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teatro civile

MM2 intervista Giulio Cavalli

Articolo di Emanuela Meucci N°4 27 Gennaio 2010

«La mia Milano è quella di Giorgio Ambrosoli, assassinato per aver liquidato la Banca Privata Italiana di Michele Sindona, di Emilio Alessandrini e Guido Galli, giudici uccisi dai terroristi di Prima Linea». A parlare è Giulio Cavalli, 32 anni, attore, regista e direttore del teatro Nebiolo di Tavazzano, a pochi chilometri da Melegnano. Il suo è un teatro civile che vuole tenere viva la memoria.
Dopo aver scritto uno spettacolo sulle 118 vittime della strage di Linate dell’8 ottobre 2001, quando due aerei si scontrarono sulla pista d’atterraggio provocando il più alto numero di morti in un incidente aereo in Italia, nel 2008 ha portato in scena Do ut des, pièce tragicomica sui riti mafiosi. L’ironia di Cavalli ha colpito nel segno, tanto che da dieci mesi vive sotto scorta dopo le minacce della criminalità organizzata. Il «Saviano del Nord» ha risposto con A cento passi dal Duomo, un monologo in cui racconta le infiltrazioni dell’ndrangheta in Lombardia scritto insieme a Gianni Barbacetto de Il Fatto quotidiano. E l’Italia dei Valori lo ha candidato alle prossime Regionali.
«La mia storia inizia in viale Piceno. Dove oggi c’è una sede della Provincia, negli anni ‘70 c’era un orfanotrofio: lì ho vissuto fino a due anni. Per questo con Milano ho un rapporto di amore-odio. Da quando sono sotto protezione i miei movimenti sono molto limitati e per me è difficile girare liberamente, ma se cammino per strada e mi guardo intorno mi chiedo sempre dove sono nato. Ogni casa potrebbe essere la mia». Cresciuto a Tavazzano, Giulio ha studiato recitazione al Centro di ricerca per il teatro. «E per me, come per tutti quelli che fanno il mio mestiere, la città è soprattutto un palcoscenico e un camerino».
La sua attenzione è rivolta soprattutto al mondo del teatro. «Sembrano esistere solo la Scala e il Piccolo. Il giorno della “prima” si accendono i riflettori e si stende il tappeto rosso. Ma vorrei che, di tanto in tanto, qualcuno si ricordasse delle decine di spettacoli in cartellone ogni giorno. E del lavoro di scenografi e costumisti che c’è dietro ad ogni spettacolo. I grandi numeri sono
solo un placebo, nel settore della cultura è importante impegnarsi con costanza». Fra i piccoli palcoscenici poco conosciuti, Cavalli ne sceglie tre. Il Pim Spazio Scenico, in via Tertulliano, il Teatro della Cooperativa, in via Hermada, e l’Atir – Teatro Ringhiera, in via Boifava. «Qui c’è ancora gente che lavora, si impegna e fa “artigianato culturale”, interpretando il vero spirito lombardo». Il problema, prosegue, è che «Milano, dopo aver inventato la pubblicità, ne è rimasta schiava e si è plastificata. Quello che serve è più sostanza. La città non è un prodotto, ma un insieme di persone».
Ma si sente milanese o no? «Quando sento la città coltivare la sua memoria e stringersi intorno alle vittime, come cerco di fare con i miei testi, allora sento anch’io di farne parte».
Come è successo quando è andato in scena Linate 8 ottobre 2001: la strage. «In quell’occasione», racconta, «ho sentito l’abbraccio di tutti i cittadini che si sono fatti carico della tragedia. In un certo senso, i funerali di Stato in Duomo rappresentano una risposta a quelli di Giorgio Ambrosoli, celebrati il 14 luglio 1979, dove non si presentò nessun rappresentante delle Istituzioni». Ed è proprio dall’omicidio di Ambrosoli che parte A cento passi dal Duomo, per attraversare tutta la metropoli e il suo hinterland. Da Buccinasco (rinominata la «Platì del Nord») all’Ortomercato controllato dalle cosche, fino agli aperitivi del centro, frequentati dai figli dei vecchi boss. «La città ha bisogno di reagire. È un simbolo di operosità, piena di persone che si dedicano al lavoro. Quando racconto queste storie non lo faccio per rovinarle l’immagine». Ma per metterla in guardia dalla criminalità organizzata in giacca e cravatta che potrebbe infiltrarsi negli appalti dell’Expo. «Che non è per forza un male, ma non va neanche santificato. È un’occasione, a patto che non si trasformi in un evento isolato. Mi sembra però che manchino progetti concreti».
Piazze, strade e ristoranti. Per Giulio, per via dell’adozione, non è sempre facile parlare di Milano. Ma vuole ricordare il Bosco di faggi nel parco di via Forlanini, lungo il vialone che porta a Linate. Centodiciotto giovani alberi piantati per ricordare i morti dell’8 ottobre, con al centro la scultura «Dolore infinito» dell’artista svedese Christer Bording, ispirata ai monoliti usati nella tradizione scandinava per commemorare i defunti.
«Un luogo conosciuto da pochi. Sarebbe bello se questo parco della memoria si trovasse in centro, e non seminascosto in periferia».

INTERVISTA – Giulio Cavalli, autore teatrale che vive sotto scorta

Nuovasesto – 22 gennaio 2010
Con le mie parole sfido la mafia silenziosa
Da sempre porta in scena teatro civile e di denuncia, da due anni si è concentrato sull’antimafia, e da nove mesi vive per questo sotto scorta. Le minacce sono arrivate dopo lo spettacolo “Do ut Des”. Giulio Cavalli, 32 anni, autore teatrale prima che attore, è l’animatore di quello che sta diventando un  punto di riferimento per il dibattito e l’informazione anti-mafia.
E’ il Teatro Nebiolo, a Tavazzano con Villavesco (LO), di cui Cavalli è direttore artistico e dove opera con la sua compagnia, la Bottega dei Mestieri Teatrali. E dove si svolgono incontri e presentazioni: magistrati di rilevanza nazionale come Giancarlo Caselli, Alberto Nobili e Antonio Ingroia e protagonisti in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata come I.M.D. (agente del reparto Catturandi della polizia di Palermo). Questi gli ospiti solo delle ultime due settimane.
Lo scorso 11 gennaio Cavalli ha annunciato la sua candidatura come indipendente nella lista dell’Italia dei Valori per le elezioni regionali: “Ho quelle due caratteristiche che nella politica italiana probabilmente ti tutelano più di tutto: non essere ricattabile e non essere a disposizione” dice. Tra le proposte, un’agenzia regionale per i beni confiscati e una commissione antimafia che prenda atto di quello che il prefetto aveva consigliato al sindaco Moratti. “Oppure – aggiunge – estendere, almeno nel periodo dell’Expo, i controlli sulle attività a maggiore rischio d’infiltrazione, come la movimentazione terra e il nolo a freddo”.

