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Avezzano, il terremoto dimenticato che fece oltre 30 mila morti


104 anni fa morirono 30519 persone nel terremoto della Marsica. Uno dei più disastrosi eventi della storia d’Italia oggi ritorna di attualità per la forza con cui i sopravvissuti ricostruirono le proprie vite e per la solidarietà e la coesione sociale che unì un’intera nazione. Il bisogno da sempre apre gli occhi sui bisognosi. Per questo dopo 104 anni quella lezione rimane ancora preziosa.
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I fake bot che esultano per le casette (finte) avute (per finta) dopo il terremoto (vero)

Io non so esattamente secondo quale principio o quale scala dei valori decidiamo che una fake news sia orripilante e meriti di urlare tutto l’orrore del mondo rispetto ad altre che invece scivolano via come lemonsoda sulla tovaglia cerata. Personalmente trovo comunque che questi account (finti) che esultano per le casette (finte) avute (per finta) dopo il terremoto (vero) siano l’apice della sgradevolezza filogovernativa. E chissà perché non mi stupisce che se ne parchi così poco rispetto a altro.

Ne parla David Puente (bravo David) sul suo blog:

Proprio ieri avevo fatto i complimenti all’amica Stefania Carboni per il suo articolo riguardo i “fake bot” (per intenderci estremamente semplici “utenti falsi gestiti in maniera automatica“) che su Twitter avevano pubblicato nel tempo messaggi riguardo le casette del terremoto. Si parla di account creati da qualcuno dopo aver “rubato” le identità altrui sfruttando le loro foto, una pratica che riscontro ormai da anni visto che certe “piovre delle panzane” diffondevano contenuti in quel modo (vi ricordo il caso recente di “Adessobasta“).

Stefania riposta il tweet di “Raimondo Campanella” del 28 dicembre 2017 che contesta quellodell’account “Carla” del giorno prima:

Carla: “È una notte speciale x me perché stanotte dopo oltre 5 anni dal sisma dormo x la prima volta a casa mia.E mi andava di condividerlo con voi.”

Raimondo: “Fate schifo. Vi segnalo.”

Come riporta Stefania, la frase twittata da “Carla” è uguale a quella di altri account e diffuso nel corso degli anni. Nel tweet di “Raimondo” troviamo qualche esempio (riscontrabile qui), vi riporto i suoi screen e un elenco degli utenti.

Ecco i nomi e i link ai loro profili:

Che cosa hanno in comune tra di loro? Elenchiamo ancora:

  • molti sono stati creati nel gennaio 2012, qualcuno nel marzo dello stesso anno o del gennaio 2011;

  • hanno almeno una dozzina di migliaia di follower;

  • pubblicano in continuazione tweet con frasi banali (“Io amo chi sa strapparti un sorriso“), quasi da “perdi tempo“;

  • l’email usata per la gestione dell’account (tranne quelli evidenziati con un asterisco rosso *nell’elenco precedente).

(trovate tutto qui)

Buon Natale, dalle casette al gelo dei terremotati

Un reportage da leggere di Gabriella Cerami per HP:

C’è la neve sui tetti e c’è il ghiaccio lungo le strade. Nelle zone terremotate è arrivato il secondo Natale dal sisma e tuttavia gli abitanti si sentono come precipitati in un villaggio estivo. Di quelli con casette leggere. Qui invece siamo a meno 8 gradi e in certe contrade si arriverà nei prossimi giorni a meno 15. “Hanno costruito le casette per il mare”, dice Federica, della frazione di Sommati, a due passi da Amatrice. In questa parte d’Italia niente è rimasto in piedi: “A farci compagnia ci sono solo i topi, che mangiano i tubi delle caldaie. Quelli che non si sono congelati a causa del freddo”.

