a occuparsi del piano Covid. Un servizio in cui la sua segretaria e l’usciere del palazzo sono apparsi come degli scienziati nei confronti di quel commissario (così lautamente pagato) che sembrava essere invece passato lì per caso. Cotticelli è riuscito a fare ancora di più: si è immolato poi ospite da Giletti dicendo che era «in uno stato confusionale», forse era stato drogato e di non riconoscersi più. Uno schifo.

Poi arriva Zuccatelli. Una nomina lampo, non c’è che dire: giusto il tempo di essere nominato (ovviamente come “grande professionista” con la solita liturgia che accompagna ogni nomina politica, anche quando si tratta di amici di partito). Parte forte Zuccatelli, perfino Nicola Fratoianni di Leu ne contesta la nomina. Basta qualche minuto e ecco Zuccatelli in un bel video in cui ci dice che le mascherine «non servono a un cazzo» e che per ammalarci dobbiamo baciarci per almeno 15 minuti. Caos, figuraccia. Arriva il ministro Speranza che dice che Zuccatelli non si può giudicare da un video e che la sua esperienza è fuori discussione. Quindi uno pensa che rimarrà al suo posto. E invece si dimette e ci dice che gliel’ha chiesto Speranza. Quindi? C’è qualcosa di più di quel video che non sappiamo? Boh, niente di niente.

Infine in pompa magna viene nominato Eugenio Gaudio, che intanto ha a che fare con un’indagine della Procura di Catania probabilmente presto archiviata, e qualcuno dal governo parla di tandem con Gino Strada. Gino Strada li sbugiarda dicendo che non esiste alcun tandem. Ieri Gaudio ci dice che non può accettare perché, dice proprio così, sua moglie non vuole trasferirsi a Catanzaro. Ieri pomeriggio a Tagadà il ministro Boccia dice addirittura che non vero che il governo l’aveva nominato, che ci stava pensando, poi ci ripensa, balbetta che il ruolo del commissario straordinario per la sanità non sia un ruolo “importante”, poi ci ripensa, poi esce una nota stampa in cui si scopre che Gaudio si è dimesso senza nemmeno confrontarsi con il ministro Speranza. Niente di niente. Finisce così. Che poi Gaudio abbia accettato un ruolo così delicato senza avvisare a casa è una roba che farebbe ridere, se non facesse piangere.

A questo punto la domanda è una secca: ma il governo si rende conto di non essere in grado di nominare un commissario per la Calabria senza incorrere in figuracce? E poi: il governo si rende conto della delicatezza del ruolo soprattutto in questo momento? E poi: ma c’è qualcosa che non sappiamo?

Sullo sfondo, agitato come una reliquia, quel grande uomo che è Gino Strada e Emergency.

Che pena.

Buon mercoledì.

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Ve lo buco, ‘sto Natale

Che Paese straordinario che siamo. Ci dicono che non è il tempo di riflettere sugli errori compiuti (e guardate che trattandosi di sanità sono sopratutto delle regioni) perché vorrebbe dire mortificare i morti, ci propinano virologi che dicono cose opposte sui media, virologi assolutamente incauti nella comunicazione (per dirla in modo buono), ci fanno ascoltare le canzoni di quella diventata famosa perché in spiaggia disse che non ce n’è di Coviddi e intanto tutta la discussione si concentra sul Natale.

Badate bene: non si concentra sul Natale per il valore eventualmente religioso, ci si concentra sul fatto che il Natale forse sì o forse no lo possiamo passare con i parenti. E intanto muoiono 600 persone al giorno quasi. E il cenone di Natale occupa tutte le conversazioni. Che poi non hanno nemmeno il coraggio di dirci che il tema non è mica il Natale, no, no, figurati, non hanno mica il coraggio di dirci che devono lasciare una parentesi per i consumi, che vorrebbero trovare la formula algebrica per farci uscire solo giusto il tempo per riempire il carrello che non sia mai che si rimane fuori solo al costo di uno spritz, no, no, ci vogliono fare intendere che la preoccupazione sia tutta sentimentale come in una brutta sit-com sentimentale ce la buttano su parentele. Che poi anche sulle parentele ci sarebbe da discutere, poiché noi siamo un Paese in cui i congiunti sentimentali sono quelli certificati, decine di parenti ma guai a voler vedere qualcuno a cui confessiamo tutti i nostri peccati da anni ma che ha la sfortuna di non essere descritto da un Decreto.

