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teatro civile

Incontro con Giancarlo Caselli, Raffaele Cantone, Giulio Cavalli, venerdì 8/01

Il ciclo di incontri del centro di Documentazione per un teatro Civile, riprende a gennaio con un importante appuntamento: venerdì 8 gennaio alle ore 21:00 i magistrati Raffaele Cantone e Giancarlo Caselli, coordinati nell’incontro da Giulio Cavalli, partendo dalla presentazione dei loro ultimi libri racconteranno del proprio lavoro.

‘Solo per giustizia’ di Raffaele Cantone è una lettura obbligatoria per chiunque voglia capire lo sconcertante potere delle mafie, ma anche apprezzare meglio l’impegno dei molti uomini che, per senso di dovere e con grandi sacrifici, continuano a far funzionare nel nostro difficile paese lo stato di diritto.

‘Le due guerre’ Perché l’Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia

Di Gian Carlo Caselli

Due guerre e una sola trincea, la scrivania di un magistrato. Dalla Torino degli anni Settanta alla Palermo dei Novanta, trentacinque anni di storia italiana attraverso lo sguardo di un protagonista della lotta contro il terrorismo di sinistra e contro la mafia.

L’ingresso è libero fino esaurimento posti – previa prenotazione valida la poltrona in abbonamento prosa/prosa in coppia/ adotta una poltrona.

Giulio Cavalli, giullare che vive sotto scorta. L'attore lodigiano: «Il pubblico deve schierarsi»

«Non sono un attore». È spiazzante che a dirlo sia Giulio Cavalli, che a 32 anni si sta facendo conoscere in tutta Italia per gli spettacoli che porta in scena salendo, da solo, su un palco. I suoi monologhi sono ispirati a pagine vive della storia italiana – l’incidente aereo di Linate, il turismo sessuale infantile, e soprattutto mafia, mafia e ancora mafia – e raccontano storie così scomode da costringerlo a vivere sotto scorta.
Eppure, «non sono un attore. E il teatro per me non è mai stato un fine ma un mezzo per parlare con la gente». Narratore, scrittore e cantastorie, Giulio Cavalli è un personaggio che fa discutere. Legato a Libera, festeggiato dai ragazzi di Addiopizzo ogni volta che sbarca a Palermo, in Lombardia non riesce a non sentirsi solo. E con la sua città, Lodi, che l’ha sostenuto agli esordi e che ha lanciato i suoi primi spettacoli (” Do ut des, riti e conviti mafiosi” è stato coprodotto dai comuni di Lodi e di Gela e presentato in anteprima proprio a Lodi nel marzo 2008), oggi ha un rapporto difficilissimo: «In Sicilia mi sento parte di una battaglia in cui i ruoli sono chiari. Ma per la Lombardia io rappresento un trauma. E a Lodi, io e la mia famiglia abbiamo dovuto scontare le conseguenze di vivere sotto scorta: la reazione di pancia della gente è stata di chiusura, non di solidarietà».
Nel Lodigiano però Giulio Cavalli continua a vivere e a lavorare. Ora sta girando con il suo ultimo spettacolo: A cento passi dal Duomo (le mafie al Nord). E da tre anni la sua compagnia, la Bottega dei Mestieri Teatrali, cura la gestione e la direzione artistica del Teatro Nebiolo di Tavazzano, organizzando corsi di recitazione, iniziative con le scuole, incontri con gli autori. «Stiamo cercando di fare del Nebiolo una sorta di salotto teatrale, dove attori, scrittori, cantanti vengono a confessarsi davanti al pubblico (domenica prossima toccherà a Nanni Svampa, ndr). Ma questo teatro ci consente anche il lusso di provare gli spettacoli quando vogliamo ». Al Nebiolo sta nascendo anche il Centro di documentazione per il teatro civile: «Ogni nostro spettacolo è la punta di un iceberg fatto di storie, atti giudiziari e faldoni di documenti. Vogliamo raccogliere questo patrimonio e metterlo a disposizione. In genere gli attori tendono a impossessarsi dei loro temi. Al contrario, il Centro di documentazione funzionerà sel’anno prossimo la rete si sarà allargata e saranno nati altri spettacoli sulla tragedia di Linate».
A lavorare in rete Giulio Cavalli è abituato da anni, i suoi monologhi sono frutto della collaborazione con giornalisti, procure, commissioni antimafia. «La mia fortuna è essere l’anello di congiunzione tra due livelli distinti. Da una parte ci sono le sentenze, gli articoli, dall’altra il pubblico: e un attore ha la responsabilità di far emergere qualcosa che altrimenti non riuscirebbe a venire a galla». Ecco quindi il manifesto del suo “teatro partigiano”: «Una buona forma di indignazione che deriva da una informazione accu-rata, e che porti il pubblico a decidere da che parte stare ». Per essere più efficace, Cavalli porta avanti da anni una ricerca sulla parola che ha indotto molti critici a definirlo il nuovo Celestini, il nuovo Fo o il nuovo Paolo Rossi a seconda che lavori sul ritmo, sul grammelot o sulla risata dissacrante. «Odio le banalizzazioni, e odio dover leggere le critiche teatrali », ribatte lui, che si autodefinisce invece un giullare contemporaneo: «Un giullare è una persona che riesce a raccontare cose complicatissime in modo non descrittivo – spiega –, così che la presa di coscienza dello spettatorecoincida con la risata per le debolezze del potere». Rispetto ai vecchi cantastorie, però, Cavalli è un giullare 2.0: ha un sito, un blog, una pagina su Facebook e una trasmissione satirica (Radio Mafiopoli) trasmessa in podcast ogni mercoledì: «I nuovi media sono brutti, non hanno nulla a che vedere con l’arte. Ma permettono di raggiungere anche chi normalmente non presterebbe attenzione a temi come la mafia ». Proprio in questi giorni gli amici di Giulio Cavalli su Facebook hanno raggiunto quota 5mila. Chissà se il loro numero lo aiuterà a stemperare quello che individua come il suo primo difetto, l’antipatia, e a fargli pesare meno quello che sostiene essere il suo pregio: «Una gestione dignitosa della solitudine».
© RIPRODUZIONE RISERVATA Contro la mafia. Giulio Cavalli, 32 anni, attore lodigiano

