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stupro

Niente padri e madri della vittima?

Nel gran rito collettivo della difesa del leader da due giorni si sta consumando un’inaspettata empatia per l’accusato nonostante da anni in molti abbiano provato a convincerci che fosse una postura immorale, sospettosa, perfino colpevole. Solo che questa volta il “padre” con cui solidarizzare è il simbolo di un partito politico e quindi molti si sentono in dovere di farlo. Quando si dice “politicizzare” le vicende giudiziarie si intende proprio questo: qualcuno con un grande seguito che usa vicende penali (che dovrebbero essere personali) come paradigma di un clima politico. È la stessa cosa di Berlusconi che si dichiara perseguitato per via giudiziaria dai suoi avversari politici, è lo stesso di Salvini che ci vorrebbe convincere che la “sinistra” lo manda a processo. Uguale uguale. Pensateci.

Poi ci sono i soliti ingredienti che intossicano tutte le volte le presunte vittime di stupro: un uomo potente (e con il potere di parlare a molti) che urlaccia e vittimizza la presunta vittima un’altra volta. Incredibile la discussione sulle ore che servono a denunciare uno stupro: una bassezza da fallocrati davanti allo spritz che viene rivenduta ancora una volta su tutti i media nazionali. Beppe Grillo è riuscito a condensare in pochi minuti tutta la cultura dello stupro: un giudizio personale che vorrebbe valere come Cassazione, una discussione spostata sulle presunte colpe della presunta vittima e noi dei presunti colpevoli e perfino quel “lo dico da padre” che ci ha fatto incazzare per mesi quando pronunciato da Salvini.

Non solo. Grillo ha pubblicamente dato della bugiarda alla vittima. Come scrive giustamente Giulia Blasi per Valigia Blu: «Ogni volta che ci domandiamo come mai in Italia sia così difficile parlare di abusi sessuali, ricordiamoci questo: che il capo di un partito politico può tentare di immischiarsi nel procedimento giudiziario a carico di suo figlio e aggredire verbalmente la donna che lo accusa, senza che ci siano conseguenze immediate, che il partito stesso se ne dissoci e lo costringa a farsi da parte (“dimettersi” sarebbe impossibile, data la natura liquida del ruolo di Grillo, che rimane tecnicamente un privato cittadino). La vita, la sicurezza e l’integrità fisica delle donne contano così poco, di fronte alla necessità di mantenere il quieto vivere».

Tutti pronti a mettersi nei panni del padre e della madre del presunto colpevole e nessuno in quelli della presunta vittima. Annusate l’aria che c’è in giro in questi giorni e avrete la dimostrazione plastica del perché per una donna sia così difficile denunciare.

È stato un gesto sconclusionato e pessimo e al Movimento 5 stelle conviene dirlo forte e chiaro per non essere invischiato. A meno che non si voglia votare in Parlamento che quella fosse la figlia di Mubarak, visto che ci sarebbero perfino i numeri per farlo.

Buon mercoledì.

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Fa uccidere l’ex moglie e usa la figlia come alibi: l’orrore del femminicidio di Ilenia Fabbri a Faenza

Contiene tutti i caratteri che ci sono in tanti ex mariti assassini e per questo la storia di Ilenia Fabbri, l’ennesimo femminicidio avvenuto a Faenza lo scorso 6 febbraio, va raccontata. Ieri le forze dell’ordine hanno arrestato Claudio Nanni, 53 anni, ex marito di Ilenia ritenuto mandante dell’omicidio e Perluigi Barbieri, 51 anni, un picchiatore conosciuto lì in zona, un professionista di spedizioni punitive e di vigliaccheria che è già stato condannato per atti di violenza contro un disabile.

Negli atti del gip c’è il solito uomo che ritiene sua moglie, anche se ex, una proprietà privata che non ha nessun diritto di sopravvivere alla fine di un rapporto e che deve essere annientata per espiare la sua colpa di essere libera: Nanni dal 2017 aveva continuato a minacciare e aggredire l’ex moglie, era preoccupato per una causa che lei gli aveva intentato per il lavoro che aveva svolto nella sua officina di famiglia senza mai essere pagata, non versava i 500 euro mensili per la figlia Arianna e aveva deciso che l’omicidio sarebbe stato il modo migliore per risolvere il problema.

