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“Abbiamo calcolato che sin qui gli immigrati ci hanno regalato circa un punto di Pil di contributi sociali a fronte dei quali non sono state loro erogate delle pensioni“: parla Tito Boeri

“Abbiamo calcolato che sin qui gli immigrati ci hanno regalato circa un punto di Pil di contributi sociali a fronte dei quali non sono state loro erogate delle pensioni“. Tito Boeri torna ad avventurarsi in un terreno minato: per la terza volta in due mesi tenta di spiegare all’opinione pubblica l’importanza del ruolo che gli immigrati regolari rivestono nella tenuta complessiva del sistema pensionistico. Un tentativo in cui non viene minimamente sostenuto dal principale partito della sinistra, il Pd, e in cui si trova sotto il fuoco incrociato delle opposizioni guidate dalla Lega Nord. Per Salvini il presidente dell’Inps “vive su Marte”, mentre Deborah Bergamini (Forza Italia) usa l’ironia, sottolineando che “l’Inps non è l’Istituto nazionale previdenza stranieri”. Detto del silenzio del Partito Democratico (tranne il timido tentativo dei deputati Patriarca e Gelli e della senatrice Puglisi), l’unica a sostenere la posizione di Boeri è la presidente della Camera Laura Boldrini. Una coppia, quella formata da Boldrini e Boeri, a cui quel pezzo di sinistra che coincide con il Pd sembra aver demandato le questioni più spinose per il centrosinistra. In tal senso, val la pena sottolinearlo, quello dei migranti è un tema così scottante da consigliare il silenzio ai vertici dem, con Boeri usato come parafulmine per gli strali del centrodestra.

LE PAROLE DEL PRESIDENTE DELL’INPS – “Gli immigrati regolari versano ogni anno 8 miliardi in contributi sociali e ne ricevono 3 in termini di pensioni e altre prestazioni sociali, con un saldo netto di circa 5 miliardi per le casse dell’Inps”, ha spiegato il presidente dell’Istituto nazionale di previdenza sociale, in un’audizione alla commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema di accoglienza dei migranti. “I lavoratori che sono stati regolarizzati con le sanatorie non hanno sottratto opportunità ai loro colleghi – ha proseguito Boeri – le analisi evidenziano che la probabilità di separarsi da un’impresa per i colleghi degli emersi è pari al 42%, e se il numero di emersi cresce tale probabilità aumenta solo del’1%. L’effetto di spiazzamento è dunque molto piccolo e riguarda unicamente i lavoratori con qualifiche basse. Non ci sono invece effetti per i lavoratori più qualificati, né in termini di opportunità di impiego né di salario”. “Mentre i migranti che entrano nel mercato del lavoro italiano sono per la maggior parte dei casi a bassa qualifica, la quota degli italiani non laureati che scelgono di emigrare per motivi economici è dimezzata tra il 2007 e il 2015. Sembra difficile perciò ipotizzare che la fuga dei giovani dal nostro Paese possa essere dovuta alla competizione sul mercato del lavoro con gli immigrati”, ha aggiunto il presidente dell’Inps.

Secondo quanto emerge dai dati delle ispezioni di vigilanza Inps nel periodo 2013-2015 nelle aziende, un lavoratore in nero su tre è clandestino. Boeri spiega che la regolarizzazione dei lavoratori immigrati porta a “un’emersione persistente nel tempo di lavoro altrimenti svolto in nero”: dopo le sanatoria del 2002 del 2012, l’80% degli immigrati risulta contribuente alle casse dell’Inps anche cinque anni dopo la regolarizzazione. “Il confronto pubblico – afferma Boeri – dovrebbe incentrarsi su come inserire gli immigrati stabilmente nel nostro mercato del lavoro regolare. L’integrazione nel mercato del lavoro contribuirebbe anche a migliorare la percezione che gli italiani hanno degli immigrati”.

“La forte crescita di rifugiati non compensa il mancato arrivo di immigrati regolari”, ha spiegato ancora Boeri denunciando “il sostanziale azzeramento delle quote del decreto flussi” per i lavoratori stranieri. Infatti “i centri di accoglienza dei rifugiati sono concentrati in aree rurali, dove ci sono meno opportunità di impiego”. Ad esempio, i Cas del Piemonte ospitano mediamente tre rifugiati per 1000 abitanti, ma questo rapporto è pari alla metà a Torino ed è quasi sempre inferiore nei comuni capoluogo che nelle relative province. Inoltre “gli incentivi al lavoro regolare da parte dei rifugiati – dice Boeri – sono limitati dal fatto che il permesso per attesa richiesta asilo politico non può comunque essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro”.