Raffaella Ciceri

DA IL SOLE 24 ORE

sezione: LOMBARDIA data: 2009-12-16 – pag: 30

San Giuliano, lo sberleffo ai boss

A cento passi dal Duomo approda a San Giuliano a pochi chilometri da Milano, da quella città di cui lo spettacolo teatrale scritto e interpretato da Giulio Cavalli racconta legami e connivenze con la mafia. Legami nati e cresciuti in un silenzio assordate, ininterrotto, tra funerali, suicidi (alcuni illustri, come quello di Raul Gardini), sequestri, omicidi. E poi ancora numeri, numeri, numeri, perché la mafia dei “colletti bianchi”, armata non di lupara ma di fucili mascherati da finanziarie e concessioni edilizie, lavora alacremente. Siamo a Milano e parliamo di ‘ndrangheta, dagli anni Settanta ad oggi, dall’omicidio di Ambrosoli all’Expo 2015. Tutto questo accade nell’ultimo testo teatrale scritto e interpretato da Cavalli, che da Lodi ha saputo portare in giro per l’Italia un nuovo teatro civile, documentato, intenso e, ovviamente scomodo. Dopo il successo di Do ut Des, spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi, prodotto dal comune di Lodi e dal comune di Gela, dopo la direzione artistica del Nebiolo di Tavazzano, dopo le tante repliche del fortunato monologo Linate 8 ottobre 2001: la strage, scritto con il giornalista del «Cittadino» Fabrizio Tummolillo, Cavalli torna a parlare di mafia, incurante degli attacchi e delle minacce e di una vita che, da oltre un anno, è sotto scorta. L’attore lodigiano questa sera sarà sul palco del teatro Ariston di San Giuliano con A cento passi dal Duomo (ore 21.15, ingresso 10 euro), nell’ambito della rassegna teatrale “Cibo per la mente” organizzata dal comune del Sudmilano. Con testi dello stesso Cavalli e del giornalista Gianni Barbacetto (direttore di “Omicron”, l’osservatorio milanese sulla criminalità organizzata al Nord e ora in forza anche al «Fatto Quotidiano») e intense musiche di Gaetano Liguori, l’attore lodigiano si concentra sulla presenza delle famiglie mafiose nell’Italia Settentrionale, un fenomeno spesso sottovalutato dalla politica e dai mass media ma da anni denunciato dalla magistratura. Il silenzio cui si accennava all’inizio è quello della città di Milano, dai privati cittadini alle istituzioni, che pare non accorgersi dei traffici mafiosi che si svolgono all’ombra della Madonnnina: Cavalli ricorda durante lo spettacolo che il pm antimafia Vincenzo Macrì nel 2008 disse che «Milano è oggi la vera capitale della ‘ndrangheta».Ma non solo: mafia a Milano significa anche sangue, omicidi, regolamenti di conti. Significa una Gomorra meno appariscente ma non per questo meno importante o meno radicata.«Non è un caso che abbia scelto come compagni di studi e scrittura per i miei spettacoli dei giornalisti, per rispettare e non sprecare un’opportunità difficilmente ripetibile: un palcoscenico che si prenda il lusso di fare luce», dice Cavalli. E infatti, anche questa volta, il suo monologo non ha nulla dell’invettiva o del gioco di parole astratto, ma è una vera e propria orazione civile supportata da dati, documenti e analisi. Il tutto accompagnato dalla musica di Liguori: come afferma lo stesso Cavalli, «una ninna nanna dolce per un risveglio brusco di quella Lombardia che si crede immune dalla mafia».

Francesca Amé

DA IL CITTADINO L’ARTICOLO QUI

Teatro civile al Nebiolo: un viaggio negli inferi per capire la ’ndrangheta

Alla domanda più difficile («Cos’è la ’ndrangheta?») risponde che «mi sono serviti 80 minuti per tentare una spiegazione», nel documentario firmato con Enrico Fierro La Santa. Viaggio nella ’ndrangheta sconosciuta. Ma sul palco del Nebiolo sabato sera, per il primo degli incontri del Centro di documentazione per il teatro civile, Ruben H. Oliva, pungolato dagli interventi di Giulio Cavalli, fa un tentativo e traccia il ritratto di «un mondo che è capitalismo dentro il capitalismo, in cui la ’ndrangheta è un prestatore di servizi per i cartelli messicani del traffico di cocaina con un fatturato da 50 miliardi di euro». La metastasi di un cancro senza più centro ormai, con filiali in tutti i continenti, tanto che «sarebbero le ’ndrine sparse in tutto il mondo a continuare gli affari, se per assurdo si riuscisse a cancellare il fenomeno in Italia». Un’ipotesi remota, anche perché quel «club di potenti» che conta più di 5 milioni di affiliati nel mondo si affida al legame più difficile da tradire, quello di sangue. Rinunciare alla “Santa”, significa perdere tutto, anche la famiglia. E se il pentitismo dunque non è un problema per questa mafia, che è diventata la più forte e la più agguerrita militarmente, «c’è anche da dire – sottolinea ancora il giornalista di Diario, tra i fondatori di Radio Popolare, firma prima del Giorno, per poi arrivare al Secolo XIX e a Repubblica — che il sistema ’ndrangheta è, al tempo stesso, atavico e tecnologicamente avanzato». Nei rifugi dell’Aspromonte, tra le vecchie case di San Luca, luogo da cui tutto nasce e ancora annuale sede di incontro per la cupola calabrese, gli uomini di ’ndrangheta si muovono indisturbati. Usano videoconferenze, Skype (comunicazioni vocali tramite internet, ndr) e telefonate cifrate, si prendono gioco degli sforzi delle forze dell’ordine e godono di un’impunità guadagnata con il silenzio figlio della paura instillata in 50 anni di storia. In molti territori le ’ndrine sono alla terza generazione e i figli dei boss vanno all’università, «ma fanno Economia alla Bocconi e vanno al Mit di Boston a completare gli studi – spiega ancora Oliva -. Il vero dramma sono gli affari proposti alla mafia da quel pezzo di società che vuole godere di un patrimonio che è pari al 3,5 per cento del Pil. Soprattutto in momenti di crisi come questo che stiamo attraverso, la criminalità organizzata è l’unica ad avere i capitali. E allora l’imprenditoria pulita e insospettabile comincia a fare gli interessi della ’ndrangheta, i capitali neri vengono riciclati e l’economia è drogata». Attonito il pubblico davanti alla proiezione di una parte del documentario e alla testimonianza fiume di Oliva («una delle voci più autentiche che potessimo avere per quella che mi piace definire una “riunione condominiale contro l’ndrangheta”» ha commentato Cavalli che ha anche annunciato la nascita di un coordinamento provinciale per la legalità, fatto insieme alle associazioni del territorio). Un modo per contarsi, una reazione civile che, secondo l’esperienza di Oliva è il peggior incubo dell’ndrangheta. «Se con la politica si trova un accordo – ha chiuso il giornalista – , il timore di questo comitato di potere è che la gente dei territori in cui si sono insediati alzi la testa e scenda in piazza».Rossella Mungiello