“Avido, paranoico del controllo, privo di scrupoli”, scrive di lui il gip Corrado Schiaretti che ha ripercorso le tappe dell’omicidio: il 10 dicembre Nanni è rinchiuso in casa per Covid e contatta Barbieri per fare “tutte le cose che bisogna fare”, il 20 e il 29 dicembre i due si incontrano, si scambiano le chiavi di casa, pianificano il percorso del killer nell’abitazione e probabilmente fanno un sopralluogo.

All’alba del 6 febbraio Claudio Nanni passa a prendere la figlia Arianna, 21 anni, al mattino presto, ha intenzione di usarla come alibi mentre il killer le uccide la madre. Barbieri entra in camera da letto ma Ilenia combatte, scappa per le scale, lui la massacra di botte e infine la sgozza.

In casa però c’è la fidanzata di Arianna che sente il trambusto, chiama Arianna, padre e figlia tornano indietro, Arianna chiama la polizia e urla al padre di accelerare. Nanni a quel punto, scrive il gip, piange in maniera incontrollata, consapevole di ciò che sta accadendo invita la fidanzata della figlia a non uscire dalla stanza e nascondersi.

Quando arrivano davanti alla casa, Nanni non scende dall’auto, non ha bisogno di vedere, sa già tutto. Manda la figlia. Un uomo che ha usato la figlia come alibi e che l’ha delegata a vedere il corpo morto di sua madre. La sua messinscena di una rapina andata male è fallita. Ora è in carcere e ancora una volta noi siamo qui a scrivere di una donna che prima di Natale aveva confidato alla sua avvocatessa di volere fare testamento. Ed è finita proprio come temeva. Perché l’assassino delle donne, qui in Italia, ha quasi sempre le chiavi di casa della sua vittima.

Leggi anche: 1. Violenza sulle donne, le scarpe rosse di Loredana Bertè a Sanremo non bastano più /2. Massacrata dall’ex, Clara si era pagata il funerale da sola: già sapeva di morire e nessuno ha fatto niente /3. Tremavo, ero un corpo vuoto: vi racconto cosa si prova durante uno stupro” | VIDEO TPI 

L’articolo proviene da TPI.it qui

Sul caso Genovese auguri al carnefice e attenuanti alla vittima: il mondo rovesciato di Vittorio Feltri

È dura essere Vittorio Feltri. Ogni mattina si sveglia e deve riuscire a intercettare gli umori peggiori dei più bassi discorsi da bar e metterli su pagina per manganellare qualcuno. Oggi il “giornalista” se la prende con la vittima di Alberto Genovese e lo fa con un editoriale che si racconta già dal titolo: “Ingenua la ragazza stuprata da Genovese”.

Si comincia instillando un dubbio: “Certo, gli piacevano le donne e non credo che faticasse a procurarsene in quantità – scrive Feltri. Che necessità aveva di rincorrere allo stupro per impossessarsi di una ragazza bella e giovane dopo averla intontita con sostanze eccitanti? Ciò è incomprensibile sul piano logico”.

E così il dubbio è subito bello e servito. Ma Feltri dà il peggio di sé nella descrizione dello stupro: “Dicono che Genovese sia andato avanti tutta la notte a violentare Michela, una ragazzina di 18 anni la quale pare fosse la terza volta che si recava nell’abitazione del nostro “eroe” del menga […] Come si fa a darci dentro per tante ore. Io, anche quando ero un ragazzo, dopo il primo coito fumavo una sigaretta…”.