BOERI E IL RUOLO DEI MIGRANTI: I PRECEDENTI – Boeri aveva affrontato la questione già il 16 giugno: “Se oggi chiudessimo le frontiere agli immigrati non saremmo in grado di pagare le pensioni e i nostri sistemi di protezione sociale: versano 8 miliardi e ne prelevano 3, con un surplus di circa 5 miliardi”, aveva già spiegato il presidente dell’Inps partecipando alla Repubblica delle Idee. “Molti migranti tornano nei paesi di origine prima di arrivare all’età pensionistica e spesso, malgrado ci siano le leggi, non la richiedono. Usiamo moltissimo questi contributi che – conclude – finiscono per essere a fondo perduto“. Il 4 luglio l’economista ribadiva le proprie ragioni illustrando alla Camera la relazione annuale dell’Inps: “Non abbiamo bisogno di chiudere le frontiere. Al contrario, è proprio chiudendo le frontiere che rischiamo di distruggere il nostro sistema di protezione sociale”, spiegava commentando una simulazione che guarda all’ipotesi di azzeramento dei flussi guardando all’evoluzione da qui al 2040 “in entrata di contribuenti extracomunitari“. Questo, ha spiegato Boeri, porterebbe “73 miliardi in meno di entrate contributive e 35 miliardi in meno di prestazioni sociali destinate a immigrati, con un saldo netto negativo di 38 miliardi” per le casse dell’Istituto. Valori che comporterebbero“una manovrina in più da fare ogni anno per tenere i conti sotto controllo”.

LE REAZIONI: CENTRODESTRA ALL’ATTACCO, PD IN SILENZIO –Immediato è scattato il fuoco di fila di chi fa dei migranti il nemico da combattere. Durissima la critica del leader della Lega Nord Matteo Salvini: “‘Gli immigrati ci pagano le pensioni… Gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare… Servono più immigrati’. Tito Boeri, presidente dell’Inps, vive su Marte” ha scritto su Twitter il segretario del Carroccio, che sintetizza in 140 caratteri le posizioni già espresse dai suoi colleghi di partito. Tra questi, da segnalare Roberto Calderoli: “Sbaglia il presidente INPS, Tito Boeri, ad ostinarsi a ripetere che gli immigrati non hanno sottratto il lavoro agli italiani – ha detto Calderoli – Una bugia contraddetta dai numeri forniti dallo stesso Boeri incrociati con quelli forniti dall’Istat: se da una parte la percentuale di giovani immigrati che pagano regolari contributi previdenziali è salita al 35%, dall’altra la percentuale di nostri giovani che non hanno un lavoro è intorno al 40%, questo significa semplicemente che i giovani immigrati hanno tolto il lavoro ai giovani italiani che sono costretti ad andarsene all’estero in cerca di opportunità professionali”. Non meno tenere le parole utilizzate sempre su Twitter da Deborah Bergamini di Forza Italia: “Inps = Istituto nazionale di previdenza stranieri? No, perché a legger Boeri viene il dubbio…” ha scritto la responsabile comunicazione di Forza Italia. Già lo scorso 4 luglio, del resto, Bergamini aveva fatto notare al presidente Boeri che “i costi dell’immigrazione irregolare, di qui al 2040, andrebbero a creare un buco nei conti dello stato di 85,6 miliardi”.

LE REAZIONI: LAURA BOLDRINI STA CON BOERI – L’unico nome di peso della politica italiana a sostenere il presidente dell’Inps è stata Laura Boldrini. “Il 65% degli italiani (contro il 21% dei tedeschi) considera i rifugiati un peso perché godono di alcuni benefit, secondo loro, mentre si ignora il contributo positivo che invece danno in termini di saldi fiscali e contributivi, come ci ricorda sempre il Presidente dell’Inps Tito Boeri” ha detto la presidente della Camera, presentando i dati della relazione finale della Commissione Cox sui fenomeni di odio, intolleranza, xenofobia e razzismo. Per la Boldrini sui temi dell’immigrazione c’è una “clamorosa divaricazione tra i numeri e la realtà percepita. E sono soprattutto le persone che non conoscono, che non hanno accesso ai dati, le persone che probabilmente si limitano ad ascoltare certi esponenti politici o a leggere alcuni giornali, che sono più frequentemente portatrici di atteggiamenti di odio. Purtroppo chi non sa è portatore di odio“.

(fonte)

Boeri sulla manovra: “Poco per i giovani e il lavoro, il grosso delle risorse va alle pensioni. Ma così non si cresce”

Una manovra che “fa poco” per i giovani e per il lavoro e destina alle pensioni “il grosso delle risorse“. E non attua le misure più utili a sostegno dei redditi più bassi. E’ il giudizio del presidente dell’Inps Tito Boeri sulla legge di Bilancio che il governo sta limando in queste ore. L’economista che guida l’istituto previdenziale, in una videoregistrazione trasmessa durante il convegno dei giovani di Confindustria in corso a Capri, ha commentato le misure annunciate dal premier Matteo Renzidurante la conferenza stampa di sabato scorso dicendo che “un paese che non investe sul lavoro è un Paese che non ha futuro“.