DA IL CITTADINO L’ARTICOLO QUI

Le cosche narrate 'in teatri di periferia' I nemici invisibili di Giulio Cavalli.

L’attore teatrale sotto scorta ad Affari: “La ‘ndrangheta a Milano? Per molti non esiste. E io sono minacciato da un nemico invisibile”

Di Francesco Oggiano e Antonio Prudenzano

Giulio Cavalli è uno sfigato. Come chiamare altrimenti uno che deve difendersi da ciò che non esiste? Non è mai vissuto un eroe senza un nemico. Anzi, la sua giustificazione la trova proprio in esso. Ecco, anche per questo Giulio Cavalli è uno sfigato. Se ne sta alla sua scrivania, nel soppalco del suo teatro di periferia, sommerso da una pila di documenti, con gli occhi blu attaccati al Mac, un po’ a navigare su Facebook e un po’ a scrivere i suoi testi.

LA VIDEOINTERVISTA
I TESTI – Già, i suoi testi: quelli che parlano di quello che non c’è. Prima quelli sulla strage dell’aeroporto di Linate, nel 2001; poi quelli sui turisti sessuali italiani; infine quelli sulla mafia, portati sul palco prima con “Do ut des – riti e conviti mafiosi”, del 2006, e poi con “A cento passi dal Duomo”, che ha debuttato lo scorso ottobre al Teatro della Cooperativa di Milano. Giulio Cavalli è uno sfigato perché in prima serata non reggerebbe neanche mezz’ora. Lui, con le sue parole, non solletica neanche un po’ la pancia dello spettatore. Non mette in scena boss, non recita baciamani, non descrive tavole imbandite per padrini. Piccolo, curvo e misurato, ogni sera vomita sul palco fatturati e cda, noli a freddo e movimento terra, appalti truccati e finanziarie lussemburghesi. Raccoglie i dati, li analizza e ne ricava scenari. Proprio per questo, dallo scorso aprile si è visto affidare una scorta dei carabinieri.

cavallivideo2IL TEATRO – Ma Cavalli è uno sfigato anche perché, pur educatissimo, non ci sa fare con i giornalisti. Ancora immerso nella sua pila di libri, con il suo mouse, le sue scarpe sporche, la sua sigaretta fatta a mano e il suo soppalco, finalmente leva gli occhi dal Mac e li indirizza verso i cronisti andati a trovarlo: “Sapete che non ho ancora capito che cazzo volete fare?”. Un’intervista, è la risposta. Accetta, spegne la sigaretta e li conduce di sotto, nel suo teatro, quello di periferia, vuoto. Apre il sipario, accende le luci e un’altra sigaretta.

“LA MIA VITA IDENTICA A PRIMA” – Quindi archivia subito la pratica che pesa, quella di cui tutti parlano: “La scorta è un fatto puramente tecnico, non è una medaglia. Una persona viene considerata bisognosa di una tutela da parte dello Stato affinché possa continuare senza rischi la sua attività professionale. La mia vita è identica a prima. Non ho ansie e non ho paure”. Però Cavalli una paura ce l’ha: dentro di sé odia il fatto che quel che dice possa acquistare spessore solo perché ha quattro carabinieri al fianco. “L’Italia è piena di persone sotto tutela: di magistrati, pm, giornalisti. Le persone che hanno più paura lo sai chi sono? Sono i pentiti di mafia, che hanno trattato una buonuscita con lo Stato e che si spostano con cinque poliziotti alle calcagna”.

“LA DIFFERENZA TRA ME E SAVIANO” – Il paragone, tuttavia, è inevitabile: “La differenza tra me è Roberto Saviano è tra raccontare storie e raccontare le nostre storie. A me non interessa raccontare la mia esperienza. Non è simbolica, non fregherebbe niente a nessuno. Roberto avrà accettato i consigli che gli hanno fatto ritenere giusto e intelligente raccontare l’ombra che le storie che ha raccontato proiettano sulla sua vita”.

LA ‘NDRANGHETA A MILANO – Cavalli è uno sfigato perché si appassiona a quello che non c’è. Lui non parla di Camorra, di Stidda o di Cosa Nostra. No: a lui interessa la ‘ndrangheta. E nemmeno la consorteria attiva in Calabria. No. Lui mette in scena le cosche attive nel Nord Italia, in particolare a Milano e provincia: “Racconto quarant’anni di mafia perché li ritegno dignitosamente drammaturgici. E soprattutto descrivo il negazionismo patetico di una parte politica di Milano, la milanesità come impermeabilità. Credo che la parola può far male allo stesso modo di un’inchiesta”.