Finito qui lo schifo? No, no. Feltri ci dice “personalmente ho constatato che si fa fatica a farsi una che te la dà volentieri, figuratevi una che non ci sta”. Capito? Per Feltri, come per tanti sostenitori del giornalismo fallocratico, non c’è differenza tra violenza, stupro e un normale rapporto amoroso: è tutto solo un atto sessuale, è tutto solo quella cosa lì, tutto uguale, sempre uguale.

Il finale poi è un manifesto di indegnità giornalistica. Feltri si domanda se la vittima “entrando nella camera da letto dell’abbiente ospite” pensava “di andare a recitare il rosario”, senza sospettare “che a un certo punto avrebbe dovuto togliersi le mutandine senza sapere quando avrebbe potuto rimettersele” e scrive che “sarebbe stato meglio rimanere alla larga da costui”. Insomma, se l’è cercata.

Il vomitevole editoriale si chiude con “lui” che “adesso la vedrà brutta o non la vedrà per anni (indovinate cosa, nda) con l’augurio di “disintossicarsi in carcere”. E la vittima? Scrive Feltri: “Alla vittima concediamo le attenuanti generiche. Ai suoi genitori tiriamo le orecchie”. Auguri al carnefice e attenuanti alla vittima: il mondo rovesciato di Vittorio Feltri è tutto qui.

Qualcuno dice che non bisognerebbe sottolinearli certi pezzi, qualcuno dice che bisognerebbe fare finta di niente. Ma c’è una responsabilità sulle parole che ritorna proprio in questo periodo ancora più prepotente: la violenza sulle donne inizia quasi sempre con la parola, è lì che si infila la prima fallocrazia. Qualcuno dice che Feltri fa così per provocare, benissimo, allora mettiamoci d’accordo su quale sia il limite delle cosiddette “provocazioni” che poi non sono altro che articoli che vogliono parlare a un pubblico ben preciso: i maschi che per sentirsi maschili sanno solo essere maschilisti. La violenza sulle donne è qualcosa di troppo grave e di troppo serio per essere lasciata in mano a Feltri e per questo c’è da continuare a sottolineare qualsiasi sua schifezza, soprattutto se pubblicata su un giornale di tiratura nazionale.

Del resto ci sono articoli scritti bene, articoli scritti male, articoli giusti, articoli sbagliati e articoli scritti con il cazzo dentro la penna. E in questi ultimi Feltri (e quelli di cui fieramente si fa portavoce) è un maestro. L’Ordine dei giornalisti non ha niente da dire?

Leggi anche: Il triste declino di Vittorio Feltri: da erede di Indro Montanelli a provocatore pro-Salvini (di F. Bagnasco)

L’articolo proviene da TPI.it qui

“Sembra un maschio, non è stupro”. La sentenza shock delle tre giudici (donne)

Ne scrive Repubblica. Troppo mascolina. Poco avvenente. E quindi è poco credibile che sia stata stuprata, più probabile che si sia inventata tutto. È un ragionamento che già indignerebbe se ascoltato in un bar, ma che letto in una sentenza fa un effetto ancora peggiore. Per di più se a firmarla sono tre giudici donne. Che scelgono, così, di assolvere in appello due giovani condannati in primo grado a cinque e tre anni per violenza sessuale. E nelle motivazioni scrivono che all’imputato principale “la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo “Vikingo” con allusione a una personalità tutt’altro che femminile quanto piuttosto mascolina”. Poi la chiosa: “Come la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare”. 

Il verdetto è stato annullato con rinvio dalla Cassazione come richiesto dal procuratore generale che ne ha evidenziate alcune incongruenze e vizi di legittimità. Per cui il processo di appello dovrà ora essere rifatto. Ma intanto la sentenza bocciata ha fatto saltare sulla sedia più di magistrato della Suprema Corte. Perché leggendone il testo sembra che a influire sulla decisione delle tre magistrate sia stato proprio l’aspetto fisico della donna.