Giudizio negativo anche sulla decisione di riconoscere la quattordicesima a tutte le pensioni al di sotto di 1000 euro, perché in questo modo quell’aiuto “va anche alle persone che appartengono a nuclei familiari con redditi elevati: abbiamo calcolato che sette quattordicesime su dieci vanno a persone che non sono povere“. Uno “spreco di risorse”, dunque, se l’obiettivo era quello di aiutare chi è più in difficoltà. Il ministro del lavoro Giuliano Poletti, anche lui presente al convegno, ha replicato sostenendo che “Boeri sbaglia perché questa manovra guarda al futuro, guarda a due grandi pilastri: crescita e sviluppo economico, industria e innovazione“.

 Di tutt’altro avviso Boeri, secondo il quale la manovra – il cui invio alle Camere, atteso per giovedì, è slittato alla prossima settimana – “purtroppo è nel solco delle leggi di stabilità degli ultimi 10/15 anni in Italia, con poche eccezioni, forse quelle del 2015 si è distinta per attenzione ai giovani”. Il fattore comune è che anche stavolta “il grosso delle risorse lo investe sulle pensioni e sull’età immediatamente precedente alla pensione”. Ma non è così che un Paese può sperare di tornare a crescere a ritmi non da “zero virgola”. “Per il Paese è fondamentale tornare a crescere: negli ultimi 20 anni la povertà è aumentata soprattutto tra i giovani. Isalari d’ingresso quando si entra sono molto bassi e negli ultimi 25 anni sono diminuiti di un altro 25%, la disoccupazione è sotto gli occhi di tutti e poi ci sono molti giovani che vanno all’estero“, ha ricordato il numero uno dell’Inps. “Il problema nostro è questo: un Paese che smette di investire sui giovani è un Paese che non ha grandi prospettive di crescita”. Boeri ritiene invece “che sia fondamentale per questo Paese e per il nostro sistema di protezione sociale tornare a crescere”.

Per quanto riguarda l’ampliamento della quattordicesima alle pensioni sotto i 1000 euro lordi, Boeri ha osservato che la misura non è un utile supporto alle persone in difficoltà. “Se c’è la scelta politica di aiutare bassi redditi” e le persone che “sono già in pensione”, allora, afferma il presidente dell’Inps, “dare la quattordicesima non è lo strumento più adatto” perché “si guarda solo alla pensione individuale e va anche alle persone che appartengono a nuclei familiari con redditi elevati”. Così “sprechiamo tante risorse, abbiamo calcolato che sette quattordicesime su dieci vanno a persone che non sono povere. Non è uno strumento che va a chi ha maggiormente bisogno di questo tipo di aiuto”. Sarebbe stato meglio aiutare solo “le persone che sono nel regime contributivo, un regime molto meno generoso”. “Dati alla mano – ha analizzato Boeri – solo 3 su 10 percettori di 14/a appartengono al 20% più povero della popolazione e quasi il 30% appartiene al 30% più ricco della popolazione”. Per il presidente dell’Inps  “questo dimostra che le risorse sono allocate male, c’erano altri modi per arrivare ai più poveri ed era considerare il reddito complessivo della famiglia, utilizzando i dati Isee che abbiamo già”.

Quelle di Boeri non sono state le uniche critiche mosse alla legge di bilancio durante l’assemblea di Capri. Prima del presidente dell’Inps, già Susanna Camusso aveva affermato che nella manovra “non c’è un’idea di investimenti pubblici”, lamentando peraltro il fatto che, ad oggi, ancora “non c’è il testo” ma si sta discutendo solo sulle “slide”. Alla segretaria della Cgil aveva risposto lo stesso ministro Poletti che, seduto in platea, aveva replicato con una battuta: “Senza testo la manovra non si può approvare, ma neanche criticare”.

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«I voucher non funzionano»: lo dice anche Boeri

precarietà

Quello che si dice da tempo da queste parti ora lo ripete a chiare lettere anche Tito Boeri e forse sarebbe il caso di riflettere, senza fare gli offesi:

“I voucher sono nati per regolarizzare il lavoro accessorio, creare opportunità di lavoro e integrazione per le fasce più marginali del mercato del lavoro, ma hanno avuto uno sviluppo diverso: in alcuni casi abbiamo una precarizzazione evidente, con lavoratori a tempo indeterminato o determinato che adesso hanno i voucher, e in questo senso sono anche controproducenti”.