QUEL RAPPORTO ADULTERO MAFIA-POLITICA – Eccolo, il teatro civile dello sfigato. Quasi un atto di lesa maestà contro le ‘ndrine e soprattutto contro i politici e gli imprenditori collusi. Perché, spiega, “la mafia in sé è poco credibile. È stomachevole nelle forme e nei contenuti. La potenza di cui si riveste e il controllo dei territori che ha ottenuto li deve a persone molto credibili che hanno deciso di accettare questo rapporto adultero. In Lombardia c’è una colpa che ha delle radici prettamente culturali. E per questo va fatto un lavoro culturale”.

cavalli

IL FIUME CARSICO DELLA ‘NDRANGHETA – Un lavoro che, come primo atto, deve radere al suolo i luoghi comuni: “Basta con questa balla di una ‘ndrangheta formata da quattro bovari emigrati con le valigie di cartone al Nord Italia. La mafia calabrese ha un’umiltà fantastica. Pensa solo a questo: quando quegli imbecilli di Riina e Provenzano progettavano l’attentatuni (l’attentato che costò la vita al giudice Giovanni Falcone, a sua moglie Francesca Morvillo e ai tre uomini della scorta, ndr), le cosche calabresi fissavano i prezzi della droga del cartello di Medellìn. Altra differenza: Cosa Nostra è voluta diventare una Spa. Sognava una vera e propria struttura simile a un consiglio d’amministrazione, con quei quattro neuroni che si ritrovava. La ‘ndrangheta, più furba, si è comportata come un fiume carsico e ha arginato il fenomeno del pentitismo grazie alla sua struttura familiare, ottenendo molto più credito di fiducia nei confronti delle altre organizzazioni”.

L’ATTIVISMO ‘PASSIVO’ – Cavalli rifiuta l’attivismo ‘passivo’. “Delegare le responsabilità alla politica e ai politici è uno dei gesti più pavidi che esista. Li vedo questi giovani attivisti. Non capiscono che i politici decidono in base alle pressioni che gli pervengono e che possono spostare voti. Ormai dagli atti risulta che gli imprenditori milanesi non hanno più bisogno di essere minacciati. Accettano di buon grado di sottostare alle condizioni dei mafiosi, anche perché ne ricavano un vantaggio”.

UNA BATTAGLIA DI MEMORIA – Allora l’antimafia diventa una battaglia di memoria. Chi più ne ha più è forte. Certo è dura. In un Paese che non rinuncia al mare di luglio per andare ai funerali di Giorgio Ambrosoli; in un Paese in cui l’allora sindaco di Milano, Paolo Pillitteri, diceva che al “Nord la mafia non esiste”; in un Paese in cui “le intercettazioni sono solo le polluzioni di alcuni magistrati di sinistra”; “in cui si dice che Andreotti è stato assolto e non prescritto”.

IL SORRISO DEL MAGISTRATO BRUNO CACCIA – In un Paese, l’Italia, che non sa, o non vuole ricordare, chi era e com’è morto Bruno Caccia. Magistrato antimafia, è il primo a svelare i legami tra politica, imprenditoria e Cosa Nostra nella città di Torino. Muore ammazzato, una sera di giugno, mentre porta a spasso il cane, la sigaretta ancora in bocca, sotto la luce di un lampione, nel centro di Torino. Cavalli termina ogni suo spettacolo dedicandogli un monologo struggente: “Trovo triste un Paese che ha sempre bisogno di eroi”. Accende un’altra sigaretta, tira un paio di volte, socchiude gli occhi. Si concentra. Sta per fulminare i salotti buoni della società civile: “Concordo con chi sostiene che in Italia per fare la battaglia antimafia ci vorrebbe un morto eccellente l’anno. Si gioca molto a scovare storie e personaggi cui delegare completamente l’impegno. Vivi o morti, non ci bastano pochi simboli di una battaglia, purché venduti bene. I vari Roberto Antiochia, Beppe Montana… hanno combattuto la mafia allo stesso modo di Falcone e Borsellino”. L’attore fa riferimento alla fiction Il Capo dei Capi, accusata di aver mitizzato la figura di Toto Riina. “Io invece voglio parlare di quella mafia che come un’edera si attacca ai vuoti della politica. Bruno Caccia era un magistrato che l’aveva capito. Che aveva raccontato come la ‘ndrangheta avesse colonizzato il Piemonte, creando un cartello in combutta con Cosa Nostra. Ecco: Bruno Caccia era un magistrato competente, il cui assassinio è stato relegato negli articoli di spalla. Il teatro mi sembra un ottimo modo rendere giustizia a questa persona”.

“E ORA CHE HO BISOGNO MI RITROVO NEL TEATRO DI PERIFERIA” – Ma Giulio Cavalli è uno sfigato anche per un altro motivo. Resta lontano, chissà se per scelta o condizione, dai salotti teatrali. E non basta: gli sputa anche addosso. Ci si accorge di quando Cavalli sta per radere al suolo qualcuno: digrigna i denti, rallenta la parlantina, si protende col busto e lancia un’ultima occhiata all’interlocutore, per assicurarsi che abbia incassato il colpo. Poi passa ad altro: “A ben vedere non mi ritengo neanche un teatrante. Faccio il mio lavoro in un teatro e, se il luogo determina la professione, allora sì: sono un teatrante. Faccio teatro anche al bar, ma non mi ritengo un cameriere. Al momento il teatro italiano è una prostituta che fa la spola tra Camera e Senato. Non so neanche se esiste un teatro civile. Ogni tanto vedo qualcuno che fa l’impegnato. Poi, una volta guadagnatasi la targhetta sul citofono, si riguarda e abbassa i toni. Se il più rivoluzionario è un vecchiaccio mezzo cieco e mezzo e mezzo sordo come Dario Fo, allora…”. Ha il dente avvelenato. Molti teatri di città gli hanno chiuso le porte del suo spettacolo: “Mi sono ritrovato a fare il maggiordomo di funerali pettinati nei grandi teatri ed ero perfetto come portabara. Nel momento in cui io ho avuto bisogno, eccomi qui: mi sono ritrovato nel teatro di periferia”. Un vero e proprio sfigato.