Un passo indietro. Ancona, marzo 2015. Una ragazza di origini peruviane, 22 anni (la chiameremo Nina, nome di fantasia) si presenta in ospedale con la madre dicendo di avere subito una violenza sessuale alcuni giorni prima da parte di un coetaneo, mentre un amico di lui faceva da palo. Il gruppetto frequentava la scuola serale, dopo le lezioni i tre avevano deciso di bere una birra insieme. Le birre diventano parecchie, la giovane e uno dei due compagni si appartano più volte, hanno rapporti sessuali. Per gli imputati erano consensuali, per la parte offesa a un certo punto hanno smesso di esserlo, sia per l’eccesso di alcol sia per una esplicita manifestazione di dissenso. I medici riscontrano lesioni, compatibili con una violenza sessuale, e un’elevata quantità di benzodiazepine nel sangue che la vittima non ricorda di aver mai assunto. 

Dopo le indagini, si apre il processo di primo grado che il 6 luglio 2016 condanna uno dei due, quello che ha avuto i rapporti con Nina, a cinque anni, e il suo amico che ha fatto da palo a tre. Gli imputati ricorrono e il 23 novembre 2017 la Corte d’Appello dà loro ragione. Li assolve perché non ritiene credibile la ricostruzione della parte offesa. Fino a qui, nulla di strano: normale dinamica processuale. Quello che non fa parte della dinamica processuale, prima anomalia, è che la parte offesa venga definita dalle giudici della Corte d’Appello di Ancona, nelle motivazioni, come “la scaltra peruviana”. 

Non bastasse questo, le tre componenti del collegio si lasciano andare a commenti e valutazioni fisiche forse dimenticando che il loro ruolo è sì quello del giudice, ma penale, e non di un concorso di bellezza. Tanto da arrivare a scrivere nelle conclusioni della sentenza che “in definitiva, non è possibile escludere che sia stata proprio Nina a organizzare la nottata “goliardica”, trovando una scusa con la madre, bevendo al pari degli altri per poi iniziare a provocare Melendez (al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo di “Nina Vikingo”, con allusione a una personalità tutt’altro che femminile, quanto piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare) inducendolo ad avere rapporti sessuali per una sorta di sfida”. Insomma, gli imputati devono essere assolti, così avevano stabilito le tre giudici marchigiane. Perché Nina, secondo loro, non poteva essere desiderata: sembrava un maschio.

(fonte)

L’aggravante dello stupro? La vittima (ancora)

La Terza sezione penale della Cassazione ieri ha scritto nero su bianco che in caso di stupro di gruppo se la vittima è ubriaca ai colpevoli non può essere contestata l’aggravante di «aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche». Sapete perché? L’uso delle sostanze alcoliche, spiega la Cassazione, deve essere «necessariamente strumentale alla violenza sessuale, ovvero deve essere il soggetto attivo del reato che usa l’alcool per la violenza, somministrandolo alla vittima». Se lo stupratore offre una birra è condannabile con aggravante, se invece si impegna a trovarne una già ubriaca di suo allora ha fatto bingo e può permettersi di puntare a sostanziali sconti di pena.

Se ci pensate, banalizzando, la Cassazione dice che una donna in evidente stato di fragilità (in questo caso per alcool) è in parte colpevole di ciò che le viene violentemente inflitto da altri. È sempre la stessa schifosissima storia: l’analisi della vittima è un piatto troppo ghiotto per non buttarcisi. E così l’inesorabile erosione dei diritti conquistati dalle (e per le) donne continua. E i loro diritti continuano a scivolare, insieme alla legge 194 che in molti vorrebbero ritoccare, insieme al femminicidio che viene buttato in caciara e insieme ai putridi casi, come quello dei carabinieri e delle studentesse americane a Firenze, che mentre il processo sta valutando la colpevolezza dei due uomini in divisa, sembra essere sparito dal dibattito pubblico (del resto con che faccia potrebbero parlarne ora i Salvini o le Meloni di sorta?).