Lo scorso 5 gennaio hai ricevuto il premio “Pippo Fava” [giornalista catanese ucciso dalla mafia nel 1984, ndr] per la categoria giovani. Cosa ha significato per te?

E’ particolarmente significativo perché Fava era un teatrante, così com’era un giornalista, un pittore, un drammaturgo, uno scrittore, e così come fondamentalmente era Pippo Fava, qualsiasi cosa facesse. E allora rispetto a essere paragonato al Paolini, al Celestini, al Fo di turno – che comunque fa sempre piacere -, se c’è un personaggio particolarmente vicino alla non identificabilità, alla non etichettabiltà era lui. Ricevere quel premio dai suoi figli è abbastanza una soddisfazione.

Com’è vivere sotto scorta?

Normalissimo. In Italia sono 660 le persono sotto scorta, c’è gente che lo fa da quaranta anni. Siamo il paese in cui gente come Caselli, Chinnici ha vissuto con i sacchi di sabbia davanti alla porta. Forse il cambiamento più grosso è di sapere che ci sono delle istituzioni che credono che tu abbia il diritto di continuare a fare quello che fai. Non la vedo la notizia sinceramente.

A chi e perché dai fastidio con i tuoi spettacoli, qui al Nord?

Tutte le mafie sono anche al Nord, loro qui hanno bisogno di essere carsici, del silenzio e nel momento in cui qualcuno alza la voce e soprattutto viene ascoltato allora è inevitabile. Sul campo della cultura, dell’arte, della bellezza, della parola che vive nella relazione – come il teatro – non sanno rispondere, sono dei sub-culturati, e allora reagiscono in questi modi.

Questo dimostra la forza dell’anti-mafia culturale.

La sconfitta della criminalità organizzata sta nella solidarietà, e quindi è un lavoro culturale. Perché la mafia è l’espressione del non essere solidali, quindi dell’interesse per pochi a scapito della comunità. Quello che è incredibile è che siamo un paese che considera eroi gente come me o Roberto [Saviano ndr] ma poi considera un vizio desueto la solidarietà. Non è un caso che il portatore sano dell’anti-mafia in Italia sia Don Ciotti.

Come è nato l’interesse sulle mafie al Nord?

In realtà abbiamo cominciato a parlare di mafie. Nel momento in cui cominci a parlare succede quello che è successo a me e sembra quasi che qui al Nord tu debba giustificarti. Allora fai uno spettacolo in cui dici: attenzione, “cosa nostra” non è “cosa loro”, a Milano sono 60 anni che esiste. Ambrosoli è stato ammazzato a Milano, Calvi è di Milano, Sindona è di Milano, Raul Gardini è di Milano, quindi c’è una storia che ogni tanto è bene ricordare.

Sembra che una consapevolezza rispetto a questo fatto manchi ancora nell’opinione pubblica. Come la pensi a riguardo?

Il problema fondamentale è che tutti i consapevoli non si auto-ghettizzino, e invece è una cosa che si è portati a fare. Borsellino diceva: parlatene ovunque, l’importante è che se ne parli. La Lombardia probabilmente non è pronta a una commissione o un movimento antimafia, nel senso largo della sua popolazione, semplicemente perché non ha alfabetizzazione sulla mafia. La mia domanda è: un processo di alfabetizzazione è l’obbligo culturale della politica?

Matteo Del Fabbro

Martedì 2/02 conferenza stampa Giulio Cavalli e Dario Fo

e determina quindi un nuovo inizio, allora può trasformarsi in una catarsi salvifica.
In scena Cavalli racconterà di una città dove all’alba di un certo giorno tutta la produzione energetica va al collasso.
E tutti si risvegliano in un ambiente che ha fatto un passo indietro di almeno un secolo”.
Dario Fo

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Carissimi

Il 4 febbraio 2010, alle ore 21, debutta in prima milanese al Teatro Oscar
“L’apocalisse rimandata ovvero benvenuta catastrofe” con Giulio Cavalli
dal romanzo omonimo di Dario Fo e Franca Rame.

Si tratta di un potente testo di denuncia, strampalato e lucido al tempo stesso. Un bell’esempio di teatro civile,
documentato e coraggioso, interpretato da un “portatore sano di parole”, come ama definirsi Giulio Cavalli.

Lo spettacolo sarà presentato martedì 2 febbraio alle ore 11,30 presso la sala stampa di Palazzo Reale
Ad intervenire saranno il Premio Nobel Dario Fo, il regista e attore Giulio Cavalli,
il presidente di Legambiente Lombardia, Damiano Di Simine e il direttore artistico del TieffeTeatro Emilio Russo.

Maddalena – 3406968133 -0236592538
stampa@tieffeteatro.it

Giullarata d’inchiesta
dal 4 febbraio al 28 febbraio 2010
L’apocalisse rimandata ovvero benvenuta catastrofe
di e con Giulio Cavalli
L’inchiesta su Napoli è realizzata da Giulio Cavalli con la collaborazione di Emiliano Fittipaldi
Disegni di Dario Fo
Teatro Oscar  – Via Lattanzio, 58 – Milano
Orari spettacolo:   mar. ore 21 – mer. ore 19.30  da gio. a sab. ore 21 – dom. ore 17
lun. riposo – durata 1h15’
Orari biglietteria: dal lunedì al sabato dalle ore 16 alle 19
Prenotazioni allo 0236503740 – info@tieffeteatro.it –
Info spettacolo: www.tieffeteatro.it
Bottega dei mestieri teatrali: www.teatronline.com – info@bottegadeimestieriteatrali.it

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Wakeupnews intervista Giulio Cavalli

Ed ecco a voi il saltimbanco della modernità

di Claudia Landolfi

Teatrante, attore, regista, scrittore. Sono tante e sempre limitate le definizioni che possono circondare la figura di Giulio Cavalli. Nella sua vita sembra quasi esserci un connubio totale con la parte artistica, e non si parla di una coerenza etica che si traspone nelle sue opere ma quasi di una missione, una strada intrapresa dalla quale probabilmente non si può fare ritorno. Sul palco, prima ancora di presentare un attore,  presta il suo volto e le sue idee.