DA AFFARI ITALIANI

http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/giulio_cavalli_cento_passi_duomo_mafia_milano241109.html

Linate secondo Giulio Cavalli

Giulio Cavalli è un attore teatrale che si districa in modo eccellente tra i temi della mafia, che lo ha condannato a morte costringendolo a vivere sotto scorta dopo lo spettacolo «Do ut des» in cui ridicolizzava cosa nostra e i suoi riti, e il grande teatro civile impegnato nella ricerca della verità di cui il nostro Paese molte volte rimane orfano. L’altra sera al teatro Camploy è stata la volta del disastro di Linate, raccontato dall’attore nello spettacolo «Linate. 8 ottobre 2001: la strage», scritto a quattro mani con Fabrizio Tummolillo e arrangiato dalle musiche di Davide Savarè. Uno spettacolo nato grazie alla collaborazione di oltre 20 comuni, tra i quali Verona, che cerca di far luce sull’abnorme tragedia che è costata la vita a 114 passeggeri, tra i quali anche un veronese, e a quattro addetti allo smistamento bagagli al lavoro nel deposito centrato in pieno dal boeing. Una narrazione divisa in due tronconi paralleli: da una parte la fiaba raccontata da nonno Cleto, dell’avioporto di Bengodi, un paese di fantasia che celebrava il suo nuovo porto aereo fatto in fretta e furia da abitanti quali «Lustramarmitte» e «Culodigomma», all’insegna dell’approssimazione e delle leggerezze burocratiche. Dall’altra metà del palco invece l’incubo reale, la tragedia vissuta nei suoi momenti immediatamente precedenti. Cavalli da giullare si fa ora pilota, ora controllore del traffico aereo, ora pompiere in quella mattina in cui la nebbia non consentiva di vedere oltre 100 metri e in cui l’unico mezzo per vedere dall’alto, il radar di terra che in tutti gli aeroporti del mondo segue gli spostamenti degli aereomobili sulla pista, era un ammasso di ferraglia tenuto assieme da semplice spago. E allora eccolo seguire il piccolo Cessna che per errore si immette nella corsia di rullaggio sbagliata, tradito dalla segnaletica insufficiente e che allo stesso momento dava lo stop e il via libera. Poi, con un balzo attraverso le cuffie, lo troviamo sull’altro aereo, quello maestoso, il boeing della Scandinavian Airline diretto a Copenaghen, che mentre sta per prendere il volo verso il cielo plumbeo si trova il piccolo velivolo fermo sulla pista, in perfetta rotta di collisione. Poi l’urto, l’incendio e lo schianto fatale contro il toboga; uno scenario di cui i controllori si accorgono solo dopo mezz’ora l’impatto, in virtù della più totale confusione ed imbarazzante impreparazione. Negli stessi momenti a Bengodi nonno Cleto e «Maria faccia da stria» brindavano all’inaugurazione dell’avioporto, ma i professori che avevano dato il via libera, per sicurezza tornano indietro in treno. E dopo una breve, ultima immersione tra gli atti processuali, l’attore che da circa sei anni deve guardarsi le spalle dai mafiosi offre al pubblico, tra cui sedeva anche il presidente del Comitato 8 Ottobre, Paolo Pettinaroli, la triste verità: a pagare per quelle negligenze e assurde superficialità sono stati solo quei 118 corpi straziati. Per il resto, dopo otto anni, ancora e solo nebbia.

DA http://bennycalasanzio.blogspot.com/2009/11/linate-secondo-giulio-cavalli.html

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Ascolta si fa serio

Dopo il modello di teatro civile “alla Paolini”, oggi il concetto comprende esperienze e modalità espressive diverse. Roberto Saviano, Giulio Cavalli, Belarus Free Theatre, tre esperienze accomunate dal fatto di rinunciare in vario modo alla raffinatezza dello stile per puntare all’evidenza dei contenuti

Della definizione di “teatro civile” si è a tal punto abusato da farla diventare vagamente stucchevole: ed è un vero peccato, perché questa categoria espressiva, che ha di per sé delle risonanze intellettualmente nobili – un’idea antica di polis, di collettività che si raccoglie attorno ai propri riti comunicativi – contiene al suo interno una varietà di forme e di stili diversi, una vasta gamma di possibili e spesso affascinanti declinazioni. C’è un teatro civile praticato da un solo attore monologante e c’è un teatro civile proposto da interi gruppi, c’è un teatro civile incentrato sul puro racconto e c’è un teatro civile che rappresenta delle vicende di senso compiuto costruite su dialoghi, azioni, personaggi.

Anni fa, dopo il successo del Vajont, si era imposta diffusamente – grazie anche alla bravura e al carisma del suo principale interprete – la tipologia preponderante della narrazione “alla Paolini”, che in qualche modo aveva finito per imporre uno schema, un modello costante che aveva dei ritmi, delle intonazioni, degli argomenti quasi fissi a cui ispirarsi: ed è stato quel modello che a un certo punto, applicato da troppi volonterosi epigoni, ha finito col diventare fatalmente ripetitivo, saturando il mercato. Oggi il concetto, per fortuna, si è esteso, comprende esperienze e modalità espressive diverse, unicamente accomunate dal fatto di rinunciare in vario modo alla raffinatezza dello stile per puntare soprattutto all’immediatezza, all’evidenza dei contenuti.

Così, in virtù di questa ritrovata energia creativa, il cosiddetto teatro civile – nelle sue molteplici articolazioni – sta vivendo un momento di grande vitalità, con un gran numero di proposte che lasciano il segno. Ed è un bene che sia così: non perché l’altro teatro, quello dotato di una più ambiziosa costruzione registica e drammaturgica, abbia in sé qualcosa di sbagliato, anzi anch’esso sta sempre più eliminando gli orpelli, riducendosi all’essenziale, ma perché il confronto, la dialettica tra questi due poli opposti del linguaggio scenico li stimola e li arricchisce entrambi. E il pubblico, in questo momento, ha bisogno tanto di suggestioni artistiche quanto di momenti di più ampia riflessione.