Sembra di tornare alla sentenza del 2006 in cui una ragazzina quattordicenne pagò lo scotto di non essere più vergine e quindi fondamentalmente colpevole; oppure ai famosi jeans del 1999 che fecero intendere ai giudici che non potessero essere sfilati senza una «fattiva collaborazione»; la sentenza 40565 del 16 ottobre 2012 la Corte di Cassazione ha deciso che durante una violenza di gruppo, uno sconto di pena deve essere concesso a chi «non abbia partecipato a indurre la vittima a soggiacere alle richieste sessuali del gruppo, ma si sia semplicemente limitato a consumare l’atto»; oppure la sentenza del 2014 in cui la Cassazione ci insegnò che gli imputati per violenza sessuale possono ottenere uno sconto di pena per aver commesso un fatto «di minore gravità» anche nel caso di violenze carnali “complete” ai danni delle donne.

Anche Cappuccetto rosso, in fondo, decidendo di attraversare il bosco se l’è andata a cercare.

Buon martedì.

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«Trova sexy le divise?»: il medioevo piomba sul processo delle ragazze stuprate a Firenze

Dodici ore e 22 minuti sotto un fuoco di fila di domande. Le studentesse Usa di 20 e 21 anni che a settembre a Firenze hanno denunciato di essere state violentate da due carabinieri in servizio, tre mesi fa sono tornate in Italia per ripetere le loro accuse davanti a un giudice. Nell’aula bunker, separate dai legali, hanno risposto su quella notte, quando dopo una serata in discoteca hanno incontrato due carabinieri in divisa che si sono offerti di accompagnarle a casa. I carabinieri hanno ammesso il rapporto sessuale sostenendo che c’era il consenso delle ragazze. Le analisi hanno confermato che le ragazze erano ubriache. I difensori dei militari avevano annunciato 250 quesiti per ogni ragazza. Il giudice, il solo che poteva parlare con loro e doveva fare da filtro, ne ha ammesse molte meno: ecco la sintesi dell’interrogatorio
(Antonella Mollica)

Il giudice Mario Profeta spiega le «regole» dell’udienza alle due ragazze: «Verrete ascoltate oggi e poi non sarete più disturbate, se si farà il processo quello che verrà detto oggi varrà come prova. La legge non consente che le testimoni vengano offese, non sono consentite domande che attengono alla sfera personale, che offendono e che ledono il rispetto della persona».

