Torturato in Libia, la Cassazione: “No all’espulsione”
L’ordinanza della Corte di Cassazione è la numero 23355 del 24 agosto 2021 e smaschera una certa narrazione che in Europa si finge di non vedere. La vicenda riguarda un richiedente asilo della Guinea Conakry scappato dal suo Paese nel dicembre del 2014 a seguito di un’epidemia di ebola che aveva contagiato anche il cugino. Arrivato in Libia gli è accaduto ciò che accade ogni giorno a migliaia di persone: violenze, soprusi. Ben 15 mesi di sequestro a scopo di estorsione e sfruttamento lavorativo documentati con un filmato giornalistico disponibile in rete nel quale lo si riconosce facilmente, e con una serie di certificati medici che descrivono le cicatrici dei maltrattamenti subiti.
Giunto in Italia, la Commissione territoriale di Verona, sezione di Treviso, rifiuta la domanda di protezione internazionale e il profugo, difeso dall’avvocato Francesco Tartini, ha chiesto il riconoscimento della protezione umanitaria ricorrendo al Tribunale di Venezia, sezione specializzata in materia di immigrazione. Il Tribunale di Venezia aveva preso atto delle lesioni subite, ma le aveva dichiarate irrilevanti «in assenza di conseguenze attuali sulla salute e sulla persona del ricorrente». Da qui il ricorso in Cassazione contestando al Tribunale di avere violato il dovere di collaborazione istruttoria omettendo di accertare, in concreto, le effettive conseguenze sul piano psicofisico, delle violenze subite in Libia nonostante le cicatrici, i postumi dolorosi e la circostanza che il richiedente asilo non abbia potuto effettuare alcun controllo medico approfondito per assenza di risorse economiche personali, e per la mancata assistenza sanitaria da parte del centro accoglienza ospitante. Tra le parti del processo si descrivono «maltrattamenti che venivano praticati facendo mordere i prigionieri da cani, seviziandoli con lame, frustandoli con tubi di gomma e sprangandoli sui talloni».
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso «…per non aver considerato che il richiamato art. 2 lett h) bis del D.Lgs. 25/2008 (nella formulazione introdotta dal D.Lgs. 142/15) definisce quali persone vulnerabili quelle per le quali è accertato che hanno subito torture o altre forme gravi di violenza (v. pure l’art. 17 del D.Lgs 25/2008)», e rilevando ulteriormente che «…il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari costituisce una misura atipica e residuale volta ad abbracciare situazioni in cui non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in condizioni di vulnerabilità, da valutare caso per caso, anche considerando le violenze subite nel paese di transito e di temporanea permanenza del richiedente, potenzialmente idonee, quali eventi in grado di ingenerare un forte grado di traumaticità, ad incidere sulla condizione di vulnerabilità della persona (v. Cass. n. 13096 del 2019)».
Le ripetute tortura libiche, insomma, non possono essere dichiarate “irrilevanti” per la legge italiana e la sentenza assume anche una rilevanza politica: se perfino la Cassazione ritiene non trascurabili e non cavalcabili le torture in Libia viene da chiedersi come possiamo continuare noi (Italia e Europa) a ritenere i libici partner irrinunciabili nella gestione dei flussi migratori. Sta scritto dappertutto ma tutti fanno finta di niente. Questa sentenza dice che andrebbero accolti tutti, mica rispediti dai loro torturatori.
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