Nei paesi del centro Italia, distrutti dai terremoti del 24 agosto e del 30 ottobre 2016, le feste giungono in uno stato di emergenza che sembra non avere fine. La metà della casette, circa 1800, deve ancora essere consegnata e così ci sono famiglie costrette a vivere in container o in albergo. “Gli altri anni desideravo tanto il Natale, quest’anno no”, e la signora Pierina Paolini, 88 anni, nella sua fragile casetta di Accumuli, dove il riscaldamento spesso si blocca, scoppia in un pianto.

Da Amatrice passa un camion, Federica inizia a sbracciare, il conducente si ferma, lei lo saluta: “Doveva chiamarti la signora Anna, ti ha chiamato? Le si è bloccato il boiler, lo scaldabagno”. Un sospiro e poi racconta: “È il manutentore, ormai siamo diventati amici. Lo chiamiamo un giorno sì e l’altro pure. Qui ce n’è sempre una”. Risata amara mentre fuma una sigaretta in pausa pranzo. Lavora in banca, che poi è un container montato a duecento metri dalla zona rossa, dal cuore antico del borgo che ormai non esiste più. “Noi siamo dipendenti e abbiamo ricominciato a lavorare, i negozi e i ristoranti sono stati riaperti nel triangolo commerciale. Se il commercio esistesse ancora il commercio. Qui non viene nessuno, di inverno poi non ne parliamo”, dice un’altra signora, che preferisce non rivelare nome e cognome: “Se parliamo si arrabbiano, ormai abbiamo il sindaco Pirozzi in campagna elettorale…”.

 

Nel borgo di Amatrice ci sono un paio di squadre di operai che lavorano nella zona rossa, il corso è stato riaperto tra cumuli di macerie da dove è spuntato fuori un alberello con palline rosse rimaste intatte nonostante le ripetute scosse: “Fa un po’ Natale”, dice un operaio. “Non è un simbolo di speranza, ma è il simbolo della nostra resistenza”, aggiunge una signora che cammina sotto la neve. Militari e vigili del Fuoco pranzano nell’area dei ristoranti, di fronte c’è la scuola e poco più in là un campo di casette. L’impressione è che tutto ciò sia una simulazione di vita in mezzo alle macerie circostanti. Si consumano caffè al bar Risorgimento e per riscaldarsi a volte basta una genziana e quattro chiacchiere per fingere normalità in un contesto da dopoguerra, dove nessuno crede nella ricostruzione di Amatrice, quello che era uno dei borghi più belli d’Italia, come recita un cartello stoicamente rimasto in piedi. Basta fare qualche passo per vedere che il disastro è immane, le macerie sono ancora quasi tutte qui, una data precisa in cui ricomincerà la resurrezione non c’è. Le frazioni attorno sono un deserto gelato, una foresta pietrificata anzitutto nelle speranze. “Qui siamo entrati dritti, e da queste casette usciremo a piedi pari. Morti”, si duole Giulio Del Re, un anziano che ha perso il quel 24 agosto il suo bestiame. I turisti non ci sono più, tante persone sono andate via. Chi resta combatte con le casette.

In pratica le temperature sotto lo zero gelano il tubo che trasporta l’acqua calda, quindi il riscaldamento si blocca e l’acqua scorre fredda. Questo perché lo scaldabagno è stato collocato sul tetto e viene alimentato dai pannelli solari, “ma qui il sole non lo vediamo, neanche a ferragosto riusciamo ad alimentare una caldaia con i pannelli solari”, è l’amara ironia di Maria Luisa Fiori, seduta al tavolo nel suo simil-salottino di Arquata del Tronto, con il riscaldamento che va e non va e le pareti che potevano essere dipinte meglio.