Avvocato Cristina Menichetti (difensore del carabiniere Marco Camuffo): «Prima di arrivare al rapporto sessuale non si era scambiata nessuna effusione con Camuffo, effusioni consensuali e reciproche?». Avvocato: «Durante questo rapporto il carabiniere l’ha mai minacciata, ad esempio urlando o con le mani?».
Risposta: «Nessuna minaccia esplicita però mi sentivo minacciata dal fatto che lui porta un’arma».
Avvocato: «Quindi ha usato la forza per sottometterla?».
Giudice: «Cosa intende per forza avvocato?».
Avvocato: «Se ha dovuto forzarla, esercitare una certa pressione, se è un gesto violento con una certa vis impressa nel gesto». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Non ha lottato fisicamente? Volevo sapere se Camuffo ha esercitato violenza…». (A questo punto il legale scende nei particolari della presunta violenza sessuale, ndr).
Giudice: «Che brutta domanda avvocato. Sono domande che si possono e si devono evitare nei limiti del possibile, perché c’è un accanimento che non è terapeutico in questo caso… Non bisogna mai andare oltre certi limiti. È l’inutilità a mettere in difficoltà le persone, non si può ledere il diritto delle persone».
Avvocato: «Lei trova affascinanti, sexy gli uomini che indossano una divisa?». Giudice: «Inammissibile, le abitudini personali, gli orientamenti sessuali non possono essere oggetto di deposizione».
Avvocato: «Lei indossava solo i pantaloni quella sera? Aveva la biancheria intima?». Domanda non ammessa.
Avvocato Giorgio Carta (difensore del carabiniere Pietro Costa): «In casa avevate bevande alcoliche? Lei ha bevuto dopo che i carabinieri sono andati via?». (L’avvocato cita nuovamente in modo esplicito la presunta violenza sessuale, ndr).
Giudice: «Non l’ammetto, non torno indietro di 50 anni».
Avvocato: «Alla sua amica hanno sequestrato tutti i vestiti compresi slip e salvaslip, voglio capire se lei ha nascosto qualche indumento alla polizia». Domanda non ammessa.
Giudice: «Si fanno insinuazioni antipatiche, perché si dovrebbe nascondere alla polizia degli indumenti?».
Avvocato: «Penso che qualcuno abbia finto un reato, io non voglio sapere come lei circola, con o meno gli indumenti, voglio sapere se ha dato tutto alla polizia».
Giudice: «Ricorda il momento in cui le hanno sequestrato gli indumenti?».
Ragazza: «No».
Avvocato: «Io non ci credo che non lo ricorda».
Giudice: «Non possiamo fare la macchina della verità».
Avvocato della ragazza: «Giudice, vorrei sapere a che punto siamo delle 250 domande annunciate dall’avvocato».
Giudice: «Se sono come le ultime sono irrilevanti, andiamo avanti. Se stiamo cercando la spettacolarizzazione avete sbagliato canale».
Avvocato: «La ragazza si è sottoposta a una visita ginecologica sulle malattie virali. Possiamo sapere l’esito di questa visita?».
Giudice: «Sta scherzando avvocato? Questo attiene alla sfera intima non è ammesso questo genere di domande. Ripeto: non torno indietro di 50 anni, non lo consento a nessuno».
Avvocato: «Si può sapere se ha una cura in corso?».
Giudice: «No».
Avvocato: «È la prima volta che è stata violentata in vita sua?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Quando era in discoteca ha dato una o due carezze ad un carabiniere?». Domanda non ammessa.
Più avanti, rispondendo a un altra domanda, la ragazza racconta: «Non mi ricordo tutto, ero ubriaca, però mi ricordo che ci siamo baciati e che lui mi ha tirato giù la maglietta. Mi ricordo che ha cercato di toccarmi nelle parti intime, che ha tirato fuori il pene e io ero assolutamente in choc. Ero così sconcertata, però, ero talmente ubriaca, mi sentivo indifesa non avevo la forza di dire o fare qualcosa. Mi ricordo che gli dissi di no, non volevo avere un rapporto con lui. Dopo non ricordo più niente. So che abbiamo avuto un rapporto».
Giudice: «Allora come fa a dire che ha avuto un rapporto? Glielo chiedo con rispetto ma questo aspetto deve essere chiarito».
Ragazza: «Perché sentivo fastidio alle parti intime».
Avvocato: «Quando è entrata in Europa ha dichiarato che aveva soldi in contanti? Alla dogana ha dichiarato i soldi?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Ha un fidanzato?».
Giudice: «Cosa ci interessa avvocato?».
Avvocato: «Voglio sapere se ha un fidanzato, se è un poliziotto ecc…».
Avvocato: «È stata arrestata dalla polizia negli Stati Uniti? Ha precedenti penali?».
Giudice: «Domanda non ammessa. Non si può screditare un teste sul piano della reputazione, lo si può fare sul contenuto delle dichiarazioni. Se un teste non è una persona sincera lo dobbiamo rilevare dal contenuto delle dichiarazioni».
Avvocato: «A che titolo risiede negli Stati Uniti? (la ragazza è di origine peruviana, ndr). Era preoccupata per il suo titolo di permanenza negli Usa?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Ha mai visitato un negozio di divise a Firenze?».
Giudice: «Ma che ci interessa! Non è rilevante!».
Avvocato: «Ha mai fotografato il volantino di questo negozio?».
Giudice: «Non è rilevante».
Avvocato: «Ha scambiato il numero di telefono con il carabiniere quella sera? Ha promesso a un militare di rivedervi nei giorni successivi? Prima che le venisse sequestrato il telefono ha cancellato una telefonata?».
Avvocato: «Lei ha bevuto durante il tragitto dentro la macchina dei carabinieri?».
Avvocato: «Non le è sembrato strano che i carabinieri accompagnassero a casa le persone?». Domanda non ammessa.
Avvocato: «Il carabiniere si è accorto che lei era ubriaca?».
Giudice: «Non va bene avvocato, stiamo chiedendo a una persona ubriaca, affermazione senza offesa visto che l’ha detto lei, se avesse la capacità di rendersi conto del suo interlocutore».
Avvocato: «Ha mai detto al carabiniere che non avrebbe voluto fare sesso con lui?». Domanda non ammessa e riformulata.
Ragazza: «Dopo che lui ha tirato giù il top volevo che smettesse». Avvocato: «Il carabiniere ha insistito per avere contatti con lei? Ha insistito silenziosamente, con gesti e parole, perché uno insiste a un no…».
Giudice: «Ha manifestato questo non gradimento con comportamenti espliciti?».
Ragazza: «No, non avevo forza nel mio corpo».
Giudice: «E con questa risposta non accetto più domande così invadenti».
Avvocato: «Perché dobbiamo privarci di scoprire la verità, la ragazza muore dalla voglia di dire la verità, sentiamola se è salita a piedi…».
Giudice: «Che ironia fuori luogo, ora sta andando oltre il consentito. C’è una persona che secondo l’accusa ha subito una violazione così sgradevole e lei fa dell’ironia? Io credo che non sia la sede».
Avvocato: «Avevate alcolici a casa? Ha bevuto alcolici dopo che i carabinieri erano andati via?».
Avvocato: «Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina?»
Avvocato: «Cosa diceva esattamente la sua amica quando urlava? Erano urla di parole o semplicemente urla di dolore?».
Giudice: «No, fermiamoci qui, il sadismo non è consentito».

