E’ un brutto momento per le vicinanze di politici e imprenditori al margine del carcere. Sembra impossibile spiegare che ciò che la gente sopporta di meno è questa continua sensazione (se è solo una sensazione, eh) di vicinanza e comunione tra prepotenti imprenditori dannosi per la comunità e politici che indipendentemente dalle responsabilità giudiziarie dimostrano questa affezione autodistruttiva fatta di complicità e pacche sulle spalle. Mentre un paese impara il senso di misura dovuto alla miseria vorrebbe almeno dai governanti il senso della misura per responsabilità. Non è questione di eleganza, no: è la voglia sfrenata di una politica seria, fatta sul serio, che decida di rivendicare con fierezza le proprie vicinanze e le proprie estraneità, smettendola con questa favola del cattivo gusto rivenduto come dovuta cordialità
Il testo del mio intervento alla trasmissione “L’Ultima Parola”:
Caro Babbo Natale,
Mi chiamo Tommaso ho 7 anni e abito in un paese in provincia dell’Ilva,
Qui siamo quasi tutti in provincia dell’Ilva che è un provincia che non è mai stata abolita e al posto dei cartelli per segnare i confini ha un tappeto peloso e nero graffettato sotto i bordi del cielo come quelle tettoie abusive in giardino che aspettano solo i tempi del condono.
Caro Babbo Natale,
Questa lettera mi dice mamma che dovevo scriverla alla Befana, perché è lei che di solito si occupa del carbone, e io all’inizio mi ero anche preoccupato, Babbo Natale, ma poi sull’attribuzione dei poteri per le decisioni che contano mi ha detto mamma che in fondo vince chi arriva prima e chi riesce a fare la voce più grossa, e allora mi sono messo di corsa a scrivere questa lettera senza nemmeno perdere un minuto a lavarmi i denti e sto usando il pennarello con la punta più grande che avevo in giro per casa.
E mia mamma mi ha detto di stare tranquillo, che Babbo Natale capirà, mi ha detto mamma, che ogni tanto tocca a lui farsi carico di una lettera alla Befana che gli arriva per decreto ministeriale, come nelle commedie degli equivoci che fanno tanto ridere alla tivvù.
Vedi Babbo Natale,
Qui a casa nostra aspettiamo il natale per la neve sui balconi che è uno spettacolo da volarci via con la testa, davvero, e il quartiere diventa tutto bianco come il latte versato sopra ai tetti e ai balconi, bianco come i calzini dei pirati, bianco come le dimissioni che ha firmato papà per farsi assumere e bianco come le bare che sono cinquant’anni che ci passano sotto il terrazzo e sono lunghe poco più di me se mi metto sdraiato sul pavimento. Il bianco più veloce del west, Babbo Natale, che dura giusto il tempo prima che atterri di nuovo la polvere di carbone perché qui, Babbo Natale, in provincia dell’Ilva la neve nevica a Natale ma il carbone sono cinquant’anni che nevica tutto l’anno. Siamo bambini fortunati, qui da noi, sempre con l’ombrello aperto come nei film con la nebbia finta a vapore. E il bianco della neve dura il tempo di farci le foto per i parenti e poi si infeltrisce di nero come la coda di un gatto: i balconi, i tetti, i marciapiedi e i calzini bianchi dei pirati. Solo le bare bianche rimangono bianche, strofinate dalle mamme, il papà e i fratelli se ci sono fratelli. Una cosa da volarci via, dovresti vederla, Babbo Natale.
Caro Babbo Natale,
L’altro ieri la maestra ci ha dato un tema come compito a casa sulle cose che ci sono antipatiche e io, Babbo Natale, ci avevo scritto sopra che se c’è una cosa che mi rimane proprio sul gargarozzo, anche se sono solo un bambino cinico di sette anni, sono i morti di lavoro. E lei me l’ha segnato con l’errore del pastello blu e mi ha detto “Tommaso si scrive morti – al – lavoro” mi ha detto, e io le ho risposto che no, maestra, che questi sono morti – di – lavoro, che ne ho conosciuti di amici di papà che sono morti e quando ho chiesto di cosa sono morti lui mi ha detto di lavoro. Proprio – di – lavoro, maestra, mi ha detto così, perché ci sono morti che lavorano per curarsi il lavoro infame che gli hanno cucito addosso e che non riescono mica a pulirsi i polmoni e il sangue mettendolo in lavatrice, come fanno con la tuta.
La maestra, caro Babbo Natale, si è tirata fuori dalla tasca la gomma e mi ha cancellato la riga blu e poi mi ha detto sottovoce di non dirlo troppo in giro. Anche se, caro Babbo Natale, sul foglio del tema, che ci ho preso “bravissimo ma troppo curioso”, sul foglio ci è rimasta la macchia di blu. Perché gli errori gravi non si cancellano con la gomma, lo sanno anche gli asini più asini della mia classe, caro Babbo Natale.
Caro Babbo Natale,
Qui nel mio paese in provincia dell’Ilva ci sono morti che abbiamo solo noi, qui in giro: i morti che muoiono della pioggia di carbone ma non è colpa di nessuno. E quando non è colpa di nessuno, Babbo Natale, la colpa è dei morti che si ostinano a morire senza nemmeno preoccuparsi di chi è la colpa.