Lo si è colto, ad esempio, dalla prolungata standing ovation che ha accolto, al Teatro Studio di Milano, La bellezza e l’inferno, lo spettacolo scritto e interpretato da Roberto Saviano, e prodotto dal Piccolo Teatro. In senso stretto, si tratta di un teatro civile sui generis, perché l’autore di Gomorra, con una scelta che fa altamente onore al suo bisogno di non irrigidirsi in un cliché ormai scontato – di camorra e malavita organizzata parla di fatto pochissimo, e preferisce illustrare il destino di una serie di personaggi che hanno superato e vinto l’inferno di estreme difficoltà fisiche, psicologiche o ambientali in virtù della loro fede nella bellezza della vita, nella pienezza della creazione artistica, nella necessità di testimoniare una condizione di sofferenza e di disagio dei propri simili o del proprio popolo.

Sfiorando il tema delle cosche soltanto a proposito della comunità nigeriana di Castelvolturno, che ha osato sfidare la violenza dei boss con molta più determinazione di quanto non abbia fatto la cittadinanza locale, lo spettacolo – costruito su articoli e interventi vari dello stesso Saviano – si sofferma dunque soprattutto sui casi esemplari di due ragazze iraniane – Neda Soltani e Tarameh Moussavi – che hanno subito una fine atroce in nome della possibilità di esprimere le proprie idee, dello scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa, ucciso in quanto oppositore del governo e delle multinazionali del petrolio, di un altro scrittore, l’amatissimo Varlam Salamov, sopravvissuto ai gulag staliniani, del calciatore Leo Messi, divenuto un campione a dispetto di una grave forma di nanismo, del pianista jazz Michel Petrucciani, che non ha lesinato il proprio talento malgrado una malformazione che rendeva le sue ossa fragili come vetro.

Saviano, diretto con mano leggera da Serena Sinigaglia, dimostra davvero un’insolita misura: non fa il divo, non si atteggia a tribuno, non cerca a tutti i costi di commuovere, di indignare, di suscitare la reazione più viscerale dello spettatore. Si limita a raccontare delle toccanti storie umane, ragionando su di esse pacatamente, lucidamente, sentitamente, senza inseguire l’attualità più sfacciata, senza sfoggiare proteste o recriminazioni. Persino quando, a titolo dimostrativo, fa girare in platea un autentico Kalashnikov, l’arma preferita da killer e terroristi, invitando gli astanti a passarselo di mano in mano, non compie un gesto retorico, non sembra cercare il facile effetto emotivo, come altri farebbero, ma punta semplicemente sulla scarna, oggettiva eloquenza di quella spietata macchina di morte.

Il suo modo di porsi, ovviamente, non è quello di un attore professionista, e si vede da certe piccole incertezze, da certi impercettibili espedienti per riprendere fiato e ritrovare di volta in volta il filo del discorso. Ma l’intensità dello sguardo che egli posa sulle persone e sulle cose non richiede una tecnica particolare: anzi, la naturalezza, l’assoluta assenza di artificio recitativo conferiscono alle sue parole un’ulteriore carica di autenticità, uno spessore di verità che diventa a tratti abbacinante. A garantire la profondità di questa esigenza di interloquire, ove mai ce ne fosse bisogno, c’è la presenza della scorta che deve accompagnarlo fino in palcoscenico. Si torna a casa, dopo averlo visto, con un inusitato senso di commozione e arricchimento (al Teatro Grassi di Milano dal 16 al 20 febbraio).

Un altro attore costretto a esibirsi sotto scorta è Giulio Cavalli, che però ha uno stile e delle finalità completamente diversi. Poco più che trentenne, dotato di una formazione tradizionale e di un’iniziale inclinazione “giullaresca”, forse mediata dal modello di Dario Fo, da un paio d’anni Cavalli persegue un teatro di informazione e di denuncia, che è passato attraverso lo svelamento dei retroscena del disastro di Linate del 2001 e il tema spinoso della pedofilia e del turismo sessuale per approdare, da qualche tempo a questa parte, a un impegno costante ed esclusivo nell’analisi del fenomeno mafioso e della sua penetrazione nel tessuto economico nazionale.

In un certo senso Cavalli, che dirige il Teatro Nebiolo di Tavazzano – una sala del territorio lodigiano trasformata in un centro dello spettacolo di narrazione e documentazione, dove sta anche nascendo un archivio di testi e di copioni – incarna l’evoluzione più recente e più radicale di questo genere di esperienze: il suo lavoro, più vicino alle inchieste della stampa che agli slanci dell’invenzione artistica, avviene a stretto contatto con giornalisti e magistrati, del cui operato è in qualche modo un sostegno e una prosecuzione. Non a caso il suo ultimo spettacolo, A cento passi dal Duomo, ricavato da un saggio di Gianni Barbacetto e presentato poche settimane fa al Teatro della Cooperativa di Milano, è interamente dedicato alle infiltrazioni dei padrini nei progetti per l’Expo del 2015, e in altre mille attività del capoluogo lombardo e dintorni.

Quello di Giulio Cavalli è un teatro dal severo taglio militante, senza mediazioni o concessioni all’intrattenimento. Esso si basa unicamente sulla nuda cronaca, su un’incalzante concatenazione di avvenimenti loschi e sanguinosi che attraversano la nostra storia da una trentina d’anni a questa parte, dall’assassinio di Giorgio Ambrosoli in poi, e non lascia certo spazio a quel tanto di sentimenti personali – come il tifo adolescenziale per le prodezze di Maradona – che comunque Saviano porta in luce. Il suo scopo non è di suscitare un atteggiamento dialettico, ma di togliere il fiato all’ascoltatore. Se ne esce sgomenti, profondamente impressionati. L’attore manipola con sapienza la sua materia, fa collegamenti, trae conclusioni, lascia in sospeso qualche ipotesi più o meno arbitraria: ma poco importa, fosse vera anche solo la metà di ciò che dice, ci sarebbe veramente da aver paura (il 7 novembre a Bolzano, il 12 novembre a Como, il 19 novembre a Varese).