(fonte)

Le donne da vittime a imputate. Anche in tribunale.

A proposito delle due ragazze americane che hanno denunciato di essere state stuprate a Firenze e a proposito del mostruoso processo di rivittimizzazione Cristina Obber ne ha scritto su Lettera Donna:

 

A Firenze si è svolto l’incidente probatorio per le due ragazze americane che hanno denunciato di essere state stuprate da due carabinieri la notte tra il 16 e il 17 settembre 2017. L’Ansa specifica che «la difesa ha insistito sulla tesi di un rapporto consenziente, che le ragazze hanno negato decisamente per tutta la deposizione, tra pianti e malori».

Sette e cinque le ore consecutive di interrogatorio per le due ragazze. Tra pianti e malori, appunto. Una violenza che si chiama rivittimizzazione e che significa ritrovarsi da vittime a imputate anche nei luoghi preposti a darci giustizia. Una violenza perpetua, cristallizzata. I nostri tribunali sono ancora fermi al Processo per stupro, lo storico documentario che a fine Anni ’70 filmò un processo per stupro a Latina in cui era appunto evidente come a ritrovarsi sul banco degli imputati fosse la vittima, incalzata dalle domane degli avvocati sulla sua vita privata, domande volte a screditarne la credibilità.

Una cultura che non cambia e che nella narrazione degli stupri si concentra sempre sull’abbigliamento della vittima, le sue relazioni, le sue abitudini, la sua vita sessuale. Come se ci fosse qualche pertinenza. Come se indossare gli shorts o andare in giro dopo mezzanotte equivalesse ad andarsela a cercare, a una qualche corresponsabilità della vittima. Come se in caso di rapina fosse il rapinato ad essere processato per essersi incamminato in una via deserta, per aver istigato il ladro a delinquere, offrendogliene l’occasione.

D’altronde il sindaco di Firenze Dario Nardella, dopo la notizia sugli stupri aveva messo l’accento sull’abitudine degli studenti a sballarsi, allo stesso modo in cui lo pseudo-quotidiano Libero raccontava che le ragazze americane quella sera «barcollavano e non si reggevano in piedi». Eppure nelle aule dei tribunali approfittare della incapacità della vittima di difendersi magari proprio perché ubriaca, costituisce un’aggravante del reato. Ma le ragazze spesso non lo sanno, e per questo non denunciano, si sentono addirittura in colpa. Anche nei miei incontri nelle scuole superiori mi è capitato di sentirmi dire «Se una è strafatta non può pretendere che non le accada nulla», oppure: «Se una ti butta in faccia le tette poi non si può lamentare se si trova in un angolo».

