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terremoto

Analfabeti funzionali, analfabeti sentimentali e satirofobi

Succede sempre così: se il mondo che ci circonda non corrisponde alla nostra idea di mondo ci impuntiamo come patetici indignati telecomandati.

Se Charlie Hebdo sfancula l’Islam (che odiamo poiché lo temiamo) allora tutti che reclamano la libertà di satira. In realtà scrivono “libertà di satira” ma intendono un fantomatico diritto di piasciare smargiassi sui propri nemici. La satira, in quel caso, è intesa come diritto di sottendere schifo verso gli altri. Se la satira attacca noi (la religione e in questo caso il traballante Paese che si sbriciola ogni terremoto) allora ci invertiamo: “e no, e non si può, e ci vuole rispetto!”. Qualcuno in queste ore addirittura scrive “hanno fatto bene a sparargli, a questi di Charlie Hebdo”.

Che brivido il conformismo benpensante. Che pena il sindaco di Amatrice che non ci spiega della ricostruzione della sua scuola e si indigna per la vignetta. Che pena questa rivolta sui social che non s’è accorta di un condannato nella squadra nominata a ricostruire Amatrice (basta leggere qui), che ha dimenticato gli “inciampi” di Errani (eccoli qui), che abita spesso sotto cemento mafioso depotenziato, che è convinta che L’Aquila sia stata ricostruita e si coagula invece intorno a una vignetta. Un’orda di rabbia vendicativa che ha lo stesso conato degli integralisti. Islamici, italiani, ipercattolici: le mandrie indignate che non riuscendo a cambiare il mondo pretendono di non essere disturbate dal mondo.

Tutti alla ricerca di un luogo in cui non dovere fare fatica, in cui essere sempre d’accordo. Il pensiero unico come sogno della nuova borghesia morale. E poi ci si lamenta di avere una classe dirigente riducibile a piazzisti, pubblicitari e comunicatori turbospinti.

E nessuno si accorge che la vignetta ha funzionato. Un’altra volta ancora.

Due puntualizzazioni su “San Errani” e la ricostruzione in Emilia

Ne scrive Giovanni Tizian per l’Espresso:

«A  luglio del 2012 il commissario per l’emergenza Vasco Errani, aveva stanziato l’ingente somma di 56 milioni di euro, al fine di ricostruire entro la fine di settembre, edifici scolastici temporanei, a seguito della rovina di quelli esistenti. Ecco comparire di nuovo la società di San Felice (finita sotto sequestro e adesso gestita da un’amministratore giudiziario per conto del tribunale), guidata all’epoca da Augusto Bianchini – ora imputato per concorso esterno. In questo caso è sospettata di aver smaltito amianto in alcuni cantieri della ricostruzione. Nelle strade, ma anche in una scuola di Reggiolo. È emerso, inoltre, dall’indagine Aemilia che nei cantieri di Bianchini lavoravano maestranze assunte grazie all’intermediazione dei boss delle ‘ndrine emiliane. Trattati come schiavi. Con il salario decurtato per pagare il “pizzo” ai padroni delinquenti. Sfruttatamento in piena regola, che ha spinto i sindacati a costituirsi parte civile nel maxi processo in corso a Reggio Emilia.

In Emilia, dunque, la ricostruzione è stata inquinata. Non sveliamo nulla riportando un’intercettazione tra due affiliati che nei giorni successivi al sisma ridono alla grande, e sui morti, per le opportunità di lavoro che si prospettavano. Come fu per L’Aquila, anche qui gli affaristi hanno visto nelle macerie nuove opportunità.»

(l’articolo è qui)

L’altrove per gli abitanti di un paese terremotato è il sinonimo della resa e dell’abbandono

Non è una bazzecola quella di pretendere che i funerali delle vittime delle vittime di Amatrice si svolgano a Amatrice e non a Rieti come sconsideratamente deciso dalla Prefettura che poi, sotto la pressione dei sopravvissuti appoggiati da Renzi, ha dovuto fare marcia indietro. E non è nemmeno una questione di pelosa organizzazione di sicurezza, atterraggi di governo e nemmeno di condizione atmosferiche: il funerale a Amatrice è la prima pietra della ricostruzione.