Per questo gli chiediamo se crede che questo percorso, nel suo caso, sia davvero inscindibile e lui ci risponde, con massima chiarezza, che non può esistere, nel suo lavoro costante, una scissione tra il personaggio che sale sul palco e la persona che ogni giorno porta avanti una battaglia che si chiama “onestà prima di tutto”. È onestà e coerenza il lavoro quotidiano che in primis impegna il suo mestiere. Un percorso lungo e difficile che non può essere insegnato né appreso da maestri o uffici ufficiali. Questo è il percorso di una vita che si trasmette e si riceve ogni giorno dalla strada, nello scenario che fa da sfondo a questa Italia e non solo.

Ecco da dove proviene il teatro di Giulio Cavalli, il suo spirito nel raccontare e risvegliare le vicende che ci circondano. E come lui stesso dice : “Io non ho mai studiato recitazione, il mio mestiere non è quello dell’attore e di certo non è questo che sto inseguendo” . Proprio in quest’ottica dobbiamo cogliere il volto della scena: un palcoscenico come mezzo o come piazza per continuare a raccontare realtà e fatti che si incontrano in un’unica voce.

Più volte definito “Teatro civile”, Cavalli insiste come non sia nella forma ma nei contenuti che si sceglie il proprio posto. Se si vogliono utilizzare definizioni allora meglio quella di “Teatro partigiano”, e non perché si scelga uno schieramento ma perché ci si schiera, si sceglie d’essere e la parola, allora, diventa azione.

Non ci stupisce, quindi, la reazione forte e le intimidazioni provenienti dal mondo mafioso arrivate dopo la messa in scena del suo spettacolo Do Ut Des, riti e conviti mafiosi, debuttato nel maggio del 2008. Se la parola scavalca la narrazione ed esce dai giochi romanzeschi allora anche il teatro può diventare un luogo di minaccia; e Giulio Cavalli risulta essere il primo artista posto sotto scorta a seguito delle intimidazioni ricevute a fronte del suo spettacolo.

Ma è questa “la bellezza dell’impegno”. Un tutt’uno sulla scena e nella vita, senza mai rinunciare alla propria integrità e coerenza, anche quando la prepotenza prova a mettere silenzio e a bendare gli occhi. Siamo lontani dal teatro d’intrattenimento, dai trucchi di scena e dallo spettacolo del fuoco d’artificio.

Oltre al teatro Giulio Cavalli prosegue il suo lavoro d’informazione e denuncia tramite un programma d’emittente radio, Radio Mafiopoli.  Ma la novità più forte e di poco recente è la scelta della candidatura alle elezioni regionali in Lombardia, nelle province di Milano e Varese. Perché “se la bellezza dell’impegno non è un concetto teorico o una frase ad uso della stampa o delle televisioni” – come scrive lo stesso Giulio Cavalli- è giusto, allora, trasformare la teoria nei fatti.

“La politica è il mezzo con cui si può creare un cambiamento reale e profondo. La politica è la possibilità di elevare la qualità di vita di tutti, è la possibilità di creare una solidarietà che non compare solo per le emergenze ma è costante come l’avvicendarsi delle stagioni. Può essere vista come impopolare la candidatura? Può essere vista come contaminazione o addirittura corrosione di una mia integrità artistica ed esistenziale? Bene, che lo sia”.

http://www.wakeupnews.eu/public/wordpress/?p=8061

LA BELLEZZA SALE SUL PALCO E SFIDA LA MAFIA

Giulio Cavalli è un uomo di 32 anni con lo sguardo fiero di chi detesta le banalità, gli orpelli di un mondo pronto ad etichettarti per isolarti, per darti dei limiti ben definiti. Giulio quei confini li ha attraversati, nella consapevolezza che ciò è quanto di più naturale per chiunque svolga il proprio lavoro immergendosi nella realtà, a maggior ragione se quel lavoro è fatto di arte e cultura, di parole, di gesti. Il teatro, sin dalle sue antiche origini, svolge innanzitutto una funzione sociale, vive dentro la società che racconta. Negli anni qualcuno lo ha dimenticato, cercando di sterilizzarlo, di lasciare spazio solo all’estetica, dimenticando quella funzione primaria che altri esaltano attraverso la denuncia, usando spesso la forma dell’invettiva comica che prima fa sorridere e poi svela tutta la sua tragica verità. Giulio, da grande autore, oltre che regista e attore, mescola il sorriso e l’ironia con le parole dure e terribilmente vere dei suoi monologhi, parole messe insieme con una maestria rara, che rievoca il pensiero e la penna di gente come Giuseppe Fava o Roberto Saviano.

E la forza delle parole che Cavalli affida al suo teatro ti scuote, ti colpisce allo stomaco, ti emoziona. Ascoltare la lettera ad un estorsore o quella per spiegare al proprio figlio la strage di via D’Amelio è un esercizio di coscienza civile, una coscienza che nasce dal rifiuto di ogni ingiustizia, prima fra tutte quella di un’Italia che, da Nord a Sud, è stretta nella morsa delle mafie, le stesse che minacciano di morte Giulio perché non sopportano gli sberleffi e le denunce di chi sa arrivare alla mente e al cuore della gente con le proprie parole e con il proprio lavoro quotidiano. Non poteva che essere lui, allora, il vincitore del “Premio Fava – Giovani 2010”, consegnatogli il 4 gennaio a Palazzolo Acreide (Sr). Proprio in occasione del Premio, abbiamo conosciuto Giulio, con il quale, nell’intervista gentilmente concessaci, abbiamo parlato di tante cose, dal ruolo del cosiddetto “teatro civile” alla mafia, all’informazione.

Perché il teatro come mezzo di denuncia e di lotta contro la mafia?

Perché sposta una battaglia culturale su un campo che è quello della bellezza, dell’arte, ed è un campo in cui difficilmente la mafia riesce a rispondere. Perché se è vero che si è professionalizzata nel comprarsi gli avvocati migliori o nel parare anche l’informazione più acuta, sul campo della bellezza non sa come reagire oppure reagisce in modo scomposto.

Un attore teatrale che fa paura alla mafia. Come te lo spieghi?

Con il fatto che loro non sono mai andati a teatro, non sanno che cos’è. Penso che alla mafia interessi pochissimo di Giulio Cavalli e più che altro si stia interrogando (senza trovare una risposta) sul perché il mio lavoro, come quello di moltissimi altri, riesca a raccogliere un consenso così grande. Quindi, in realtà siete voi il problema della mafia. Quando se ne renderanno conto verranno a minacciarvi e avranno risolto il problema.