Lo afferma Tito Boeri, presidente dell’Inps, in un’intervista al Tg Zero di Radio Capital. “L’altro grande obiettivo – prosegue Boeri – era quello dell’emersione del nero, e per il momento non sembra esserci grande evidenza: quello che viene fuori è che non sono tanti i lavoratori nelle fasce centrali d’età, si vedono poche persone che prima non lavoravano che di colpo prendono voucher. Il livello dei contributi che raccogliamo è basso, circa 150 milioni, lo 0.2% dei contributi totali dei lavoratori dipendenti, mentre i lavoratori che percepiscono voucher sono l’8%: è molto meno di quello che si potrebbe pensare alla luce del numero delle persone coinvolte”

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Il coraggio di tornare sui propri errori

Ne avevo scritto su L’Espresso qui e anche Boeri sembra essere d’accordo. Ci sono anche le buone notizie:

 E’ quasi una certezza, invece, l’anticipo di tutti i pagamenti all’1 del mese e “non più in date differenti in relazione alla prestazione e al fondo di gestione”. “Abbiamo chiesto alle banche di condividere la nostra proposta. Le Poste hanno già accettato e entro mercoledì aspettiamo la risposta degli istituti di credito”, spiega infatti l’economista. Il punto, infatti, è che “deve essere un’operazione a costo zero: lo Stato incasserà meno interessi sui ratei che ora paga il 10 o il 16 del mese. In cambio alle banche, che incasseranno prima, abbiamo chiesto di abbassare i costi dei bonifici”. Per gli istituti sarebbe assai difficile – e impopolare – tirarsi indietro di fronte a quella che viene definita “un’operazione socialmente importante“.
Il giorno del ritiro dell’assegno, infatti, è tutt’altro che neutrale, come ha dimostrato la levata di scudi dei sindacati scattata lo scorso ottobre quando nelle bozze della legge di Stabilità è spuntato il rinvio del pagamento al 10 del mese. Decisione che per i pensionati avrebbe comportato trovarsi a corto di liquidità per le scadenze della prima parte del mese, dal pagamento del mutuo o dell’affitto a quello delle bolletteDopo le proteste, il Tesoro ha fatto marcia indietro spiegando che lo slittamento sarebbe scattato “solo per le 800mila persone con doppio assegno Inps-Indpap. Ora Boeri fa un passo in più, aprendo a un’unificazione che dovrebbe assicurare anche “migliore funzionalità del servizio, riduzione dei costi e maggiore trasparenza”.

Enrico Letta e il decreto lavoro: io sono leggenda.

Tito Boeri per Lavoce.info sul decreto del Governo Letta e le bugie:

l pacchetto di misure per il lavoro varato martedì dal governo prevede una riduzione del 33 per cento del costo del lavoro per le assunzioni di persone con meno di 30 anni fino all’esaurimento delle risorse disponibili. Gli sgravi possono avere una durata massima di 18 mesi (nel caso di nuove assunzioni) oppure 12 mesi (nel caso di trasformazioni di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato). L’esperienza passata è eloquente circa l’inefficacia di incentivi temporanei alle assunzioni. Analisi ospitate a più riprese su questo sito dimostrano che i posti aggiuntivi sono pochissimi e che gli sgravi vanno per lo più a imprese che avrebbero comunque fatto le assunzioni. Il rischio è ancora più alto se i fondi finiscono e bisogna introdurre lotterie (i cosiddetti rubinetti) per razionare i potenziali beneficiari. (1) Difficile, infatti, che un datore di lavoro decida di creare posti di lavoro a tempo indeterminato davvero aggiuntivi in virtù di un contributo pubblico che poi, alla prova dei fatti, potrebbe non essere erogato.
Ma anche ipotizzando che tutti i fondi disponibili andassero alla creazione di posti aggiuntivi, si è ben lontani dalla cifra di 200 mila nuovi posti di lavoro cui ha fatto riferimento il presidente del Consiglio Letta (che per la verità si riferiva all’impatto complessivo del provvedimento, compresa la “manutenzione” della legge 92) o anche dai 100 mila attribuiti dal ministro Giovannini a questo specifico provvedimento. Gli stanziamenti sin qui previsti sono, infatti, di circa 100 milioni nel 2013, 150 nel 2014 e 2015 e 100 nel 2016 per le regioni del Mezzogiorno. A questi fondi dovrebbero aggiungersi altri 300 milioni per le regioni del Nord (il condizionale è d’obbligo perché in attesa di avere il testo licenziato dal Consiglio dei ministri non è chiaro quali siano le coperture), da spalmare su quattro anni, quindi -poniamo- 75 milioni all’anno all’anno per i prossimi quattro anni. Ogni anno sarebbero cosi disponibili al massimo 225 milioni di euro. I salari medi lordi di giovani con meno di 30 anni sono di 19.768 euro. In termini di costo del lavoro per il datore del lavoro, questo significa 24 mila euro. Il 33 per cento di tale importo è pari a 8 mila euro (oppure a 674 euro per 12 mensilità). La legge prevede però che lo sgravio non possa essere più di 650 euro mensili. Quindi il vincolo è stringente. Dunque, dividendo i 225 milioni per 7.800 (650 x 12) si ottengono 28.846 posti di lavoro. Siamo ben lontani dai 100 mila e ancor più dai 200 mila.