L’antidoto al terremoto (e più vastamente alla disperazione) è la speranza, ma non la speranza che uccise Monicelli («la speranza è una trappola inventata da chi comanda» ebbe a dire il maestro) quanto piuttosto la speranza che mai come dopo un terremoto assume la forma tattile della ricostruzione. Dopo la paura, il dolore e la conta delle vittime un paese terremotato ha diritto di sentire, presto e bene, un vigoroso progetto di ricostruzione. La speranza post terremoto è un credibile progetto di rivivere (dopo essere sopravvissuti) nella propria comunità fedele alla memoria e progredita nella sicurezza.

L’altrove per gli abitanti di un paese terremotato è il sinonimo della resa e dell’abbandono: c’è un’enorme dignità nel rivendicare il diritto di contare e raccogliere le macerie e vigilarle per ciò che erano. Per questo la decisione di celebrare i funerali a Rieti (e soprattutto di spostare le bare) è violenta oltre che stupida: qui non stiamo parlando di un assembramento abitativo abusivo accrocchiato in cima a qualche montagna ma di comuni che la storia ha insediato qui. La differenza, attenzione, è sostanziale.

La decisione di Renzi di riportare il momento del pianto “a casa” è quindi una decisione pienamente politica poiché se la cura e l’attenzione si pesano dai gesti oltre che nei numeri gli amatriciani hanno avuto il sentore di essere confortati nelle proprie esigenze. I cittadini di Amatrice (e dei paesi vicini colpiti dal sisma) hanno la preoccupazione di dover diventare “altro” per ipotizzare un futuro; di doversi sbriciolare anche loro per radicarsi altrove. L’altrove è la soluzione peggiore che si possa prospettare a chi è accampato tra i frammento del suo passato.

(il mio editoriale continua qui su Fanpage)

Rimuovere De Berardinis, almeno quello

Faccio mie le parole del Comitato Possibile “Leone Ginzburg” L’Aquila:

«Sapere della inquietante presenza di Bernardo De Bernardinis nel Comitato nazionale operativo della Protezione civile è un’indecente vergogna che il governo deve cancellare immediatamente. Ex vice capo del Dipartimento e numero due di Guido Bertolaso, De Bernardinis è stato condannato a due anni per omicidio colposo e lesioni a causa del disastro de L’Aquila, condanna resa definitiva nello scorso novembre dalla Corte di Cassazione.

Lo stesso è, peraltro, tuttora presidente del consiglio di amministrazione di Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. E anche in questo caso si dovrebbe seguire la medesima decisione immediata.

Si tratta di scelte da fare immediatamente per decenza e per rispetto ai tanti morti, ai feriti, e a tutta la popolazione colpita dal terremoto dello scorso 24 agosto e a quella colpita dal terremoto del 2009 a L’Aquila e relativo cratere sismico. Quella presenza in quel particolare organismo è l’ennesima ferita

(clic)

E poi, puntuale, arriva la cretinata di Maroni

Ne scrive Alessandro Gilioli:

«Perché non mettere a disposizione il Campo Base di Expo per ospitare gli sfollati del terremoto? Mi pare una destinazione idonea, invece che farci un campo ‘profughi’».

Lo ha scritto ieri Roberto Maroni su Facebook, comprese le virgolette attorno alla parola profughi: come dire che veri profughi non sono.

Maroni era ministro degli Interni nel governo che gestì la vergogna dell’Aquila: decenza vorrebbe che di terremoti e simili non parlasse mai più.

Invece, contrapponendo terremotati e migranti mette i piedi nel piatto in quello che è il tratto politico e subculturale più forte di questi anni.

Non vale nemmeno la pena di spiegare a Maroni che portare gli sfollati dalla Sabina alla periferia di Milano sarebbe una solenne stronzata proprio per gli sfollati: che non devono essere sradicati dalle loro terre, che devono restare il più vicino possibili ai loro paesi e ricostruirli dov’erano, com’erano.