Intanto c’è chi strappa uno stipendio da fame, se ci riesce, c’è chi si ammala e non riesce a farsi curare e c’è chi muore. Mentre si parla di Natale senza avere il coraggio di fare un cenno all’economia. Una lunga, interminabile, paternale. Che strano Paese che siamo, che Paese incredibile: il presidente del consiglio introduce il Natale con una lettera improponibile di un bambino e ieri un giornalista del Corriere della Sera parla addirittura di “dittatura”, scrive proprio così Pierluigi Battista e chi gli risponde su Twitter? Il portavoce di Conte che per certificare l’esistenza del bambino posta un video di Barbara D’Urso.

E lì ho pensato che tutto era compiuto, che il cerchio si era chiuso, che stiamo a posto così. Mentre De Luca in sottofondo chiede un giorno “tutto chiuso” e il giorno dopo “tutto aperto”. In attesa del Natale. Buona fortuna a noi.

Buon lunedì.

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La Calabria ha bisogno di qualcuno senza scopi di lucro: proprio come Gino Strada

La Calabria ha bisogno di qualcuno senza scopi di lucro: come Gino Strada

Non va proprio giù ai leghisti della Calabria l’ipotesi (che per ora rimane solo un’ipotesi) di Gino Strada commissario straordinario della sanità regionale. Ci mette il carico il presidente ad interim Nino Spirlì, uno che in poche settimane è riuscito nella mirabile impresa di mostrarsi in tutta la sua inadeguatezza, dopo la morte della presidente Jole Santelli, che sul fondatore di Emergency dice: “Gino Strada? Ma cosa c’entra, dobbiamo scavare pozzi? Non abbiamo bisogno di medici missionari africani”. Peccato che Gino Strada non si occupi di pozzi, ma sia un medico chirurgo che è stimato in tutto il mondo, uno che, per dire, ha lavorato nelle università di Stanford e di Pittsburgh e che ha lavorato nel più importante ospedale del Regno Unito (l’Harefield Hospital).

Semplicemente Gino Strada si è innamorato delle vittime della guerra quando ha visto con i suoi occhi quegli orrori e si è dedicato tutta la vita alla cura delle persone senza nessuno scopo di lucro. Che sarebbe, a pensarci bene, proprio quello di cui la Calabria avrebbe bisogno, se ci pensate. Ma su Gino Strada si è espresso anche Domenico Furgiuele che ieri a Montecitorio ha dichiarato: “Nominare un ulteriore commissario rispetto a quello che è stato nominato nel primo governo Conte, con la paventata nomina di Gino Strada, suggerito anche dal movimento delle Sardine, porta soltanto a problemi di ordine pubblico”. Ha parlato proprio di ordine pubblico. Anzi, ha aggiunto: “Volete che scoppino i moti? Accomodatevi, ci saranno i moti della Calabria 2020”.

Domenico Furgiuele è lo stesso deputato di Lamezia Terme indagato dalla Dda di Reggio Calabria per concorso in turbativa d’asta. Domenico Furgiuele e altri imprenditori, infatti, nel maggio 2015, secondo l’accusa, “con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso” e “con mezzi fraudolenti e collusioni, turbavano la gara d’appalto” indetta dal Comune di Polistena per la realizzazione di un eliporto a supporto dell’ospedale”. In particolare il deputato del Carroccio, legale rappresentante della Terina Costruzioni, avrebbe messo “a disposizione” la sua società “per la presentazione di un’offerta concordata con le altre imprese partecipanti al cartello, al fine di condizionare il risultato della gara in loro favore”. L’inchiesta “Waterfront” in cui risulta indagato Furgiuele ha portato all’arresto di 63 persone tra cui 11 funzionari pubblici e al sequestro di beni per 103 milioni di euro.

