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Umberto Bossi

Minetti, trota e tutto quell’inquinamento intellettuale lì. Per l’ultima volta.

Sì, me lo chiedete. Ho letto del ritorno di Berlusconi. E in fondo lo ripetevo come una litania (ma eravamo in tanti) ultimamente. E in fondo è la mossa che tutti sapevano, che qualcuno fingeva di contrastare e che mi ha sempre lasciato perplesso in alcune scelte degli amici del PD. Però oggi mi interessa altro: questi partiti che si ripuliscono così in fretta. Che a guardarli da fuori ti sembra un gesto da impuniti dell’etica e la morale.
La Lega caccia Renzo Bossi e in Lombardia si erge a moralista. Ci siamo puliti! Festeggiano, pure. E pensi che non possa bastare così poco. Che non sia possibile. Che non ci sarà nessuno che se la beve così facilmente, che la sottrazione di fondi pubblici (pubblici perché di tutti, mica della Lega, eh) non si possa lavare chiedendo al Trota di dimettersi e a suo padre Umberto Bossi di fare l’ammaestrato per qualche mese (perché tornerà anche lui, contateci).
Poi arriva Silvio e decide di fare fuori la Minetti. E pensi che in fondo l’analogia ci sta. Ma siccome Silvio è un fantasista di quelli che fa notizia anche se non tocca mai la palla (come quei talenti inespressi del calcio che chissà perché si sono comunque meritati l’etichetta di “talenti”) decide di chiedere alla sua amichetta del cuore di fare un passo indietro e che basti così.
Mentre l’Europa crolla, il lavoro scompare e i diritti si sgretolano.
Lui, Silvio, si toglie l’ammaliante sassolino dalla scarpa e basta così. Non finge nemmeno un periodo da mansueto in quinta alla Bossi, per intenderci.
E pensi che non possa essere possibile che qualcuno ci creda ancora. Poi guardi gli anni indietro. Però, ti dici, in fondo lì ce l’aveva fatta perché gli altri (cioè noi, di qua, nel centrosinistra) siamo stati sempre timidi e confusi. Timidi, poco credibili, indecisi e confusi.
Timidi, poco credibili, indecisi e confusi.
Timidi, poco credibili, indecisi e confusi.
E ti assale la paura.

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Questa non è la Lombardia: tutti gli indagati

Non è l’immagine della regione che dovrebbe rappresentare:

Daniele Belotti (Lega Nord) è indagato per una vicenda di tifo violento verificatasi a Bergamo l’8 febbraio 2011. E’ ritenuto l’anello di congiunzione tra le istituzioni e la tifoseria; deve rispondere di concorso in associazione per delinquere.

Monca Rizzi (Lega Nord), indagata a Brescia per presunti dossieraggi nei confronti di avversariall’interno del Carroccio, si è dimesso il 16 aprile 2012.

Davide Boni (Lega Nord) il 6 marzo 2012 il presidente del consiglio regionale lombardo viene indagato per corruzione per un totale di circa un milione di euro, soldi che potrebbero essere finiti nelle casse del partito di Umberto Bossi. L’indagine si concentra su presunte tangenti in campo urbanistico.

Renzo Bossi (Lega Nord) indagato a Milano per truffa ai danni dello Stato nell’inchiesta sui fondi della Lega, con il padre Umberto e il fratello Riccardo il 16 maggio 2012. 

Nicole Minetti (Pdl) il consigliere regionale è indagata insieme a Lele Mora ed Emilio Fede per induzione e favoreggiamento della prostituzione nella vicenda di Ruby. L’iscrizione nel registro avviene il 15 gennaio 2010.

Gianluca Rinaldin (Pdl) il 16 aprile 201o viene iscritto nel registro degli indagati per corruzione, truffa aggravata, finanziamento illecito ai partiti e falso. L’inchiesta riguarda presunte tangenti nel settore turistico del lago di Como. L’indagine era stata ribattezza la “Tangentopoli lariana”.

Massimo Ponzoni (Pdl) il 19 settembre 2011 l’ex assessore regionale all’Ambiente é indagato per bancarotta e poi per corruzione, nonché coinvolto nella maxi-operazione Infinito contro la ‘ndrangheta. Arrestato.

Franco Nicoli Cristiani (Pdl), ex vicepresidente del Consiglio regionale lombardo, è stato arrestato nell’ambito di un’inchiesta per una presunta tangente da 100 mila euro. Le indagini hanno portato anche al sequestro di alcuni cantieri della Brebemi in territorio di Milano e Bergamo. Le manette scattano il 30 novembre 2011.

Angelo Giammario (Pdl) il 14 marzo 2012 riceve la visita dei carabinieri che indagano il consigliere per l’ipotesi di corruzione e finanziamento illecito dei partiti. La vicenda in questione è legata agli appalti per il verde pubblico, soprattutto tra Milano e la Brianza.

 Romano La Russa (Pdl)l’assessore alla sicurezza della regione Lombardia e fratello dell’ex ministro alla Difesa viene indagato il 19 marzo 2012 per finanziamento illecito ai partiti nell’ambito dell’inchiesta sul caso Aler.

Roberto Formigoni (Pdl) presidente della Regione Lombardia è stato iscritto nel registro degli indagati il 23 giugno 2012, nell’inchiesta della Procura di Milano sui 70 milioni di euro che il polo privato della sanità Fondazione Maugeri ha pagato negli anni al consulente-mediatore Pierangelo Daccò.

Filippo Penati (Pd) è indagato dal 20 luglio 2011, per presunte tangenti per gli appalti dell’area Falck, si è dimesso dalla sua carica nel Consiglio regionale della Lombardia, dove era vicepresidente, mai da consigliere.