(1) Si veda AnastasiaBoeri e Cipollone

Occuparsi, in mezzo alla crisi

Tito Boeri, oggi, su Repubblica:

Ovunque du­ran­te le re­ces­sio­ni la di­soc­cu­pa­zio­ne au­men­ta di più per i gio­va­ni che nel­le al­tre fa­sce di età. Que­sto av­vie­ne per­ché i da­to­ri di la­vo­ro bloc­ca­no le as­sun­zio­ni re­strin­gen­do ogni ca­na­le di in­gres­so nel mer­ca­to del la­vo­ro. Ma nel­la me­dia dei pae­si Oc­se la di­soc­cu­pa­zio­ne gio­va­ni­le è ar­ri­va­ta in que­sta cri­si a es­se­re al mas­si­mo il dop­pio di quel­la per il re­sto del­la po­po­la­zio­ne. Da noi, in­ve­ce, è qua­si quat­tro vol­te più ele­va­ta.
Il fat­to è che ai pro­ble­mi strut­tu­ra­li del no­stro mer­ca­to del la­vo­ro e del si­ste­ma edu­ca­ti­vo si è ag­giun­to il dua­li­smo fra con­trat­ti tem­po­ra­nei e con­trat­ti per­ma­nen­ti che ha cau­sa­to que­sta vol­ta, in ag­giun­ta al bloc­co del­le as­sun­zio­ni, an­che li­cen­zia­men­ti in mas­sa di gio­va­ni la­vo­ra­to­ri pre­ca­ri. Inol­tre i gio­va­ni ita­lia­ni, a dif­fe­ren­za che in al­tri pae­si, non han­no rea­gi­to al­la cri­si de­ci­den­do di con­ti­nua­re a stu­dia­re, ma an­zi han­no ri­dot­to le lo­ro iscri­zio­ni al­l’u­ni­ver­si­tà. Pro­ba­bil­men­te per­ché si so­no re­si con­to che le lau­ree trien­na­li non of­fro­no uno sboc­co ade­gua­to sul mer­ca­to del la­vo­ro ri­spet­to ai di­plo­mi di scuo­la se­con­da­ria, non so­no in gra­do di ri­pa­ga­re l’in­ve­sti­men­to ag­giun­ti­vo fat­to in istru­zio­ne.
In­fi­ne, es­sen­do que­sta una cri­si fi­nan­zia­ria, è an­co­ra più dif­fi­ci­le per i gio­va­ni che han­no pro­get­ti im­pren­di­to­ria­li ave­re ac­ces­so al cre­di­to. Di so­li­to nel­le re­ces­sio­ni c’è an­che una par­te crea­ti­va per­ché il co­sto mi­no­re del cre­di­to, del la­vo­ro, dei fab­bri­ca­ti, del ca­pi­ta­le per­met­te a chi ha nuo­ve idee di rea­liz­zar­le. Ma que­sto non av­vie­ne du­ran­te le cri­si fi­nan­zia­rie, so­prat­tut­to da noi do­ve le ban­che non han­no in­ve­sti­to nel­la se­le­zio­ne di nuo­vi pro­get­ti im­pren­di­to­ria­li.
Ogni stra­te­gia che vo­glia dav­ve­ro af­fron­ta­re il pro­ble­ma del­la di­soc­cu­pa­zio­ne gio­va­ni­le de­ve per­ciò ave­re tre car­di­ni prin­ci­pa­li: pri­mo, de­ve mi­glio­ra­re il per­cor­so di in­gres­so nel mer­ca­to del la­vo­ro; se­con­do, de­ve af­fron­ta­re il pro­ble­ma dei trien­ni, spin­gen­do più gio­va­ni a con­ti­nua­re gli stu­di ol­tre la scuo­la se­con­da­ria; ter­zo, de­ve fa­vo­ri­re l’ac­ces­so al cre­di­to per chi ha idee im­pren­di­to­ria­li.
Sul pri­mo aspet­to, sa­reb­be sta­to im­por­tan­te in­tro­dur­re in Ita­lia un con­trat­to a tem­po in­de­ter­mi­na­to a tu­te­le cre­scen­ti, ap­pli­ca­bi­le a tut­ti i la­vo­ra­to­ri, in­di­pen­den­te­men­te dal­la lo­ro età o qua­li­fi­ca. Pur­trop­po il go­ver­no ha scel­to una stra­da di­ver­sa, la­scian­do che le tu­te­le con­tro il li­cen­zia­men­to sia­no in­di­pen­den­ti dal­la du­ra­ta del­l’im­pie­go. Li­cen­zia­re un la­vo­ra­to­re con con­trat­to a tem­po in­de­ter­mi­na­to che è da un so­lo me­se in azien­da con­ti­nue­rà a co­ste­rà quan­to li­cen­zia­re un la­vo­ra­to­re che ha 20 an­ni di an­zia­ni­tà azien­da­le. Que­sto sco­rag­gia le as­sun­zio­ni dei gio­va­ni so­prat­tut­to nei com­par­ti do­ve il lo­ro ca­pi­ta­le uma­no ver­reb­be me­glio uti­liz­za­to. Nei set­to­ri tec­no­lo­gi­ca­men­te avan­za­ti è, in­fat­ti, mol­to dif­fi­ci­le per un da­to­re di la­vo­ro va­lu­ta­re le com­pe­ten­ze del­le per­so­ne che as­su­me. Si pos­so­no dun­que com­met­te­re mol­ti er­ro­ri. Al tem­po stes­so, bi­so­gna