Ce ne sarebbero mille di motivi per i moti della Calabria 2020. E forse ci tornerebbe utile, un Gino Strada.

Leggi anche: 1. “Se scoppia la Calabria è la fine. Qui il piano Covid mai attivato: realizzate solo 6 terapie intensive”: il racconto di un medico del 118 / 2. Calabria, il Governo non usi Gino Strada per nascondere i suoi vergognosi errori / 3. Esclusivo: Cotticelli a TPI: “Davo fastidio alla massoneria. Volevano eliminarmi, non potendo uccidermi mi hanno screditato” / 4. Calabria, il commissario della Sanità Cotticelli si dimette: “Il piano Covid dovevo farlo io? Non lo sapevo” | VIDEO; / 5. Per gestire la Sanità della Calabria ora si fa il nome di Gino Strada / 6. Calabria, il nuovo commissario alla Sanità Zuccatelli: “Le mascherine non servono a un ca**o”

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Calabria, il Governo non usi Gino Strada per nascondere i suoi vergognosi errori

Povera Calabria. Povera terra che ostinatamente prova a sopravvivere a una classe dirigente che si occupa soprattutto di essere diligente con i propri padroni piuttosto che con i propri compiti, una terra in cui spesso ciò che è Stato si rivela essere un ostacolo per incompetenza, per tradimento di valori e per servilismo. La Calabria in questi giorni occupa le pagine dei giornali per l’incredibile sequela di figuracce che arrivano da un piano importante, l’ufficio del “commissario straordinario” alla Sanità che dovrebbe essere, per nome e per ruolo, la figura di garanzia in un momento buio che attraversa il mondo.

E invece prima c’è la pessima commedia del generale Saverio Cotticelli, quello che scopre durante un’intervista di essere lui a dover preparare il piano anti-Covid che in Calabria continua a mancare e che poi giusto per peggiorare la sua situazione si inventa un’ospitata da Massimo Giletti per farci sapere che “non era lui”, che forse era “stato drogato” e che non si riconosceva nelle sue stesse azioni. Qui siamo a livelli di insaputismo che supera ogni fantasia.

Poi arriva Giuseppe Zuccatelli, il Governo corre (male) ai ripari e decide di nominare un manager sanitario che in Calabria non ha certo collezionato grandi successi (durante la prima ondata lo scandalo della Rosa di Villa Torano è finita in un’inchiesta ancora in corso) e che sembra avere come merito quello di un’appartenenza politica spiccatissima nelle fila di Leu, con cui si è candidato riuscendo a prendere più o meno i voti di un rappresentante di classe.

È bastato grattare un po’ la superficie per scoprire il nuovo commissario calabrese esprimere fantasiose teorie su mascherine che non servono, sul virus che si prende solo baciandosi per almeno 15 minuti e altre bischerate che l’hanno fatto scaricare persino dal suo compagno di partito Nicola Fratoianni.

Ora gira l’idea di Gino Strada. Ma attenzione: come sub commissario. In sostanza si torna sul nome di chi per il M5S era un papabile presidente della Repubblica e che poi è diventato uno degli amici dei “taxi del mare”. E cosa vorrebbero fare di lui? Nominarlo alle dipendenze di Zuccatelli per lavarsi la faccia e ripulire un po’ tutta questa lordura. E la cosa fa un certo senso: credere che una personalità come Gino Strada possa fare da secondo a Zuccatelli significa avere un’idea distorta del merito e un’impenitente attaccamento ai propri errori. Quindi siamo sicuri che nessuno potrebbe avanzare una proposta così offensiva. Vero? Sì?

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