Come dice Saviano, la criminalità ha più paura dei lettori che di chi scrive…

Certo. Perché stiamo parlando di una mafia che veramente ha imparato a parare i colpi anche delle più intelligenti inchieste della magistratura. Il problema è che è una partita di cui non conoscono le regole. Tutti i prepotenti hanno paura di ciò che non conoscono e la paura di una persona che di professione fabbrica paura porta poi a risultati assolutamente comici come quello di temere teatranti, scrittori, ecc.

Si parla molto di “teatro civile”. Una volta Bebo Storti mi disse che la libertà di questo tipo di teatro viene troppo spesso ostacolata. Qual è la tua opinione al riguardo?

Secondo me, il teatro civile non esiste. È un’invenzione, una categorizzazione di una certa parte di stampa e di opinione pubblica che sembra quasi che abbia sentito il bisogno di giustificare il fatto che alcune persone di cultura, con il teatro, con la letteratura, con altre forme hanno messo in pratica l’idea di poter mandare un messaggio che non sia prettamente estetico. Ma è una pratica antica in Italia. Il problema è che le cose normali e consuete stanno diventando eccezionali. Sicuramente c’è una certa impermeabilità del mondo del teatro. Ma è inevitabile, perché il teatro cosiddetto civile, come quello di Bebo, Renato (Sarti ndr) e di tanti altri, è un teatro che prende posizione e quindi molto spesso parla di politica. E la professione teatrale in Italia è un lavoro politico, perché dipende dai finanziamenti della politica. E allora è inevitabile. È vero che il giullare fa ridere il popolo smascherando il re, qui invece bisognerebbe riuscire a far ridere il re smascherandolo.

Tu utilizzi l’ironia e il sarcasmo per parlare di mafia e non solo. Viene da pensare a Fo, Chaplin, Benigni, Totò, i quali dietro la comicità e la risata nascondono una grande amarezza. Cosa c’è dietro il sorriso di Giulio Cavalli?

Il problema principale è evitare di diventare un’icona, correre il pericolo di mettersi a “raccontarsi” piuttosto che raccontare storie. Ed è un onanismo culturale in cui spero di non cadere. Poi, non c’è niente di più tragico della comicità. È la capacità di prendersi poco sul serio. In un Paese normale i giullari dovrebbero raccontare qualcosa che si sa secondo un’ottica stupefacente. Oggi, invece, se ci pensi, succede che i giullari si mettono a fare informazione. Ma è un compito che noi espletiamo se siamo in grado di rimanere sempre puliti e inconsapevoli, nel senso etico del termine. Per cui dietro il mio sorriso c’è la bellezza di portare sul palco la bellezza, e l’assurdità tragicamente comica di doversi ritrovare a rivendicarla.

Dopo le minacce, qual è stata la reazione della gente comune?

Ci sono diversi tipi di reazione. C’è la solidarietà pelosa e voyeuristica, ed è una delle cose che più mi innervosisce dopo la mafia. C’è però anche una reazione positiva che mi rende ottimista. Ottimista proprio in quei posti che la mitologia mafiosa e antimafiosa italiana ci descrive come quelli più oscuri o più in difficoltà. Considero un grande privilegio lavorare con i ragazzi di Addiopizzo o di Libera nei luoghi più difficili. Poi c’è una reazione completamente diversa al Nord (perché purtroppo il federalismo culturale ha attecchito), dove invece c’è una certa impermeabilità. Però, diciamo che ho spesso la sensazione meravigliosa di essere una parte di un lavoro che è portato avanti da un Noi piuttosto esteso ed è uno dei migliori modi per non sentirsi soli culturalmente.

C’è dunque una legalità che si basa sulla forza delle parole. Secondo te quanto le parole sono importanti rispetto all’azione?

La parola è azione, è una delle azioni indispensabili. Il problema è che affinché sia azione la parola non deve essere figlia unica di nessuno. La parola orfana è sicuramente la più potente. Secondo me è fondamentale che la parola recuperi il suo valore spersonalizzato da chi la racconta. E invece noi siamo in un paese in cui, soprattutto ultimamente, si corre il rischio di aumentare lo spessore delle persone o delle parole per fatti che sono veramente banali. Io ogni tanto ho il dubbio di avere più credibilità magari perché ho una scorta. Invece poi c’è una parola che è azione effettiva ed è fondamentale. Tieni conto che chi fa il mio lavoro non fa altro che raccogliere le parole degli altri. Per cui noi siamo quelli che una volta erano i robivecchi, liberiamo le soffitte e cerchiamo di rivendere gli oggetti perché possano avere ancora forma.

La cultura può essere più importante di altri settori nel combattere la mafia?

No. Credere che esista un settore che più di altri può sconfiggere le mafie è una tattica assolutamente suicida. Il teatro può essere un ottimo accompagn
amento al lavoro della magistratura, delle forze dell’ordine e soprattutto della società civile. È un seme che poi deve assolutamente fiorire nei numeri e nella più vasta area possibile della società civile.

Parlando di informazione, ci sono molti fatti che quotidianamente vengono nascosti o distorti. Come vedi il problema dell’informazione in Italia?

Ci sono due problemi di fondo. Innanzitutto c’è un problema prettamente tecnico ed è quello che è assurdo che possano esistere un giornalismo e un’editoria visto che non esistono editori. E questo è un problema tra l’altro in un paese che invece ha fatto la propria grandezza su editori, direttori o fondatori di giornali. A me quasi commuove sentire Concita Di Gregorio, con cui mi è capitato fare dei convegni, che dice:  “Io ogni volta che entro in redazione penso che sto dirigendo il giornale di Gramsci”. È una frase di una semplicità talmente prepotente in un mondo invece di codardia come questo. Ci sono professioni, come quelle dell’informazione, in cui la professionalità  è fondamentale. E professionalità non vuol dire avere uno stipendio. Vuol dire esercitare il proprio lavoro professando i propri ideali. Ecco, la professionalità del giornalismo manca da questo punto di vista. Il secondo aspetto, invece, è la presenza di una vacuità politica che non fa altro, su qualsiasi fatto, che trasformare le posizioni che qualcuno decide di prendere e strumentalizzarle.

Nel tuo spettacolo leggi una lettera a tuo figlio per spiegare via D’Amelio…

Penso che ci sono dei lutti che una società dovrebbe imparare a rispettare senza nessuna strumentalizzazione e bisognerebbe tra l’altro cominciare a capire che farsi carico dei lutti vuol dire non scavalcarli. Sono proprio a livello verticale due posizioni completamente opposte. Una volta che tu hai educato per così tanti anni alla narcotizzazione la gente, ci vorranno almeno gli stessi anni, ottimisticamente, per cambiare le cose. E non è il teatro che riesce a risolvere questo problema.