Non vale la pena perché a Maroni degli sfollati non importa una mazza: a lui interessa soltanto che le casette di Expo non vadano ai migranti. Anzi, per essere più precisi: a lui interessa soltanto che sia attizzata e rinfocolata la contrapposizione tra due componenti deboli della società.

Tra chi è rimasto senza casa per via del terremoto e chi casa propria ha dovuto abbandonarla per guerra o per fame.

Ecco, appunto: è questo il tratto forte dell’oggi, quello a cui ci hanno portato gli ultimi decenni – e ben oltre il terremoto: odiatevi tra voi, che state in basso.

(continua qui)

Oggi siamo rigattieri di storie

Come quella (bellissima) di nonna Vitaliana:

Nei terremoti alla fine si frugano anche le storie, inevitabilmente. Dalle macerie evapora la fotografia di un Paese con tutte le sue generazioni, i dolori e gli eroismi. Gli eroismi minimi tra Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto sono da tessere con sensibilità e cura; noi che scriviamo per mestiere siamo qui, nei giorni dello sbriciolamento, con il modesto compito di diseppellire nomi, visi, ricordi e speranze. Siamo, in fondo, i rigattieri dei sentimenti. Una cosa così.

Nonna Vitaliana ospitava i nipoti, Samuele e Leone. A Pescara del Tronto che oggi sembra anche lei una città bombardata dal basso. I bambini vivono a Fregene ma la visita alla nonna è un appuntamento fisso. Non è un periodo florido per i nonni qui da noi, ora che la modernità è diventata un metro di giudizio per considerare il valore personale. Non deve nemmeno essere facile per loro, gli anziani, essere memoria vivente di un Paese che teme la memoria sperando così di svicolare dalle sue responsabilità. Non è nemmeno un’epoca di leale gratificazione, se ci pensate: mentre i più anziani svolgono la funzione dello stato sociale (si occupano della famiglia, dei nipoti, riaccolgono i figli disoccupati, sono la rete di salvataggio di mariti impoveriti e separati, garantiscono un approdo qualsiasi cosa succeda) nel dibattito pubblico gli anziani sono le loro malattie e le loro pensioni. Costi. Gli anziani costano. Il messaggio è spesso questo.

Dicono che un terremoto rimanga nelle ossa per sempre. Gli aquilani ieri hanno sobbalzato vedendo le immagini di queste ore. Anche per questo la loro solidarietà è esplosa senza bisogno di organizzazione: tra le macerie molti volontari sono i sopravvissuti dei terremoti scorsi come se volessero scontare e restituire la propria salvezza.
Lei, nonna Vitaliana, quando di notte ha sentito il fracasso del pavimento che si sposta, ha sfogliato le pagine di una vita intera fino al capitolo della protezione. La protezione è una materia che non si impara solo sui libri, la protezione è un tendine che si tempera con l’esperienza e il dolore. Quella voce che ha bisbigliato all’orecchio di Vitaliana di prendere i nipotini e rifugiarli sotto al letto (e lei sopra di loro a fare da scudo) è la voce dei nonni. Quella cosa lì.

Samuele e Leone li hanno estratti vivi. Vivi come si può essere vivi dopo una casa che ti è entrata in gola, certo, ma vivi. Solo dopo sono riusciti a disincastrare nonna Vitaliana.

(continua su Fanpage qui)

Però le lacrime non vi assolvono

Lo spazio bianco. Di dolore, di condivisione. Di sospensione. Non c’è mica commento al dolore.

 

 

 

Però diceva Enzo Biagi nel suo libro ‘Senza dire arrivederci’ (era il 1985) che «i terremoti e le alluvioni sono sempre favorevoli circostanze per dimostrare, nella generale sventura, il coraggio e la bontà dei potenti». Biagi non era un polemista, tutt’altro, ma si inserisce nella scarna schiera dei giornalisti con la schiena diritta; quelli che considerano umanissimo e etico anche provare a riordinare i fatti, i sentimenti e le parole. Anche in mezzo al dolore e alle macerie.