E allora, caro Babbo Natale, ti scrivo perché per questo Natale puoi anche fare a meno di portarci i pacchi impacchettati, così eviti di infilarti nel lurido dei nostri camini, e magari come regalo per quest’anno ci porti via il carbone che si è asfaltato sui banchi in questi ultimi cinquant’anni. Magari lo rivendi a prezzo buono alla befana per la sua prossima tournée di gennaio oppure ci fai uno svincolo su a casa tua al Polo Nord. L’importante è che ce ne liberi un po’ perché nemmeno con una tromba d’aria riusciamo a cacciarcelo giù per la gola.
E se ti capita portaci un libretto delle istruzioni sulle priorità della salute e del lavoro, un bugiardino come quello delle medicine che ci dica le dosi giuste per evitare le controindicazioni e la secchezza delle fauci.
Che qui i grandi li vediamo parecchio in confusione e non vorrei che ci facessero altre primarie, della salute contro il lavoro, e il doppio turno con il ballottaggio.
Buon Natale, Babbo Natale, dalla provincia dell’Ilva.
Il video è a questo link oppure qui sotto dal minuto 8 e 47 secondi:
Dicono: come avete fatto a costruire un quartiere sotto la fabbrica? Ma Tamburi era lì già da prima. E sapete perché si chiama così? Perché era il quartiere dove arrivavano le acque dell’acquedotto del Triglio e irrompevano chiare e cristalline nelle strade, facendo il rumore dei tamburi. Ditelo, ditelo a chi non ha studiato”.
Ancora applausi, a piene mani, in una piazza che per molti giorni è stata descritta come popolata da fanatici ultras di periferia e invece è gremita di distinte signore con i giornali sotto il braccio, volontarie di Legambiente col cappellino giallo e verde, anziani in bicicletta, ragazzi dei movimenti con i dreadlocks e le telecamere digitali e molte, moltissime, mamme con i bambini. “Vedi, mamma, quanta gente? Però dovevamo essere di più”, spiega una di loro al figlio di dieci anni, mentre gli passa una bottiglietta di acqua ghiacciata, perché il sole è di fuoco e i più piccoli vorrebbero scappare a tuffarsi in acqua dagli scogli di San Vito.
Ma i bambini sono il simbolo che la piazza si tiene stretto. Perché è il loro futuro che qui è in discussione, ripetono dal palco le ragazze del Comitato, mostrando i disegni dei bambini di oncologia pediatrica dell’ospedale Moscati. Tanti, troppi, ben al di sopra della media. “I casi più gravi andiamo a curarli al nord. A Roma o all’Istituto tumori di Milano. E quando arriviamo i medici ci dicono: ancora un altro bambino da Taranto? E voi perché non fate niente?”.
Nel frattempo a piazza Vittoria sono arrivati i ministri, Corrado Passera e Corrado Clini. Arroccati col presidente Vendola e uno stuolo di politici locali, da Raffaele Fitto a Nicola Latorre, in una prefettura che sembra un castello di mattoncini rossi sul mare e che si può guardare solo da lontano, perché le transenne sono dappertutto a sbarrare il passaggio.
La politica cerca soluzioni concrete, perché comunque la si voglia mettere, anche al netto della feroce crisi economica che lo stop alla produzione economica scatenerebbe (come dimostrano gli scioperi e i blocchi degli operai che sono continuati anche nelle ultime ore), l’Ilva non si spegne in un giorno. E come ripete Vendola da giorni: “Pensare di chiuderla significherebbe fare i conti con il più grande cimitero industriale d’Europa”. Oggetto di inquinamento anch’esso, insomma, di cui nessuno però si occuperebbe, è il sottotesto del presidente della Regione.
Ma quello che un’intera città contesta allo sbarco degli esponenti del governo Monti è l’ingerenza nei confronti della magistratura. Gli esponenti del Comitato scandiscono al microfono una lezione di diritto costituzionale: “Ci hanno insegnato che la separazione dei poteri è sacra. Allora rispettiamola. Il potere esecutivo e quello giudiziario non devono interferire. Lasciamo lavorare i magistrati”.
La cronaca della manifestazione a Taranto ieri. Sparita in televisione e recuperata su Pubblico.
Ho già detto che se l’intelligenza umana si impegnasse ad ideare tecnologie rispettose delle esigenze dei lavoratori, invece di fare il contrario, avremmo la soluzione. Oggi si presenta un problema inverso: come adattare agli essere umani un sistema tecnologico ideato per altri obiettivi, e cioè perché ne benefici unicamente la produzione. Sono convinto che se si facesse quel che dico, di lavoro sporco ce ne sarebbe molto meno di quanto Lei afferma. E comunque sia, è evidente che abbiamo due sole alternative: la prima è quella di distribuirlo equamente; la seconda è obbligare una parte della popolazione a fare i lavori sporchi, pena morire di fame. (Noam Chomsky, La società anarchica, p. 65)
Ecco bisognerebbe rileggere Chomsky per leggere la situazione dell’ILVA. Perché diventa difficile pensare ad una tutela del lavoro che non passi dalla tutela dell’ambiente. E non si può pensare alla sopravvivenza quotidiana senza avere negli occhi un futuro potabile.