Nel fare il tuo lavoro ti sei trovato minacciato dalla mafia e costretto a vivere sotto scorta. Come vedi il tuo futuro sul piano lavorativo e personale?

Giovanni Falcone diceva che nella lotta alla mafia ti trovi o per caso o per destino. Secondo me nel mio destino c’era il caso di trovare la mafia. Io penso che sia un impegno abbastanza totalizzante. Vedo il mio futuro assolutamente fedele a me stesso, continuando tranquillamente a svolgere il mio lavoro. Non ho conosciuto la mafia con le minacce. Ho conosciuto l’antimafia, ed è questa che porto avanti. Perché, con tutti i suoi difetti, con i pettegolezzi da camerino, comunque è un movimento che funziona abbastanza bene. Continuerò a farlo. Sono molto ottimista.

Nello spettacolo parli di mafia del Nord e di mafia del Sud. Ci sono differenze?

Al nord esistono sindaci che riescono a rimanere impuniti dicendo delle frasi che, se tu immagini, a Corleone da 40 anni nessuno può più dire. E quindi il problema non è tanto la mafia. La mafia, a Nord o a Sud, è sempre la stessa. È inevitabile che cosa nostra venga ad investire al Nord, perché è matematico che i soldi si possono nascondere solo in mezzo ad altri soldi ed è lì che ci sono. Anche se in realtà sia cosa nostra che la camorra, oggi al Nord, e per Nord intendo soprattutto Milano e Lombardia, sono al servizio della ‘ndrangheta. Ed è questo un fenomeno, ad esempio, che si fa fatica a raccontare. E allora quella curiosità sfacciata dell’antimafia, ad esempio siciliana, secondo me qui non serve più e andrebbe trasferita in blocco lì. Proprio per questo succede che, ad esempio, mentre qui uno spettacolo di satira può attaccare e fare male, invece in Lombardia non funzionerebbe mai ed anzi rischierebbe di alimentare la mitologia di cosa nostra in un modo abbastanza pericoloso, culturalmente criminale.

Tu hai detto di ispirarti a Pippo Fava. In realtà, se ci soffermiamo sulla somiglianza o comunanza nei modi e nei mezzi usati, viene in mente Peppino Impastato. Come vivi la “vicinanza” con l’indimenticabile ragazzo di Cinisi?

Io sono molto amico di suo fratello Giovanni. A Cinisi ho scritto il mio spettacolo Do ut des, quindi penso di aver respirato abbastanza la storia di Peppino. Una delle cose che mi ha sempre lasciato perplesso della vicenda di Peppino Impastato, così come anche delle vicende di molte icone dell’antimafia, è che si pensa di rispettarle celebrandole e non portando avanti quello che ci hanno insegnato. In realtà, che la scrittura facesse paura Peppino ce lo ha insegnato e detto 30 anni fa. Quindi, secondo me, la cosa più normale era riprendere quella lezione. Se vicinanza vuol dire che abbiamo volutamente attinto alla figura di Peppino, pur con la rispettosa distanza che umilmente crediamo di avere, allora sì, possiamo parlare di vicinanza.

Ad un ragazzo che ha sensibilità e consapevolezza di ciò che è la mafia e che vorrebbe far qualcosa nel suo piccolo contro di essa, cosa consigli?

Studiare. Penso che studiare sia alla base. Pensare che le sentenze sono pubbliche e, tra l’altro, facilmente reperibili su internet. Andare in giro a ricordare, perché è impossibile avere una visione approfondita del presente senza conoscere il passato.

Pensi che le cose possano cambiare in un futuro non troppo lontano?

Io sono convinto che le cose cambieranno. Sinceramente io penso che, anche solo sulla consapevolezza dei fenomeni mafiosi, negli ultimi due anni sono state fatte delle cose meravigliose. Il problema è che l’Italia è sempre stato un paese che ha avuto bisogno di eroi. E siccome è sempre stato un paese che ha una memoria più o meno pari a quella di un pesciolino rosso, allora gli eroi devono essere pochi. E così è finita che nel momento in cui si sono cementati come eroi unici Falcone e Borsellino si è stuprata l’idea che di questo fenomeno Falcone e Borsellino avevano e cercavano di trasmettere. Bisogna cominciare a recuperare le vittime di mafia non riconosciute.

C’è qualcosa che la gente può fare nel suo piccolo per combattere la mafia? Ognuno avrà la propria coscienza che gli dirà cosa fare. Penso comunque che non sia molto difficile, perché cercare il bene comune dovrebbe essere una delle predisposizioni che appartengono all’essere umano. Visto che appartiene ai cani, ai maiali, ai canarini, all’edera, mi sembra inspiegabile che non appartenga all’uomo.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org
http://www.ilmegafono.org/legalit%C3%A0/legalit%C3%A0.htm

15 Gennaio: Antonio Ingroia, Alberto Nobili e Giulio Cavalli al Teatro Nebiolo

Il Centro di Documentazione per un Teatro Civile ospita al Nebiolo venerdì 15 gennaio alle 21:00 il Dott. Alberto Nobili (Sostituto Procuratore del Tribunale di Milano) e il Dott. Antonio Ingroia (Procuratore Aggiunto del Tribunale di Palermo).
Anche in questa occasione, a moderare la serata, con loro sul palcoscenico Giulio Cavalli.
Alberto Nobili e Antonio Ingroia incontreranno il pubblico affrontando il tema della nuova proposta di legge sulle intercettazioni, con particolare riguardo alle sue possibili interferenze nella lotta alla criminalità organizzata. Tratteranno, inoltre, dell’infiltrazione criminosa sul territorio lombardo. I magistrati si confronteranno sulle differenze di manifestazione delle mafie al Nord e delle più conosciute mafie del Sud.
Entrambi, grazie alla loro pluriennale esperienza sul campo, potranno illustrarci le espressioni più evidenti sul territorio della criminalità organizzata.
Il  Dott. Ingroia durante la serata  presenterà inoltre il suo libro “C’era una volta l’intercettazione. La giustizia e le bufale della politica” edito da Nuovi Equilibri.

L’ingresso al pubblico è libero fino esaurimento posti (non vengono accettate prenotazioni).
Solo per gli abbonati: previa prenotazione valida la poltrona in abbonamento prosa/prosa in coppia/ adotta una poltrona.