Scrivere di un terremoto il giorno dopo un terremoto equivale al camminare su una corda appesa tra gli sciacalli appollaiati da un lato e i furbi dall’altro. Entrambi godono di una naturale timidezza diffusa nell’esprimere impressioni, osare considerazioni e provare a tirare le fila.

I fili del terremoto nel nostro Paese sono lunghissimi, scavalcano i secoli e si annodano sulle tragedie. Il 23 novembre del 1980 fu l’Irpinia ad essere morsicata dal terremoto. Nel suo discorso Sandro Pertini, al tempo Presidente della Repubblica disse: «Non deve ripetersi quello che è avvenuto nel Belice. Io ricordo che sono andato in visita in Sicilia. Ed a Palermo venne il parroco di Santa Ninfa con i suoi concittadini a lamentare questo: che a distanza di 13 anni nel Belice non sono state ancora costruite le case promesse. I terremotati vivono ancora in baracche: eppure allora fu stanziato il denaro necessario. Le somme necessarie furono stanziate. Mi chiedo: dove è andato a finire questo denaro? Chi è che ha speculato su questa disgrazia del Belice? E se vi è qualcuno che ha speculato, io chiedo: costui è in carcere, come dovrebbe essere in carcere? Perché l’infamia maggiore, per me, è quella di speculare sulle disgrazie altrui».

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Ricostruire

Io devo confessare, dopo questa giornata passata a scrivere e leggere dei morti sepolti e dei vivi sfilati alle macerie, che se c’è una forza che mi commuove è quella di chi si dice pronto a ricostruire mentre ancora non ha finito di contare i danni. Questi che decidono di rispondere ai giornalisti con una dignità che gli gocciola per tutto il corpo nonostante non abbia più nemmeno un pezzo di cassetto di un comodino, questi per cui il destino è l’obbligo di trovare la forza di continuare, che sembrano avere già considerata passata la disperazione.

Li ammiro mentre rimangono solidi mentre tutto intorno si sbriciola. Ecco io davvero volo via davanti a questi naviganti con lo sguardo lunghissimo nonostante si muova anche la terraferma. È una magia, la dignità.

Anche a Modena era un terremoto tutto da ridere

Che il sisma del maggio 2012 sarebbe stato un affare ghiottissimo per le mafie radicate al nord non è una novità. Che come all’Aquila anche in Emilia sul sisma si sarebbe riso al telefono, questo ancora non si poteva immaginare. La conversazione è intercettata martedì 29, il giorno delle due scosse che nella bassa modenese faranno ancora più morti rispetto a nove giorni prima. Al telefono ci sono Gaetano Blasco e Antonio Valerio, entrambi residenti a Reggio Emilia e ora in carcere con la accusa di associazione di stampo mafioso, dopo la maxi operazione della Dda di Bologna, che ha portato agli arresti 117 persone: “È caduto un capannone a Mirandola”, spiega Blasco. Antonio Valerio, ridendo, risponde: “Eh, allora lavoriamo là”. Blasco risponde: “Ah sì, cominciamo, facciamo il giro”.

Il dialogo captato dai carabinieri di Modena è solo un dettaglio della strategia di infiltrazione che da quel momento in poi la associazione mafiosa, proiezione delle ‘ndrine calabresi della cittadina di Cutro, perseguiva. Almeno fino a oggi quando è stata smantellata dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna. Una strategia di infiltrazione nei lavori di ricostruzione in cui secondo l’inchiesta dei magistrati di Bologna, è coinvolta anche la casa madre calabrese che fa capo a Nicolino Grande Aracri da tempo in carcere. Ma in cui vengono coinvolte anche le imprese edili più importanti del territorio emiliano. Come la Bianchini Costruzioni. Il numero uno della ditta di famiglia, Augusto, è finito in carcere con la accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo quanto scritto dal giudice gip Alberto Ziroldi nella sua ordinanza, la figura di Bianchini era per la associazione criminale da tenere in considerazione, visti i suoi rapporti privilegiati con il potente mondo cooperativo emiliano e con alcuni funzionari delle amministrazioni locali.