fa­re un in­ve­sti­men­to di lun­go pe­rio­do sui la­vo­ra­to­ri che si as­su­me. La per­si­sten­te di­co­to­mia fra con­trat­ti a ter­mi­ne e con­trat­ti a tem­po de­ter­mi­na­to im­pe­di­sce tut­to que­sto. E non po­trà cer­to il con­trat­to di ap­pren­di­sta­to ri­pro­po­sto dal­la ri­for­ma For­ne­ro a ri­sol­ve­re il pro­ble­ma. Sem­pli­ce­men­te per­ché le sue re­go­le (in ter­mi­ni di età, quo­te sul­le as­sun­zio­ni e co­sti de­gli in­cen­ti­vi fi­sca­li) im­pe­di­sco­no che pos­sa es­se­re este­so al­le gran­di pla­tee coin­vol­te dal­la di­soc­cu­pa­zio­ne gio­va­ni­le.
Per sti­mo­la­re gli in­ve­sti­men­ti in istru­zio­ne bi­so­gna spin­ge­re i gio­va­ni a la­vo­ra­re e stu­dia­re al­lo stes­so tem­po. L’op­po­sto dei NEET (gio­va­ni che non stu­dia­no e non la­vo­ra­no al tem­po stes­so) di cui ab­bia­mo og­gi il tri­ste pri­ma­to. Per fa­re que­sto bi­so­gne­reb­be in­tro­dur­re in Ita­lia la for­ma­zio­ne tec­ni­ca uni­ver­si­ta­ria sul mo­del­lo del­le scuo­le di spe­cia­liz­za­zio­ne te­de­sche, le co­sid­det­te Fach­ho­ch­schu­le. Cia­scu­na uni­ver­si­tà, an­che se­de pe­ri­fe­ri­ca, in ac­cor­do con un cer­to nu­me­ro di im­pre­se lo­ca­li, po­treb­be in­tro­dur­re un cor­so di lau­rea trien­na­le ca­rat­te­riz­za­to da una pre­sen­za si­mul­ta­nea in im­pre­sa e in ate­neo. Me­tà dei cre­di­ti ver­reb­be ac­qui­si­to in au­la e me­tà in azien­da. Il la­vo­ra­to­re sa­reb­be im­pie­ga­to in azien­da e se­gui­to da un tu­tor. Con con­trol­li re­ci­pro­ci fra uni­ver­si­tà e im­pre­sa sul­la qua­li­tà del­la for­ma­zio­ne con­fe­ri­ta al la­vo­ra­to­re che ri­dur­reb­be­ro for­te­men­te il ri­schio di abu­so. I gran­di ate­nei po­treb­be­ro or­ga­niz­za­re una de­ci­na di que­sti cor­si con un ba­ci­no di cir­ca 800 stu­den­ti per ate­neo, pa­ri a 80 stu­den­ti per an­no in cia­scun cor­so di spe­cia­liz­za­zio­ne. I pic­co­li ate­nei dif­fi­cil­men­te ne or­ga­niz­ze­ran­no più di due o tre cia­scu­no. In que­sto mo­do si po­treb­be ar­ri­va­re ad ave­re ogni an­no 12-15­mi­la nuo­vi gio­va­ni oc­cu­pa­ti. A re­gi­me, su tre an­ni, la ri­for­ma po­treb­be por­ta­re i gio­va­ni oc­cu­pa­ti e im­pe­gna­ti in lau­ree bre­vi di spe­cia­liz­za­zio­ne in­tor­no al­le 50­mi­la uni­tà, un nu­me­ro si­gni­fi­ca­ti­vo, da­ta la di­men­sio­ne del­le coor­ti di in­gres­so nel mer­ca­to del la­vo­ro.
Le due ri­for­me di cui so­pra so­no a co­sto ze­ro per le cas­se del­lo Sta­to. La ter­za avreb­be co­sti li­mi­ta­ti. Po­treb­be im­pe­gna­re i fon­di strut­tu­ra­li inu­ti­liz­za­ti met­ten­do a di­spo­si­zio­ne fi­no a 150 mi­lio­ni per il de­col­lo di nuo­ve ini­zia­ti­ve im­pren­di­to­ria­li so­prat­tut­to nel­le aree più svan­tag­gia­te del pae­se. Me­dian­te un ac­cor­do con le ban­che, po­treb­be se­le­zio­na­re 1.000 pro­get­ti im­pren­di­to­ria­li da so­ste­ne­re at­ti­van­do cre­di­to fi­no a quat­tro o cin­que vol­te que­sta ci­fra. La fa­se di se­le­zio­ne dei pro­get­ti com­por­te­reb­be il fi­nan­zia­men­to di uno sta­ge al­l’e­ste­ro (o in re­gio­ni con un for­te tes­su­to im­pren­di­to­ria­le e buo­ne uni­ver­si­tà) in cui per­fe­zio­na­re il pro­prio bu­si­ness plan per 5.000 aspi­ran­ti im­pren­di­to­ri. I sol­di ver­reb­be­ro da­ti ai gio­va­ni, ma ser­vi­reb­be­ro di fat­to co­me ga­ran­zia per i pre­sti­ti ban­ca­ri. Sa­reb­be un mo­do an­che per spin­ge­re le ban­che a spo­sta­re la lo­ro at­ten­zio­ne dai clien­ti con­so­li­da­ti e spes­so non più in gra­do di ge­ne­ra­re va­lo­re ag­giun­to a chi ha idee e la for­zaed en­tu­sia­smo per por­tar­le avan­ti.