E così, “a forza di litigare con tutti, con la Regione, con le istituzioni”, gli operai sono al lavoro per isolare i tubi e staccare il pannello solare dalla caldaia. “Volete un caffè?”, chiede Maria Luisa al ragazzo sul tetto: “Ormai qui viviamo noi e loro”. Molte delle piccole dimore consegnate, 1871 su 3666 richieste sparse nel Lazio, Umbria, Abruzzo e Marche, sono da sistemare. Nonostante i collaudi ci sono pavimenti da riattaccare e porte da tagliare, più di ogni altra cosa ci sono tubi e cabine elettriche da isolare perché queste ultime all’interno sono piene di acqua: anche in questo caso non sono stati fatti i conti con la neve e l’umidità. La signora Alice lì in fondo al campo di Arquata ha i termosifoni spenti e la ditta arriverà soltanto il 27 dicembre. “Ormai siamo sotto le feste. Degli altri”, si sente dire nonostante alle porte e alle finestre ci sia qualche simbolo che ricorda il Natale, come un alberello, qualche lucina o un piccolo presepe: “Ce li hanno regalati i volontari, una volta a settimana vengono anche a portarci il pane. Le istituzioni all’inizio venivano, ora non si vede nessuno”. Difficoltà quotidiane sono la norma, come le piscine che si creano davanti ad alcune case quando piove poiché non è stata calcolata bene la pendenza.

Ma c’è chi sta ancora peggio. Nella frazione di Cossito c’è un campo su una collinetta, che si intravede appena, tre container per sei persone, uno spazio comune e cani che abbaiano quando sentono i cinghiali arrivare. “Se spegniamo la stufetta per cinque minuti moriamo congelati. La notte di Natale? Andiamo a dormire, qui è una notte come un’altra”, dice Giovanni Nibbi in giacca a vento e cappello di lana in testa. Si è in attesa della casetta, che arriverà a marzo: “Ma non potevano iniziarli prima questi lavori?”.

(continua su Huffington Post)

Peppina avrebbe dovuto costruire un parcheggio pubblico

Sempre su nonna Peppina (ne ho scritto qui) vale la pena leggere l’aggiornamento di Loredana Lipperini:

 

Così, se non lo sapete già, Peppina è andata via. Non molto lontano dalla casetta che ha dovuto abbandonare dopo che il suo ricorso è stato respinto: nel famoso container di 15 metri quadri, che si suppone non confortevole con il primo freddo autunnale. Se ne va e insieme rimane e, oh certo, qualcuno dirà che ci si fa scudo con il corpo di una vecchia signora per andare a coprire, e in futuro giustificare, gli abusi.
Bisogna rispettare la legge, certo. E i vincoli paesaggistici ed edilizi esistono, evidentemente. Ma sono concepiti anche per una situazione di emergenza come quella attuale? Perché questo occorrerebbe faresecondo la Soprintendenza:

L’edificio deve essere allineato con quello principale – all’interno della sua proiezione – l’intonaco va realizzato a base di calce idraulica naturale e successivamente tinteggiato con un prodotto a base di calce naturale a colori tenui, la copertura deve essere a due falde con il colmo del tetto parallelo al lato lungo e non più alto di ml. 2,40, gli sporti di gronda con i canali in rame non superiori a cm. 30, mentre quelli sulle falde non superiori a cm. 15, il manto di copertura deve essere realizzato con coppi anticati, gli infissi in legno, inoltre la morfologia dei luoghi deve rimanere inalterata ed il manufatto va schermato con essenze autoctone”.

Non solo:

“Nodo del contendere c’è, oltre all’orientamento del tetto, l’altezza massima calcolata dal colmo del tetto. Il regolamento regionale 2/2015, all’articolo 21, regolamentando le pertinenze, parla di un’altezza massima di 2,40 metri, senza ulteriori indicazioni. Misura che, secondo uno dei tecnici privati che si sta occupando delle pratiche per i suoi concittadini, per consuetudine solitamente viene calcolata fino alla gronda e non al colmo del tetto. “Ci sono pertinenze già realizzate, e regolarmente approvate dalla Soprintendenza che prevedono, come ovvio, che l’altezza massima di 2,40 mt sia quella in gronda” sostiene. Sottolineando che calcolare quell’altezza dal colmo del tetto “rende di fatto inutilizzabile l’accessorio considerando che all’imposta l’altezza sarebbe pari a circa 1,5 metri”.