Il cacciatore di latitanti si racconta al Nebiolo con Giancarlo Caselli

— TAVAZZANO —
APPUNTAMENTO di prestigio questa sera a Tavazzano, dove si presenta si presenta «Catturandi», il libro scritto da un poliziotto palermitano, I.M.D., che ha preferito non svelare la propria identità per motivi di sicurezza, perché si occupa della cattura dei più pericolosi latitanti di mafia in una delle realtà più difficili del Paese.
All’incontro in programma questa sera parteciperanno, insieme all’autore del volume, i magistrati Raffaele Cantone e Gian Carlo Caselli (nella foto), già procuratore capo di Palermo.

LA PRESENTAZIONE del libro si terrà questa sera alle 21 all’interno del Teatro Nebiolo di Tavazzano con Villavesco. Il dibattito sarà coordinato da Giulio Cavalli, attore, regista, autore teatrale e direttore artistico del teatro Nebiolo. Cavalli, fra l’altro, secondo quanto appreso in settimana, sarà anche uno dei candidati di punta dell’Italia dei valori al consiglio regionale, durante le elezioni di fine marzo.
L’evento in programma questa sera fa parte del ciclo «Documentazione per un teatro civile», organizzato all’interno della struttura di Tavazzano.
Il libro «Catturandi» racconta, in modo diretto, l’esperienza professionale di I.M.D. e i metodi di lavoro della sua squadra.
R.Lo.

DA IL GIORNO L’ARTICOLO QUI

Mafia e politica: il teatro un’arena civile

Domani sera a Tavazzano l’appuntamento con i due magistrati, sul palcoscenico con Giulio Cavalli. . I giudici Caselli e Cantone al Nebiolo per raccontare la lotta per la giustizia. Riprendono gli incontri del Centro di documentazione per un teatro civile, il laboratorio di ricerca e produzione artistica nato a Tavazzano in seno alla Bottega dei mestieri teatrali di Giulio Cavalli; domani sera, alle 21, sul palco del teatro Nebiolo, saranno ospiti i magistrati Raffaele Cantone e Giancarlo Caselli che, moderati dallo stesso Cavalli, racconteranno al pubblico del loro lavoro, di come sceglierlo abbia influito sulla loro vita professionale e privata. Filo conduttore dell’incontro: i capitoli dei libri che entrambi i magistrati hanno recentemente dato alle stampe, accomunati dal desiderio di raccontare un’esperienza che, per quanto diversa, si pone come esempio di coraggio, dedizione e valore civile. Raffaele Cantone, 45 anni, pubblico ministero alla Dia di Napoli fino al 2007, ha affidato alle pagine di Solo per giustizia (Mondadori, 2008) il compito di testimoniare quanto possa essere pericoloso il suo mestiere, soprattutto se sei diventato il nemico numero uno di un clan mafioso potente e ramificato come quello dei Casalesi. Cantone racconterà al pubblico del Nebiolo di come, studente di giurisprudenza inizialmente intenzionato a vestire la toga di un avvocato, sia finito qualche anno più tardi a lavorare come magistrato in una delle Direzioni distrettuali antimafia più infuocate d’Italia, di come si faccia ad andare avanti con la scorta sempre appresso in ogni istante della giornata e la paura di una morte più volte minacciata. Il primo istinto sarebbe quello di considerare un uomo come Cantone un eroe, fermamente deciso a seguire fino in fondo quella che potrebbe essere definita una sorta di “vocazione missionaria”, ma raramente i magistrati della sua stessa pasta amano definire così la propria carriera, preferiscono parlare – come fa Cantone nel suo libro – di un percorso graduale, talvolta persino casuale, dove però rimane sempre salda la passione per il diritto. Una passione che ha mietuto parecchie vittime tra i magistrati italiani, e che sprona chi li ha conosciuti e stimati a continuare la battaglia in cui sono caduti, a ricordare a tutti le loro storie. In questa prospettiva si colloca Le due guerre – Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia (Melampo editore, 2009), il libro con cui Gian Carlo Caselli ripercorre trentacinque anni di storia italiana, dalla Torino degli anni Settanta – presso il cui tribunale lavorava come giudice istruttore – alla Palermo degli anni Novanta, conosciuta grazie alla nomina a procuratore. Lo sguardo di Caselli è quello di chi ha combattuto e combatte una duplice guerra, una contro il terrorismo di sinistra e l’altra contro la mafia, tra le quali solo la prima può dirsi vinta, mentre la seconda è ancora in sospeso. Dal processo ai capi storici delle Brigate rosse al pentimento di Patrizio Peci, dalle stragi di Capaci e via D’Amelio all’arresto di Totò Riina, passando per il caso Cossiga/Donat-Cattin e il processo a Giulio Andreotti: in mezzo, il ricordo di tanti, troppi amici che, in questa storia aspra di rischi e di eroismi, combattendo hanno perso la vita. S. C.

DA IL CITTADINO L’ARTICOLO QUI

Giulio Cavalli: pensieri tra anno che muore e anno che nasce

Un regista e attore sotto scorta perché le risate non piacciono ai boss. In Italia è successo anche questo.
Giulio Cavalli: pensieri tra anno che muore e anno che nasce
A sentire la sua voce dimostra più anni dei 32 che ha compiuto a giugno. Sì, ha solo 32 anni ed è un altro concittadino italiano sotto scorta perché minacciato dalla mafia. Non è meridionale ma vive in Lombardia. Non è un giornalista (nel senso classico del termine) o un magistrato; Giulio Cavalli è un regista teatrale, uno scrittore e un attore.

Quando risponde alle domande dimostra una grande umiltà e quasi inconsapevolezza di ciò che rappresenta agli occhi di molti giovani di oggi. Quando gli si ricorda che è stato ribattezzato il Saviano del nord non si capisce se sia più divertito o arrabbiato. Credo arrabbiato.

Ha messo in scena coi suoi spettacoli pezzi della nostra storia recente e più scomoda, come l’assurda morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova, in (Re) Carlo (non) torna dalla battaglia di Poitiers, o l’incidente di Linate in Linate 8 ottobre 2001: la strage, un monologo sul disastro aereo in cui persero la vita 118 persone.

E in Bambini a dondolo mostra al pubblico quel dramma sociale che attraversa le frontiere che è il turismo sessuale infantile. Ma è con il suo spettacolo Do ut Des – Riti e conviti mafiosi, che il suo lavoro va a toccare quei fili da cui in Italia è sempre bene tenersi lontani se vuoi vivere tranquillo. Attraverso la storia di Totò Nessuno, si viaggia appunto tra riti e cerimoniali mafiosi, che vengono dissacrati e resi ridicoli agli occhi dello spettatore divertito e amareggiato.