Ancora diversa è l’idea di teatro civile messa in mostra dal Belarus Free Theatre, un gruppo di attivisti bielorussi che vanno in scena unicamente per far conoscere la drammatica mancanza di libertà e democrazia che affligge il loro Paese: in Discover love, lo spettacolo che ho visto al festival “Vie” di Modena, ad esempio, si occupa della piaga degli omicidi politici e dei sequestri di persona misteriosamente orchestrati dal regime. Non c’è traccia di finezze o abbellimenti in questo impianto narrativo che va dritto al cuore del problema: la vicenda, ispirata a un episodio realmente accaduto, procede lungo il filo del racconto con cui la moglie di una vittima eccellente, l’ex capo del comitato elettorale, Anatoly Krasovski, sequestrato e barbaramente ucciso nel 2000, ricostruisce la sorte del marito.

Lo spettacolo, realizzato con mezzi davvero poveri, ha l’andamento di una romantica storia d’amore: si parte dall’infanzia della donna, un’infanzia simile a tante altre, sul cui sfondo si avvertono però, come attutiti, i segni di un potere cupo, autoritario, si prosegue con l’incontro che segna la sua esistenza, preludio a un matrimonio felice e appassionato. Poi, all’improvviso, il brutale epilogo: una notte l’uomo – insieme con l’amico che lo stava accompagnando – viene inghiottito dal nulla, e su di loro calerà un’invalicabile cortina di silenzio. Diventeranno due nomi in più da aggiungere a una lunga lista di cittadini rapiti e scomparsi, per i quali è in corso una campagna dell’Unione Europea, cui il Belarus contribuisce con le proprie rappresentazioni.
Raramente, credo, mi era capitato di vedere un apparato teatrale così ingenuo e dimesso, così assolutamente ridotto ai minimi termini: la scenografia è di una semplicità disarmante, la recitazione un po’ sommaria, e non c’è margine per una qualsiasi sottigliezza d’invenzione: tutto è spoglio, tutto è focalizzato esclusivamente sull’urgenza di comunicare. Ma è chiaro dall’inizio che questo prevalere del contenuto sulla forma non toglie niente all’efficacia del messaggio, anzi lo rende ancora più vibrante.

La rinuncia alla pura dimensione estetica è compensata dallo struggente bisogno di far sentire la propria voce, l’elementarità dello stile si traduce in un’emozionante continuità fra il teatro e la vita: il vero nucleo dello spettacolo non è l’azione in sé, sono le immagini video delle proteste in una qualche città bielorussa, sono i ceri accesi che accompagnano gli spettatori all’uscita, come in un mesto cerimoniale funebre.

Renato Palazzi

DA LINUS L’ARTICOLO QUI

La mafia a Milano e la battaglia del teatro civile di Giulio Cavalli

Lecco (bge) «La mafia a Milano non esiste. Non è mai esistita. E` tutta una montatura per screditare il ricco, produttivo, avanzato, civile, Nord Italia».

Di mafia, all’ombra della Madonnina, se ne è sempre parlato poco e male. Ma è stato proprio a Milano, a 100 passi dal Duomo, che si sono consumati, in meno di dieci anni, dal 1974 al 1983, oltre 100 sequestri a scopo di estorsione. Senza contare che negli anni la cintura di Comuni intorno alla metropoli lombarda è diventata la patria ufficiale del confino delle mafie, la coltre di silenzio ideale per coprire «l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, Sindona, i retroscena di Raul Gardini, di Calvi e dell’Expo 2015».

A raccontarlo senza troppi peli sulla lingua è un giovane attore lodigiano, Giulio Cavalli, direttore artistico del teatro Nebiolo di Tavazzano, che si è sempre occupato di temi scomodi, al punto da essere minacciato dalla mafia e da vivere da tempo sotto scorta: sin da «Linate 8 ottobre 2001», racconto che svela molti punti oscuri dell’incidente aereo che causò 118 morti, «Bambini a dondolo», sul turismo sessuale infantile, e «Do ut Des», show che ridicolizza i boss prodotto con il Comune di Gela.

Il suo ultimo spettacolo, dal titolo «A 100 passi dal Duomo», che va in scena venerdì 13, alle ore 21, allo Spazio Musica «Achille Gajo» di Lecco, in via Plava 5 (rione Pescarenico), scritto in collaborazione con il giornalista Gianni Barbacetto, si concentra invece sulla presenza delle famiglie mafiose al Nord, capoluogo manzoniano compreso.

Insofferente alle etichette, soprattutto a quella di «teatro civile», Cavalli ha intrapreso una lotta contro «la presunzione ebete di Milano che fa la bella addormentata. A livello di antimafia qui siamo ancora all’anno zero ?spiega-. La Lombardia non vuole ammettere a se stessa di essere stata vittima di una cosa così barbara e vile come la mafia, che è siciliana».

La capitale, morale, secondo l’attore, reagisce «con un’omertà più fine. L’indifferenza educata dei suoi abitanti equivale alle finestre chiuse di Cinisi, in provincia di Palermo. Sono convinti che il pizzo sia un taglieggiamento per questioni siciliane e rifiutano ogni discorso sulle possibili complicità».

Da quanto vive sotto scorta e qual’è stata la rappresentazione che ha cominciato a far paura a qualcuno?

«La vicenda ? spiega Cavalli – è cominciata in una climax ascendente dal 2006. In quel periodo insieme a Rosario Crocetta, Antonio Ingroia, Giovanni Impastato e molti altri avevamo deciso che era il momento di riprendere in mano la lezione di Peppino Impastato e ?disonorare? Cosa Nostra mettendone a nudo le bassezze morali e la comicità dei limiti medievali di riti e boss. Disonorarli, per noi, era una questione di onore. Un modo per ribellarsi ad un racket culturale di eroicità negativa di individui che una certa televisione ci proietta come ?astuti geni del male? e invece si rivelano infimi nella loro bassezza. Ridere di mafia significava urlare forte che ?il re è nudo? e, di conseguenza, che difficilmente questi personaggi avrebbero potuto tenere sotto scacco una nazione senza l’aiuto dei colletti bianchi e di alcuni pezzi della politica.»