Non solo:
Peppina avrebbe dovuto anche realizzare un parcheggio pubblico.

Non si stanno contestando le norme. Semplicemente, a fronte di un ritardo inammissibile (un anno dopo, le casette NON ci sono), occorreva snellire le procedure del fai-da-te. Non è stato fatto. Comunque vada a finire la storia di Peppina, ci sono gli altri 299 che il procuratore di Macerata intende perseguire. Perché così va. Perché in questo post-terremoto, come si è capito, le persone contano solo ed esclusivamente come possibili elettori, non come cittadini, non come membri di una comunità e di un territorio.
Questa storia è, in una parola, orribile.

 

(fonte)

Sms solidali? Ad Amatrice mai arrivati, nemmeno un euro.

Sisma, la denuncia di Pirozzi: “Mai visto un euro dei soldi raccolti con gli sms solidali”
Nemmeno un euro dei 33 milioni che erano stati raccolti con gli sms solidali all’indomani del terremoto che il 24 agosto 2016, sono finiti nelle casse dei comuni colpiti dal sisma. E’ quanto ha denunicato il sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi dal palco di Atreju, la festa di Fratelli d’Italia.

“Io penso che tutte le persone che in quel momento hanno versato due euro, li hanno versati per Amatrice, per Accumoli, per Arquata, per Norcia, per Sant’Angelo in Nera, per Pieve Torina, per tutti quei comuni che hanno subito danni con il terremoto del 24 agosto”. Poi però, continua Pirozzi, hanno deciso “di non dare niente né ad Amatrice, né ad Accumoli… facendo delle scelte totalmente diverse”.

“Io comunque ho avuto la fortuna”, ha aggiunto poi Pirozzi intervistato dal giornalista Franco Bechis, “di avere tanta solidarietà diretta da parte degli italiani. Però con la gestione di quelle donazioni degli sms si sta dando un messaggio profondamente sbagliato. Perché io penso che tante persone in quelle giornate e quelle settimane intendevano dare un aiuto diretto a quelle persone e a quei paesi che vedavano devastati. Il fatto di non indirizzarli là è devastante, perché poi la gente non crede più a nulla. La destinazione di quei fondi è stata decisa da una commissione di saggi che tanto saggi non sono. Io credo che dopo averli usati così bisogna chiedere scusa agli italiani…”.

(fonte)

Ecco perché con l’abusivismo non si scherza

“Con l’abusivismo non si scherza, altrimenti queste sono le conseguenze”. Al Corriere della Sera il magistrato Aldo De Chiara, da poco in pensione e che è stato procuratore aggiunto di Napoli fra il 2007 e il 2012 non le manda a dire su quanto successo a Ischia a causa del terremoto. Lui che si occupò del coordinamento della sezione tutela del territorio da anni prova a far luce sull’abusivismo dell’isola. Ecco alcuni passaggi dell’intervista al Corsera.

Quel che dice lo ricava da quegli anni in prima linea?

«È chiaro. Con i miei colleghi abbiamo sempre detto: le costruzioni abusive sono una minaccia, soprattutto per chi le abita».

Perché una scossa modesta ha fatto tanti danni e anche morti e feriti?

«Per ciò che abbiamo detto in questi anni e che è emerso dalle indagini. In molti casi è stato accertato che viene utilizzato cemento impoverito. E noi avevamo lanciato l’allarme sul rischio di crolli anche in caso di scosse non particolarmente forti. Purtroppo quello che denunciavamo è successo ieri sera».

Ma è possibile che in quella zona siano così tante le costruzioni abusive?

«L’isola è gravata da una serie di vincoli e tutte le costruzioni degli ultimi anni sono in gran parte fuori legge. Entro i 500 metri dal mare c’è un vincolo di inedificabilità assoluta. Ci sono poi i vincoli idrogeologici. Ricordo che alcuni anni fa ci fu un grosso temporale proprio a Casamicciola che provocò una frana e la morte di alcune persone. Anche in quel caso per il mancato rispetto della legge».