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Lo dicevano una follia e ora lo inseguono tutti: il reddito minimo garantito

E, devo dire, che comunque questo improvviso interessi può farci solo piacere. Perché ridisegnare il welfare partendo dalla comparazione dei diversi Paesi europei sul reddito minimo garantito (come si può leggere nel documento del MISSOC, il sistema informativo comune sulla protezione sociale negli Stati membri dell’Ue e nell’area economica europea) noi lo stiamo dicendo da un po’. E la riflessione di Tito Boeri per La Repubblica di oggi ci conforta:

Il premier ha garantito che troverà soluzioni alla questione esodati-esodandi. Bene che cerchi soluzioni universali anziché affidarsi alla discrezionalità dei tavoli tecnici invocati da più parti e prefigurati nella stessa audizione parlamentare del ministro Fornero.

I tavoli non sono fatti per questo governo e il tavolo tecnico, chiamato a gestire “in modo pragmatico” la vicenda, rischia di essere la premessa di una nuova moltiplicazione di regimi previdenziali ad hoc per specifiche categorie di lavoratori, quando il più che condivisibile obiettivo della riforma varata alla genesi del governo Monti era stato proprio quello di uniformare i trattamenti previdenziali, stabilendo regole uguali per tutti. Peggio ancora, il tavolo rischia di dare ai lavoratori un messaggio di cui proprio non si sentiva il bisogno: se vuoi avere la pensione nei tempi preventivati, devi ricorrere alle rappresentanze sindacali e alla mediazione della politica.
Cerchiamo di riassumere i tortuosi tratti della vicenda. In gioco le sorti previdenziali di lavoratori coinvolti in processi di ristrutturazione con licenziamenti collettivi, esuberi con uscite volontarie più o meno incentivate prima dell’entrata in vigore della riforma. Questi lavoratori si sono visti spostare in là nel tempo la data con cui avrebbero potuto fruire della pensione, su cui contavano in genere al termine di un periodo di cosiddetta “mobilità lunga”, con sequenza di buonuscita, cassa integrazione, indennità di mobilità e, infine, pensione. Per questi lavoratori, inizialmente dimenticati, poi stimati in una platea di 50.000 persone, “prudenzialmente” elevata a 65.000 al varo della riforma e infine lasciata indeterminata nel milleproroghe, è stata introdotta una clausola di salvaguardia che preservava il loro diritto ad andare in pensione con le regole (e i tempi) precedenti. Oggi le nuove stime del ministero parlano di 120.000 persone, ma sarebbero addirittura 370.000 secondo i consulenti del lavoro e 390.000 nei calcoli dell’Inps.
Perché la platea coinvolta è stata così grossolanamente sottostimata?
La gestione privatistica delle informazioni statistiche da parte del presidente dell’Inps ha giocato un ruolo importante. Il problema non è la fuga di notizie, ma l’assenza di notizie, perché Mastrapasqua non rende disponibili i dati che raccoglie nell’esercizio delle sue funzioni. Si limita a filtrarli a suo piacimento. Ha pesato anche l’incapacità del ministero del Lavoro di monitorare gli accordi aziendali: come mai i tanti ministri succedutisi nel Dopoguerra, quasi sempre ex leader sindacali, non hanno pensato di costruire un’anagrafe degli accordi aziendali? Conta, certo, anche la fretta con cui è stato varato il provvedimento, come riconosciuto dal ministro Fornero. Ma bisogna saper intervenire bene e in fretta perché spesso le riforme si riescono a fare solo in condizioni di emergenza: ricordiamo che la riforma delle pensioni andava fatta 15 anni fa. Infine, c’è un altro fattore dietro alla sottostima, importante perché ci dà una misura delle insidie che si celano dietro al tavolo tecnico: il problema è che la scelta dei lavoratori “esodandi” di restare in azienda dipenderà proprio dal modo con cui il “tavolo tecnico” interpreterà l’estensione della clausola di salvaguardia. È questa una scelta che dipenderà principalmente dalla forza contrattuale delle diverse categorie di lavoratori coinvolti. E si porterà dietro un inevitabile strascico di tensioni e recriminazioni, di cui abbiamo già avuto qualche anticipazione in queste settimane.
Per tutti questi motivi, invece di affidarsi alla discrezionalità del tavolo tecnico, meglio ritoccare le regole per le pensioni, gli ammortizzatori sociali o entrambi, senza creare regimi ad hoc, ma semmai anticipando l’entrata in vigore delle nuove normative.