Cosa differenzia la mafia del sud da quella del nord?

«Al nord hanno l’abito buono delle organizzazioni economiche. Profumano di partite iva e eleganza, stanno nel riciclaggio in cravatta e nella cocaina del dopo aperitivo di certa borghesia. Ma l’odore è lo stesso; quello peloso della prevaricazione e della bava dell’illegalità.»

Il biglietto di ingresso costa 5 euro. Per informazioni e prevendite riguardanti lo spettacolo: lecco@arci.it.

DA LA PROVINCIA DI LECCO L’ARTICOLO QUI

“Il Massimo «pasionario». Appello a Napolitano per salvare lo spettacolo”, di Marcella Ciarnelli

Volti noti. Quelli con tanti anni di carriera alle spalle, quelli con tutta la carriera davanti. Il mondo dello spettacolo al Quirinale in occasione della consegna dei premi Eti per il teatro e De Sica per il cinema. Premio alla memoria a Mike Bongiorno, consegnato alla moglie. Attori, attrici autori in platea. C’era anche Giulio Cavalli, attore che fa teatro civile di denuncia e, minacciato dalla mafia, vive sotto scorta.
E stata un’occasione di festa ma anche il momento di un bilancio che continua ad essere amaro nonostante l’impegno ancora ieri ribadito dal ministro Bondi che ricorda «i nuovi strumenti di incentivazione fiscali»
che avrebbero alleggerito una situazione che resta però difficile.
A Massimo Ranieri, premiato per il teatro e «diplomato oratore di successo » da Napolitano, e a Giovanna Mezzogiorno che ha avuto il riconoscimento per il cinema, è toccato il compito di portavoce del disagio e delle richieste di chi lavora nel mondo dello spettacolo. «Oggi, 9 novembre, nessun teatro sa con certezza l’entità dei finanziamenti che percepirà per l’anno che sta per concludersi » ha detto l’artista napoletano guadagnandosi un lungo e convinto applauso che ha sottolineato anche la richiesta «di una legge per il teatro che manca da decenni e c’è in ogni altro paese d’Europa ». Mentre Giovanna Mezzogiorno ha lanciato l’allarme «sull’eccessiva rincorsa alla visibilità, vanità e nepotismo a scapito della formazione». E a proposito dei finanziamenti pubblici «dovrebbero andare principalmente alle opere prime».
La grande «qualità della produzione artistica italiana» che contribuisce a sviluppare «una grande corrente di simpatia nel mondo verso l’Italia» è stata sottolineata dal presidente Napolitano ancora una volta dalla parte di coloro che svolgono un lavoro in cui la libertà d’espressione «è particolarmente cara». Se il ministro Bondi, che ha annunciato gli Stati generali della cultura e la proclamazione del 27 marzo come giornata del teatro, ha parlato di «primi passi» a proposito dei finanziamenti, il presidente ha fatto capire che un occhio d’attenzione ci sarà sempre da parte sua perché le attese non siano deluse. E abbiano risposte. «Sono sicuro che il governo continuerà il dialogo con voi, sia sulle risorse che servono che su tutto il resto».
Aveva appena ricordato Ranieri, citando Lorca, «la cultura costa molto, ma l’incultura molto di più».

L’Unità, 10 novembre 2009

Spettacolo/ Napolitano incontra Cavalli, attore anti-mafia

Lui si chiama Giulio Cavalli e fa teatro civile di denuncia. E questo gli è costato minacce di morte da parte di diverse famiglie mafiose. Minacce vere, reali come il suo teatro, tanto che da aprile, dopo due anni di tira e molla, ha ottenuto una scorta e vive accompagnato da due ‘angeli con la pistola’. Oggi, per l’incontro annuale con la ‘gente dello spettacolo’, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo ha voluto ospite al Quirinale. Non solo. Al termine della tradizionale cerimonia di premiazione, il presidente si è intrattenuto a lungo con Cavalli, per ascoltare una storia iniziata quasi tre anni fa a Gela, quando il giovane autore, regista e attore mise in scena, con alcuni magistrati e giornalisti siciliani, una piece composta da stralci di intercettazioni ambientali finite in processi per mafia e da alcuni pizzini di Bernardo Provenzano. Il tutto, spiega Cavalli, “in chiave comica, ma riprendendo anche la lezione di Peppino Impastato”. Il progetto ebbe successo, ma per Cavalli, una volta rientrato a Lodi, cominciarono le minacce, che andarono moltiplicandosi quando cavalli mise in scena uno spettacolo sulle infiltrazioni mafiose negli appalti in Lombardia. Alla fine, servizio scorta per l’attore e nuovo spettacolo, stavolta realizzato in collaborazione con Libera, l’associazione per la lotta alle mafie di Don Luigi Ciotti. Oggi, infine, l’appuntamento al Quirinale, con Napolitano, sensibile com’è al tema della denuncia civile, molto interessato a questa storia. Il presidente, durante il colloquio con l’attore, ha avuto parole di elogio “per il coraggio di denunciare” e a esortato Cavalli “a proseguire con il suo lavoro”. L’attore, però, ha denunciato una sorta di ‘abbandono’ da parte del mondo del teatro e in generale dello spettacolo di chi, come lui, fa teatro-denuncia e a volte si trova esposto, al pari di giornalisti, scrittori e magistrati, esposto alle vendette delle cosche. All’allarme di Cavalli di è associato anche il direttore di Ossigeno, l’osservatorio della Fsni sui giornalisti minacciati e sulle notizie oscurate con la violenza, Alberto Spampinato. “Ci sono troppi casi come quello di Cavalli – ha detto Spampinato – e di altri autori e giornalisti che vengono lasciati troppo soli”.