E dunque?

«E dunque si può dire che molte delle costruzioni realizzate negli ultimi anni non avrebbero mai dovuto esistere».

(fonte)

Un anno dopo

«Qui tutto è fermo, tutto bloccato, ancora inagibile: interi paesi sono inaccessibili agli abitanti, molte strade restano chiuse, le stalle sono per la maggior parte inutilizzabili, gli sfollati sono ancora sfollati e sparpagliati tra campeggi sulla costa, alberghi, agriturismi o appoggi da parenti. Le famiglie non sanno ancora in quale scuola iscrivere i propri figli data l’incertezza sul possibile domicilio che gli verrà, forse, destinato a settembre. I negozi sono ancora chiusi, solo alcuni sopravvivono, ristretti in pochi containers; molti sono stati costretti a riaprire sulla costa e difficilmente potranno tornare indietro.»

Marco Gentili ha scelto le parole di Enza Amici come didascalia alla sua gallerie di foto sulla situazione post-terremoto delle le frazioni (Fiordimonte, Casali, Gualdo) e le città (Visso, Castel Santangelo sul Nera) del cratere, nella provincia di Macerata e all’interno dei Monti Sibillini, a distanza di un anno dagli eventi sismici del 24 agosto 2016, che hanno colpito il Centro Italia. E vale la pena vederle, per giudicare. Qui.

 

La ricostruzione post terremoto? «Non esiste». Parola del commissario per il sisma, Vasco Errani (che poi media)

La ricostruzione non esiste. E’ questo in sintesi il pensiero del commissario per la ricostruzione, Vasco Errani. Commentando il drammatico stato della ricostruzione post terremoto davanti ai sindaci dei comuni colpiti dal sisma il 15 febbraio scorso ad Ancona, Errani avrebbe detto: “Non esiste il fatto che per cominciare a fare le casette, che non è ciò che devo fare io, si attenda di avere il fabbisogno definitivo di tutte le casette. Non esiste. Non esiste che per fare le stalle bisogna metterci tutto questo tempo. Non esiste. Non esiste”. L’audio è stato pubblicato sul sito del settimanale Panorama.

“Non riusciamo andare avanti su alcune cose”

“Bisogna darsi una governance totalmente differente, è un punto all’ordine del giorno di questa riunione e doveva forse essere il primo. Non c’è dubbio che avendo avuto quattro terremoti, la dimensione è stratosferica, ma questo non risolve il fatto che non riusciamo andare avanti su alcune cose: macerie, stalle, casette… Questa non è ricostruzione, non lo è, questa è gestione dell’emergenza. Bisogna darsi un’altra governance sennò non ce la faremo”, ha aggiunto il commissario voluto dall’ex premier Matteo Renzi e confermato da Paolo Gentiloni.

Panorama: Errani ha parlato di un quadro drammatico

Vasco Errani nel chiuso di una stanza con gli altri amministratori, avrebbe sottolineato, come riferisce il settimanale “il fallimento dello Stato, che lui stesso rappresenta, nella gestione delle fasi successive alle terribili scosse che hanno messo in ginocchio diversi paesi di Marche, Umbria, Abruzzo e Lazio”. “Errani ha detto più volte ‘non esiste’ – prosegue Panorama – di fronte all’evidenza della consegna delle casette, della quasi totale inagibilità delle stalle e dei ritardi sul ripristino della viabilità che vede ancora molti paesi isolati”. “Rivolgendosi ai sindaci – prosegue l’articolo – Errani ha testualmente parlato di un quadro drammatico a cui si aggiunge la beffa dei sopralluoghi”.