Penso che le parole più adatte per parlare di Do ut Des siano proprio le sue: “Tutte le mafie del mondo vivono, proliferano e crescono sulla base del proprio onore che cresce sulla paura. Quell’onore si incancrenisce e diventa credibilità fino a sommergersi e travestirsi di cultura. Ridere di mafia significa ribellarsi ad un racket culturale”.

Alla fine di questo lungo anno, abbiamo voluto chiedergli di tirare le somme di questi 12 mesi e delle speranze che nutre per il 2010 alle porte. Con qualche risposta che ha preferito non dare e un premio da ritirare ai primi di gennaio.

Il 2009 è stato per lei un anno importante. Ci può raccontare come è cambiata la sua vita e come ripensa oggi a quest’anno che se n’è andato?
Se penso al 2009 non penso all’aspetto televisivo e vouyeuristico della scorta. Il 2009 è stato un anno importante perché ho fatto delle scelte importanti, augurandomi di avere lucidità e onestà intellettuale per riuscire a farle anche nel 2010. Poi ad ogni disposizione e presa di posizione seguono purtroppo delle reazioni che sono più o meno civili. Però siccome ho sempre preferito dedicarmi alle cause e non agli effetti, allora questo 2009, che è stato un anno di cause, è importante.

Ora che vive sotto scorta, e viene definito il Saviano del nord, rifarebbe tutto quello che ha fatto?
Non definitemi il Saviano del nord, per piacere. Non usate questa espressione, vi prego. Ci sono 675 persone in Italia sotto scorta.

Ma rifarebbe tutto quello che ha fatto?
Ma certo. Io non faccio qualcosa in base alle conseguenze. Cioè, se trovo che qualcosa sia giusto, l’ultimo mio pensiero è quali conseguenze potrebbe comportare. Io mi dedico alla pars construens delle mie decisioni, quindi mi auguro di non arrivare mai a essere compromettibile, a essere piegato su me stesso e piegato sugli effetti. Quindi assolutamente rifarei tutto quello, e continuerò a farlo.

Secondo lei perché è così difficile pensare che la mafia non sia solo un problema del sud Italia?
Perché il nord, e soprattutto la Lombardia è sempre stata la regione regina nel prostituire la politica ai linguaggi della pubblicità, e allora, se ci pensi, l’effetto tranquillizzante, l’effetto più importante in politica è che sia sotto forma di spot, e la mafia è un fenomeno che è vissuto, per chi ha una conoscenza superficiale o ignorante, come qualcosa di molto sporco e peloso; per chi invece ha avuto appena appena il gusto e la voglia di approfondire un po’, si scopre che è figlia della debolezza morale di una classe politica. E’ come fare lo spot di un panettone e dire che però poteva succedere che qualche candito non sia buono.

Lei utilizza il grammelot per fare un teatro che è di denuncia sociale. Da che cosa deriva questa scelta?
Il grammelot è il cordone ombelicale coi giullari e con gli arlecchini, e i giullari sono stati i più grandi attori di teatro civile, molto di più di noi che ci siamo imborghesiti cinquecento anni dopo. Quindi recuperare un po’ di pancia per essere il più possibili trasparenti anche in scena mi sembrava fondamentale. Poi, siccome il federalismo esiste solamente nelle teste di qualche ebete ma in realtà lo stesso federalismo, il purismo linguistico, soprattutto in Lombardia è un’utopia, tra l’altro criminale, allora il grammelot è quella lingua che ti permette di non essere identificabile con una zona, soprattutto in questo momento in cui l’identificazione con i quartieri sembra quasi che diventi un elemento di pregio.

Il grammelot è stato utilizzato anche da Dario Fo. Pensa che questo sia uno degli aspetti che ha portato al vostro incontro?
Beh, sicuramente come formazione teatrale sono molto vicino a Fo, per cui era una grande speranza lavorare con lui. E tra l’altro Fo è stato, penso, uno degli esempi negli anni ’70, proprio dell’uso politico, nel senso alto del termine politica, della risata. E quindi rimane sicuramente un maestro irraggiungibile, per chiunque.

Cosa le ha lasciato, insomma, quest’esperienza col premio Nobel?
Ogni volta che ti capita di fare un incontro importante ci sono due aspetti. Uno che se vuoi è egoistico ed è la soddisfazione di aver potuto ottenere della stima di persone che hanno fatto la storia del nostro lavoro. E poi cercare di assorbire il più possibile quello che queste persone ti possono dare. Io credo che ormai la persona Fo è schiava, nel senso bello, del teatrante che è geneticamente in tutto quello che fa e in tutto quello che dice.

Spera che vi siano altre vostre collaborazioni in futuro?
Sì, mi auguro che le collaborazioni continuino. Spero che gli incontri siano sempre l’inizio di qualcosa, non l’apice.

Il 2010 inizierà per lei con il premio Fava, per cui lei ha detto che reagirà col tremolio emozionato di un bambino davanti ad un regalo inaspettato… Ci può dire qualcosa di più su questo premio, lei che si è definito un giornalista mancato?
Guarda, siccome i critici teatrali sono i sacerdoti al ballo delle banalità, vivono paragonando sempre noi a qualcun altro. Io sono stato il nuovo Fo, il nuovo Paolini – il nuovo Paolini con, tra l’altro, Marco in buona salute e che continua a lavorare – il nuovo Celestini, semplicemente perché usavo un linguaggio, un ritmo molto alto durante gli spettacoli. Poi sono diventato il nuovo Impastato perché semplicemente mi son permesso di credere, come lo credeva lui, che la risata sia una delle armi più soddisfacenti per smerdare la vacuità morale dei boss mafiosi e per disonorarli. Allora in tutto questo io, fondamentalmente, pur contento di essere accostato a queste persone, anche a livello professionale, però, non c’entro nulla; io non sono un attore, per cui non arriverò mai ai livelli attoriali di Fo; non sono una persona a cui interessa fare memoria, ma più inchiesta, quindi sono molto lontano da Paolini, e se c’è una persona a cui mi sono sempre sentito vicino è inevitabile che fosse invece Pippo Fava, che tra l’altro paga, con questa carenza di memoria, proprio questa non specificità, il fat
to che lui non si sia riuscito a dare un ruolo. E quindi ricevere il premio Fava così inaspettatamente vuol dire che allora esiste una giustizia delle consonanze. E poi vado a ritirare un premio giornalistico di una persona che non era solamente un giornalista; è sempre molto riduttivo, secondo me, marchiare le persone. E’ allora per questo che forse è uno tra i premi che ho ricevuto che più mi sorprende, perché l’avrei sempre sperato. Ecco, per questo.