 

(continua qui)

Weinstein – Asia Argento: quindi lo stupro ha una data di scadenza?

Che meraviglia vedere i benpensanti che benpensano e benscrivono un po’ dappertutto ergendosi giudici dei tempi di denuncia di Asia Argento, che “solo ora” (come Angelina Jolie e Gwyneth Paltrow) ha trovato il coraggio di denunciare il produttore di Hollywood Harvey Weinstein, uno dei tanti uomini che vive il potere spicciolo della propria posizione come carne a forma di uomo attaccata al proprio pene.

La colpa di Asia Argento (e di molte altre) sarebbe quella di avere “beneficiato” del rapporto sessuale estorto oppure di averlo denunciato troppo tardi oppure di non avere avuto “il coraggio di dire no” e per qualcuno anche tutte e tre le colpe insieme.

Evidentemente, mi deve essere sfuggito, da qualche parte si è deciso, in caso di stupro, di aprire la sagra della bile e dei giudizi sulla stuprata piuttosto che sullo stupratore, tutti presi (uomini e donne) dall’ansia di farsi saputelli come dal manuale della “brava stuprata”, seguendo le regole dei modi e dei tempi che ha deciso il senso comune. Evidentemente da qualche parte ci deve essere scritto che la paura (come la sottomissione e la vergogna e il dolore così difficile da elaborare) debba seguire le buone maniere. Mica lui, il maiale, no: tutti a giudicare la paura.

Nessuno che si interroghi sui contesti e sulle condizioni del ricatto. No, no. Troppo complesso. E la complessità non va di moda nei pensieri che annaspano per stare nei 140 caratteri. E la ferocia delle donne che, come dice bene Michela Murgia, “hanno ingoiato la cultura maschilista” racconta bene lo stremo di questo Paese nella capacità di comprendere le fragilità degli altri.

Poi, in tutto questo, mai nessuno che qui da noi (nemmeno gli eroi e le eroine che strepitano in queste ore) abbia il coraggio di raccontare delle migliaia di Harvey Weinstein nostrani, con nomi e cognomi italiani, che tastano l’eventuale disponibilità delle provinanti o delle “sottoposte” solo per aggiungere un tacca alla propria viscida libido. Quello che tutti sanno ma non dicono di “mostri sacri della televisione”, di registi vicini all’Oscar, di decine di agenti televisivi che trattano le donne come carne fresca. Nessuno che abbia il coraggio di dire che di Asie Argento qui in Italia è zeppo, anche se hanno dovuto subire per prospettive molto più corte. O forse è proprio quello il problema. E la ferocia.

Buon venerdì.

(continua su Left)

Scrive il gip di Firenze che è «estremamente verosimile» che le due studentesse americane siano state stuprate

Il giudice per le indagini preliminari di Firenze Mario Profeta ha rifiutato la richiesta di interdizione per un anno fatta dalla procura per i due carabinieri accusati dello stupro di due studentesse americane, ma ha anche detto che è «estremamente verosimile l’ipotesi che i rapporti sessuali siano stati consumati contro la volontà o comunque senza un consapevole valido e percepibile consenso delle due ragazze». Nel documento con cui ha rifiutato la richiesta di interdizione, Profeta ha anche praticamente escluso «l’ipotesi di una macchinazione» organizzata dalle due ragazze, dando un primo e importante giudizio sulla loro attendibilità. Profeta comunque ha deciso di non far interdire i carabinieri – una misura che in questo caso probabilmente prevedeva la rimozione dal servizio dei due uomini – perché «il clamore internazionale della vicenda» probabilmente impedirà per molto tempo il loro rientro in servizio (attualmente sono stati solamente sospesi).

(fonte)