La smentita: “Mai parlato di fallimento Stato”

L’ufficio stampa del Commissario per la ricostruzione smentisce parte della ricostruzione del giornale. “Ad Ancona, ad una affollata assemblea di sindaci, amministratori locali e regionali, il commissario per la ricostruzione, Vasco Errani, non ha parlato né di drammi né tanto meno di ‘fallimenti dello Stato’, assolutamente inesistenti”. “Semplicemente, anche in forza del nuovo decreto che prevede procedure più rapide – prosegue l’ufficio stampa – il commissario Errani ha sottolineato l’esigenza concreta di moltiplicare gli sforzi per accelerare. Questo è ciò che si è deciso in quella sede ed è ciò che si sta facendo”.

Errani verso l’addio al Partito Democratico

Intanto l’ex presidente dell’Emilia-Romagna si prepara a lasciare il Pd per seguire Bersani. “Al di là di quanto scrivono i giornali, io parlerò di politica solo sabato, alla riunione del mio circolo di Ravenna. Fino ad allora non farò dichiarazioni di nessun tipo sui temi del Partito Democratico”, ha detto Vasco Errani, che non ha mai nascosto la sua vicinanza con Pier Luigi Bersani.

(fonte)

«Mi chiamo Giorgia, e sono viva»

(Giorgia, sopravvissuta all’Hotel Rigopiano, parla con Marco Imarisio (Corriere della Sera, qui) e vale la pena leggerla:)

«Mi chiamo Giorgia, e sono viva». Alle undici di venerdì mattina la vita in scatola finisce con questa frase. «Ci chiedevano chi c’era. Cercavano di capire chi c’era sotto, e noi rispondevamo con i nostri nomi». Adesso la ripete, ma sottovoce, con pudore. Nel letto accanto a lei dormono donne e bambini che non sanno ancora se potranno rivedere i genitori o i fidanzati che erano con loro. «Ho perso la cognizione del tempo, e non l’ho ancora ritrovata. Credo che sia durata due giorni, forse qualcosa di più». Sono quasi 58 ore. Giorgia Galassi, studentessa universitaria, le ha trascorse in un ambiente angusto e ovattato, insieme al fidanzato Vincenzo Forti, titolare di una pizzeria sul lungomare di Giulianova, entrambi convinti di essere in qualche modo sopravvissuti a quello che loro chiamano «il terremoto devastante». Avevano deciso di partire perché non ne potevamo più di quelle scosse. «Io soprattutto, mi ero convinta che sarebbe arrivata la botta definitiva. Avevo paura, insomma». Alle 17.40 di venerdì sono nella hall del Rigopiano, seduti su un divano di vimini davanti al camino, bevendo una tazza di thé, in attesa che qualcuno gli dica come e quando partire. «Poi ci è crollato tutto addosso e non ci ho capito più niente». Quando si riprendono sono per terra, con qualche livido. La sala dell’albergo è diventata una cupola che contiene quattro gabbie, che comunicano tra loro dall’alto, ma sono isolate dall’esterno. «Eravamo completamente tagliati fuori e non sentivamo alcun suono. Le nostre voci rimbombavano, e Vincenzo mi spiegava che era l’effetto della neve, una specie di cassa di risonanza. Avevo proprio questa sensazione di essere chiusa in una scatola, con la neve sopra che copriva ogni rumore. Non ho sentito niente per tutto quel tempo. Solo le voci che venivano da dentro». L’urto della valanga li ha spostati di almeno una decina di metri rispetto al posto dove si trovavano. Il grande camino è l’unico punto di riferimento di un panorama interno completamente stravolto. Il freddo non è così intenso.

All’improvviso lo spazio è diventato ristretto

All’improvviso lo spazio è diventato ristretto, da dividere per quattro. «Avevamo la sensazione che l’impatto ci avesse fatto sprofondare per terra». È la prima cosa che si dice con gli altri ospiti di quell’ambiente. «Ci siamo trovati vicino a una ragazza che cercava il fidanzato e un altro uomo di Roma, che era stato colpito sul braccio da una trave e aveva molto male. Ma soprattutto eravamo in comunicazione con una mamma che aveva con sé il bambino, e cercava a voce alta sua figlia». La ragazza si chiama Francesca, ed era anche lei nella sala del camino, adesso è finita in uno spazio angusto. Riesce a comunicare con gli altri, ma non a toccarli. «Era buio pesto» racconta dal letto della sala di rianimazione accanto a quello di Giorgia. «Abbiamo deciso di fare luce con i telefonini, azionandoli tutti insieme».