Speranze per il 2010?
Di continuare a essere onesto, con me stesso.

Ultima domanda. Si parla di lei come candidato dell’Idv alla regione. Accetterà?
No, non rispondo a questa domanda.

Devia?
Devio.

di  Laura Meloni

DA AGORAVOX.IT

L’ARTICOLO QUI

Giulio Cavalli premiato con il IV° Premio G. Fava Giovani: “Scritture e immagini contro le mafie”

In questi anni, per vicende diverse, sono stato avvicinato per troppa bontà di molti e superficialità di pochi ad una miriade frastornante di “grandi nomi”; ho sempre vissuto con disagio gli accostamenti a persone che rimangono per me modelli soprattutto della loro unicità (come Fo o Impastato), opponendomi con ostinazione a questo gioco delle somiglianze che credo non giovi alla sana pratica della memoria ma piuttosto all’agiografia. Sono sostanzialmente un teatrante stonato, forse un giornalista mancato, certo un appassionato di memoria e di racconto che coltiva un pensiero con mezzi diversi per uno stesso fine. E allora se proprio mi sforzo di pensare a chi mi senta “vicino” per modi e sapori penso a Giuseppe Fava, al suo giornalismo con la schiena dritta, al suo teatro mai scontato e con il forte senso del dovere e alla sua quotidiana e genetica voglia di lottare per sentirsi vivo. Scriveva Fava: “Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della  verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze. le sopraffazioni. le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento!” Per questo ritiro il premio con il tremolìo emozionato di un bambino davanti ad un regalo inaspettato e con il sorriso per un “nome” poco nominato che speravo prestissimo di incrociare.

Giulio Cavalli

 


 

Programma Premio G. Fava 2-3-4 Gennaio 2010

 

02-01-2010

PALAZZOLO ACREIDE (Sala ex Biblioteca Comunale):

ore 15.30 – Step by step LAB, laboratorio dell’informazione a cura di:

– Fabio Chisari – Impaginazione e testi giornalistici

– Maurizio Parisi – Fotografia e immagini

– Sonia Giardina – Realizzare un cortometraggio

– Gabriele Zaverio – Realizzare una radio streaming in casa con l’open source

ore 18.00 – Giornali, informazione e opinione pubblica, dibattito con la presenza di:

– Fabio Chisari, docente di Storia sociale dei media presso l’Università di Catania

– Pino Maniaci, direttore di “Telejato”

– Gaetano Liardo, giornalista di “Libera Informazione – Osservatorio delle Legalità contro le mafie”

– Pippo Guerrieri, responsabile del mensile “Sicilia Libertaria”, La Fiaccola e Sicilia Punto L

– Marco Benanti, direttore di “Catania Possibile” e “Magma”

– Fabio D’Urso, giornalista de “Ucuntu – I Siciliani Giovani”

– Massimiliano Perna, “Il Megafono”

Coordina: Gianluca Floridia e Gabriella Galizia

PALAZZOLO ACREIDE (Sala ex Biblioteca Comunale):

ore 21:30 Spettacolo teatrale “La mafia è un’idea” di Massimo Tuccitto a cura dell’Associazione Culturale Siracusa in Movimento

03-01-2010

PALAZZOLO ACREIDE (Sala Consiliare Comunale)

ore 16:30 – Intervento a cura:

Damiano Chiaramonte, segretario provinciale “Asso Stampa Siracusa”

Franco Oddo, direttore “La civetta di Minerva”

Paolo Caligiore, presidente “Associazione Palazzolese Antiracket – Pippo Fava”

ore 17:30 Il rapporto tra mafie, potere ed informazione, dibattito con la presenza di:

– On. Benedetto Fabio Granata, vicepresidente Commissione Parlamentare Antimafia

– Sen. Giuseppe Lumia, componente Commissione Parlamentare Antimafia

– Rosa Maria Di Natale, giornalista e docente a contratto di “Comunicazione, giornalismo e nuovi media”
– Antonella Mascali, cronista giudiziaria a “Radio Popolare di Milano” e giornalista collaboratrice del “Il Fatto Quotidiano”

Coordina Pino Finocchiaro, giornalista di “Rai News 24”

PALAZZOLO ACREIDE (Sala ex Biblioteca Comunale):

ore 21.30 – Giulio Cavalli in  Monologando: Giuseppe Fava, un uomo.  500 euro, tutto a posto. A 100 passi dal Duomo

04-01-2010

PALAZZOLO ACREIDE (Sala Consiliare Comunale)

ore 16:30 – “Scritture e immagini contro le mafie”, parliamone con gli autori:

– Francesco Di Martino e Sebastiano Adernò – “U stissu Sangu. Storie più a sud di Tunisi.”

– Antonello Mangano – “Gli africani salveranno Rosarno e, probabilmente, anche l’Italia.”

– Gigi Ermetto, giornalista di canale 9 e collaboratore di La7

– Lorenzo Tondo, giornalista collaboratore Gruppo Espresso

Coordina Nuccio Gibilisco

Ore 17.30 – IV° Premio G. Fava Giovani 2010: “Il Teatro della Verità, dibattito con la presenza di:

– Giulio Cavalli, attore, scrittore e regista

– Mario Gelardi, direttore artistico festival di teatro civile “Presente indicativo” e della rassegna “Teatri della legalità”

– Luigi Marsano, direttore organizzativo festival di teatro civile “Presente indicativo” e della rassegna “Teatri della legalità”

– Claudio Fava, scrittore e giornalista

– Dott. Carmelo Petralia, Procuratore Capo di Ragusa

Coordina Elena Fava

Premiazione dei vincitori del I° Concorso Scuole G. Fava: La verità in immagini e scritti

Consegna del IV° Premio G. Fava Giovani: “Scritture e immagini contro le mafie


Programma Premio G. Fava 2010

 

05-01-2010

CATANIA – Via Giuseppe Fava

ore 17:00 – Appuntamento alla lapide

CATANIA – Centro di culture contemporanee ZO

ore 18:30 Consegna IV° Premio Nazionale G. Fava: “Scritture e immagini contro le mafie, dibattito con la presenza di:

– Sigfrido Ranucci, giornalista per la redazione di “Report”

– Giulio Cavalli, attore, scrittore e regista

– Armando Spadaro, Procuratore aggiunto di Milano

– Peter Gomez, scrittore e giornalista collaboratore con “Micromega” e “Il Fatto Quotidiano”

– Antonella Mascali, cronista giudiziaria a “Radio Popolare di Milano” e giornalista collaboratrice del “Il Fatto Quotidiano”

Coordina Claudio Fava, scrittore e giornalista