Bianchini, anche durante i primissimi mesi in cui si organizza la ricostruzione ha contatti continui con Michele Bolognino, nato a Locri 38 anni fa, e considerato dal pubblico ministero Marco Mescolini e dal procuratore capo Roberto Alfonso, uno dei promotori della’ndrangheta di derivazione cutrese nella zona di Parma e della Bassa Reggiana. Secondo l’accusa, Bianchini consentiva ai membri dell’associazione mafiosa di gestire i lavori ottenuti in appalto dalla sua ditta e che riguardavano soprattutto lo smaltimento delle macerie e in alcuni casi, lavori di ricostruzione. Bolognino, è questa la ricostruzione degli inquirenti, reperiva in Emilia gli operai (principalmente da imprenditori calabresi trapiantati al nord) affinché Bianchini potesse stare dietro ai molti cantieri che riusciva a ottenere. Secondo l’accusa inoltre il meccanismo di retribuzione degli operai inviati da Bolognino a Bianchini, basato su un sistema di false fatturazioni, costituiva un ulteriore vantaggio per Bianchini. Bolognino a sua volta, è la tesi dei pm, tratteneva per sé una parte delle spettanze e infine, collaborando con Bianchini, favoriva l’infiltrazione della sua consorteria mafiosa nel circuito dei lavori pubblici.

Quando a un anno dal sisma, giugno 2013, la prefettura di Modena escluderà la Bianchini Costruzioni dalla White list delle aziende che potevano ottenere appalti pubblici per la ricostruzione nell’Emilia terremotata, la famiglia Bianchini prova a correre ai ripari. Ma secondo l’accusa in maniera illecita. Già a luglio il figlio di Augusto, Alessandro, ora agli arresti domiciliari, apre una nuova ditta. E ottiene da un funzionario responsabile dei lavori pubblici del comune di Finale Emilia, Giulio Gerrini (già sospettato di avere avvantaggiato illegittimamente la Bianchini Costruzioni), un appalto per la rimozione delle macerie del castello della cittadina. Uno dei simboli della distruzione del sisma. Quel funzionario, Giulio Gerrini, è ora ai domiciliari, come Alessandro Bianchini, con l’accusa di concorso in abuso d’ufficio.

Nel post terremoto non ci sono solo edifici pericolanti da abbattere. C’è anche il grande affare delle scuole temporanee. Il sisma arriva all’inizio dell’estate, e una delle promesse del commissario per la ricostruzione Vasco Errani è proprio la regolare riapertura delle scuole a settembre. Bianchini Costruzioni ha lavori in tutto il cosiddetto cratere del terremoto: Mirandola, Finale Emilia, Reggiolo, Concordia. E secondo la ricostruzione dei magistrati di Bologna, attraverso gli operai mandati da Michele Bolognino la ’ndrangheta ha lavorato anche in quelle scuole.

(clic)

L’Aquila abbandonata anche dalla mafia

Sulla mancata ricostruzione dell’Aquila dopo il terremoto in Abruzzo c’è un giudizio breve che vale più di mille parole del magistrato Olga Capasso nella relazione annuale della Direzione Nazionale Antimafia:

Come già evidenziato nella relazione dell’anno scorso, il problema delle infiltrazioni mafiose negli appalti per la ricostruzione in Abruzzo si è congelato. Le imprese colluse con la criminalità meridionale, ormai radicatasi anche in alcune regioni del nord, se ne sono andate dall’Abruzzo dopo aver imperversato per il primo anno dopo il terremoto del 2009 aggiudicandosi appalti vantaggiosi.

Infatti l’Aquila non è stata più ricostruita, i cantieri hanno chiuso senza che se ne aprissero altri, e ad eccezione della ristrutturazione dei condomini privati la città sembra dormire tra le sue macerie. Mancano i fondi e quindi l’affare non è più vantaggioso, e dove non c’è profitto la mafia lascia il campo libero.