Nell’oscurità nessuno vede niente

Le prime ore trascorrono cercando di capire la collocazione delle voci. Se loro, i quattro adulti, sono nella sala del camino, vuol dire la mamma e il suo bambino, che poi sono Adriana Parete e il suo primogenito di otto anni, sono nella zona della cucina, mentre i bambini che gridano tutti insieme devono per forza essere vicini al biliardo. E tutti gli altri, che sono tanti, il resto degli ospiti che dovevano partire, sono rimasti nella sala garden, piena di piante, nell’ambiente che doveva essere il punto di ritrovo. Ma nell’oscurità nessuno vede niente. Francesca piange, chiede del suo fidanzato, che non vede più. Adriana si stringe al figlio. Giorgia la sente che gli fa coraggio, anzi si fanno coraggio a vicenda. «Ma tutti i bambini si sono comportati davvero bene, non li ho mai sentiti piangere, almeno credo». A lei viene da piangere, più di una volta. Succede soprattutto al mattino del giorno dopo. «Quando mi sveglio all’improvviso, non vedo e non sento nessuno». Urlano, e non poco, per darsi la sveglia, per contarsi a vicenda. «Vincenzo, il mio fidanzato, invece non ha mai avuto dubbi. Ci ha tenuto su, tutti, non solo me. È stato la forza di tutto il gruppo. Ogni tanto lo sentivo che sussurrava qualche canzone, lo faceva per farci stare tranquilli». L’adrenalina chiude lo stomaco, la fame è solo un’ipotesi remota, Giorgia non mangerà neppure dopo il ricovero. «Zero cibo. L’unica cosa che abbiamo mangiato è stato il ghiaccio che avevamo intorno. Abbiamo potuto bere molto, e quella è stata la nostra forza». Adriana e il suo bambino cominciano a stare male, anche se la donna non vuole mostrarlo ai suoi compagni di disavventura. Il piccolo ha paura dei rumori. L’intera struttura sembra scricchiolare.

Francesca è quella che soffre di più

Francesca è quella che soffre di più. Non riesce neppure a stare in piedi per via di una trave che la separa dagli altri. Un paio di telefonini si scaricano. Giorgia si addormenta nelle braccia del fidanzato, ma non sa dire quanto dura il suo sonno. «Quando mi sono svegliata ero più convinta, mi sembrava che il peggio fosse passato. Vincenzo non ha mollato un secondo, e mi ha sorretto, anche se abbiamo passato la maggior parte del tempo seduti sul divano oppure sdraiati ai suoi piedi». Alle 11 di venerdì un rumore meccanico che non dura molto, e poi le voci. E la sua risposta. Sono Giorgia, e siamo vivi. «Ci spiegano tutto. Chi esce per primo, come ci verranno a prendere. Non ci mollano un attimo, si alternano a parlarci. A un certo punto glielo diciamo anche: guardate che ci fidiamo di voi, siamo tranquilli, possiamo aspettare. Fanno un lavoro incredibile, sono gente pazzesca». Adriana e suo figlio escono per primi, dall’alto. Ormai il lieto fine è scritto, almeno per i due ragazzi di Giulianova, è solo questione di tempo. Li vengono a prendere da sotto, trascinandoli fuori per i piedi. Mancano pochi minuti alle 4 di notte. Giorgia e Vincenzo si ritrovano di nuovo insieme agli altri, in una stanza del reparto di rianimazione. Accanto a loro Francesca dorme e piange. Giampaolo Matrone, «il romano», è stato operato al braccio destro. Anche lui aspetta qualcuno, così come altri due bambini. La voce si Giorgia si fa sempre più bassa. La scatola si è finalmente aperta. Ma non tutti possono vedere la luce del giorno.