La riforma varata a dicembre impone un drastico incremento dell’età effettiva di pensionamento per chi ha anzianità aziendali inferiori ai 42 anni e innalza rapidamente l’età pensionabile a 67 anni. La vicenda esodati è figlia proprio di questo blocco, che oscura alla memoria gli “scaloni” di Maroni e Tremonti. Invece di bloccare così drasticamente le uscite, si sarebbe potuto adeguare il livello delle prestazioni a seconda dell’età di pensionamento, lasciando poi libertà di scelta fra i 63 e i 68 anni, come avverrà per le generazioni che avranno pensioni maturate interamente col metodo contributivo. Perché dal punto di vista del bilancio dello Stato (e del debito pubblico), quando si applicano riduzioni attuariali negli importi delle pensioni non c’è differenza fra pagare una pensione più bassa più a lungo o una pensione più alta per un periodo più breve. Questa strada può essere ancora perseguita, applicando i coefficienti di trasformazione previsti dal metodo contributivo anche alle pensioni calcolate col regime retributivo o quello ibrido, parzialmente retributivo e parzialmente contributivo. I lavoratori in esubero si troverebbero così con una pensione più o meno nei tempi preventivati, anche se fino al 15% più bassa di quella su cui avevano inizialmente pianificato l’uscita. Avrebbero però la possibilità di cumulare a questa pensione redditi da altri lavori. Inoltre, ai loro datori di lavoro potrebbe venire richiesto di continuare a versare i contributi previdenziali per qualche anno, se lo desiderano reintegrando i lavoratori magari a orari e salari ridotti, onde permettere loro di rimpinguare la pensione.
La seconda ragione per cui la vicenda esodati è oggi esplosiva è che contestualmente all’aver introdotto un rigido blocco delle uscite, il governo ha ridotto la durata delle indennità di mobilità con la riforma del mercato del lavoro, che si dovrà approvare prima del vertice europeo. Il tutto, nel mezzo di una pesante recessione. Chi è rimasto senza lavoro con più di 60 anni si sente così preso tra due fuochi: una pensione che si allontana e sussidi di disoccupazione che si accorciano con scarse prospettive di trovare lavoro. Sarebbe perciò opportuno cominciare a muoversi nella direzione che dovrebbe prendere ogni seria riforma degli ammortizzatori sociali, costruendo, come nel resto d’Europa, un sistema di assistenza per i disoccupati di lunga durata che non hanno altre fonti di reddito. Potrebbe essere inizialmente sperimentato sulle fasce di età coinvolte dalla riforma, per poi essere generalizzato a tutti, non appena le condizioni di finanza pubblica lo renderanno possibile. Una sperimentazione di un reddito minimo garantito è stata prevista anche in sede di conversione in legge del decreto semplificazione, quindi si tratterebbe di circoscrivere la platea dei beneficiari non in base al Comune di residenza, ma all’età, il che rende tra l’altro più agevole la sperimentazione. Essendo i trasferimenti condizionati al manifestarsi di condizioni di indigenza ed essendo la povertà oggi concentrata in altre fasce di età, questa misura avrebbe costi comparabili a quelli della sperimentazione già prevista o potrebbe essere finanziata attingendo ai fondi comunitari (si tratta tra l’altro di costi associati all’attuazione di una riforma strutturale, come previsto dai progetti di riforma dei fondi strutturali in discussione a Bruxelles).
Ciò che accomuna i due correttivi è il fatto di anticipare l’entrata in vigore di regole che, prima o poi, varranno per tutti. Ci si muove perciò sulla strada dell’universalismo. Ci sembra una strada di gran lunga preferibile alle deroghe, alle proroghe e alle eccezioni fatte solo per dare più potere ai partiti e convincere gli italiani, una volta di più, che in Italia non esistono diritti soggettivi, ma solo privilegi cui si può accedere trovandosi un rappresentante con muscoli e voce stentorea, cui delegare la difesa dei propri interessi, rigorosamente in contrapposizione a quelli di tutti gli altri.

Intanto in rete vede la luce il sito del comitato promotore per una legge di iniziativa popolare (http://www.redditogarantito.it) e noi in Lombardia siamo pronti per la raccolta firme.

Insomma, si prova a fare politica.