Alessandra Massei ex dirigente alla Programmazione sanitaria è indagata il 7 giugno 2012 per la vicenda giudiziaria che ruota intorno alla fondazione Maugeri.

Carlo Lucchina il direttore generale dell’assessorato alla Sanità compare il 14 giugno 2012 come indagato, perché accusato di turbativa d’asta su finanziamenti regionali, stanziati e in alcuni casi già erogati dalla Regione Lombardia, nell’ambito degli accordi stipulati tra aziende private.

Milano che (in politica) mangia i suoi figli

Da leggere e rifletterci.

Improvvisamente, nessuno (e siamo solo all’inizio di maggio) scommette più sul futuro politico di Roberto Formigoni, fino a ieri solidissimo governatore della Lombardia. Riuscirà a sopravvivere agli scandali (di notevole entità, peraltro: Mani Pulite capitalizzava un decimo di quanto hanno arraffato gli attuali – piissimi, cattolicissimi – consulenti della sanità lombarda)?

Cadrà per mano dei pubblici ministeri, o sarà semplicemente trascinato a fondo dalle sue vacanze troppo pacchiane? Trascinerà con sé in disgrazia anche il più potente movimento conservatore del cattolicesimo italiano, quella Comunione e Liberazione che lo ha messo alla guida della più ricca regione dell’Europa?

In attesa della risposta, c’è da rilevare una storia propria della città, una dura sequenza di fatti che non gioca a favore del futuro politico di Roberto Formigoni. La storia riguarda Milano, città in continua ebollizione, fantastica culla di movimenti politici, nutrice e sostenitrice degli stessi, ma capace anche di trasformarsi improvvisamente in nemica e di schiacciare chi aveva osannato, con decisione rapida e, come vedremo, con una certa crudeltà.

Negli ultimi cent’anni è successo a Benito Mussolini, a Bettino Craxi, a Silvio Berlusconi, a Umberto Bossi, e ora sembra proprio che tocchi al Governatore, detto anche «Il Celeste». Il quale sicuramente non si dispiacerà di essere finito in cotanta compagnia: lui che si lamenta dei cronisti, dei gossip, dei media, ancora non si rende conto di essere entrato nella Storia.

L’argomento, se ci pensiamo, è affascinante, come la città di cui parliamo. Prendiamo il primo esempio, vecchio ormai più di un secolo. Siamo nel marzo del 1919, Benito Mussolini è ancora uno stravagante ed eccentrico socialista, ma sa che se vuole sfondare deve farlo a Milano, perché è la città più moderna, più ricca, più sensibile. La città che sale, come l’ha definita un pittore futurista.

E così i suoi cento fondatori dei «Fasci di combattimento», che si riuniscono nella sede dell’Unione degli industriali di piazza San Sepolcro, ottengono proprio qui i primi finanziamenti e incoraggiamenti, che diventeranno sempre più cospicui, uniti a quelli degli agrari emiliani, specie quando i neonati fascisti incominceranno ad aggredire le Camere del Lavoro, a uccidere sindacalisti, a inaugurare la stagione dello squadrismo politico.

La borghesia milanese ha una vista lunga: dal momento che non vuole il bolscevismo in Italia, Benito Mussolini, con i suoi metodi, le va benissimo. La storia, come tutti sanno, finirà solo nel 1945. Ma sono importanti i dettagli. Distrutto dall’andamento della guerra, ormai orrenda marionetta di Hitler, Mussolini cercherà l’ultimo consenso proprio a Milano. Il 16 dicembre del 1944 il Duce parla al Teatro Lirico, stracolmo di folla ancora osannante (e ci voleva un bel fegato!).

È sicuro di poter ancora trovare una via d’uscita, una resistenza a nord del Po (a proposito: la Padania la inventò lui, in quell’occasione). L’aria è lugubre, quel giorno a Milano, ma la folla gli batte le mani. Nell’aprile del 1945 il suo cadavere penzolerà dalla struttura di un distributore di benzina in piazzale Loreto e i milanesi faranno a gara per farne scempio.

Curioso, vero? Appena quattro mesi dopo l’ultima investitura. Leo Valiani si chiese quanti di quelli che erano al Lirico erano anche a piazzale Loreto, ed era un’ottima domanda. Il giovane scrittore Oreste Del Buono si chiese invece se quelli che vi arrivarono non fossero chiamati per «l’estrema manifestazione indetta da Lui», cui non potevano sottrarsi. E Lui era uno che con i media ci sapeva fare.

Il fascismo, nato a Milano, morì a Milano. Durò vent’anni. Ma quel finale – wow!, chi non se lo ricorda! Da allora, nel linguaggio politico, quando sulla scena compare un avventuriero, quel distributore di benzina viene sempre evocato, essendo diventato una parte del carattere italiano. L’organizzata ferocia milanese contrapposta alla volubilità della plebe romana o alle imprevedibili esplosioni del Sud.

Secondo esempio, a dimostrazione di quanto Milano sia senza cuore, è il caso di Bettino Craxi. Leader di un partito socialista che è la principale anima storica della città, assume rilevanza nazionale a metà degli anni Settanta, quando si mette al centro della scena politica. A Milano regala sviluppo, soldi, spregiudicatezza, progresso (e ci mette la normale dose di corruzione di quei tempi, il 5 per cento) e la cosa dura fino al 1992.

Un attimo prima dell’inizio di Mani Pulite, Paolo Pillitteri sindaco (cognato di Bettino) aveva il consenso del settanta per cento dei milanesi, un mese dopo i milanesi inseguivano i craxiani con i forconi. Craxi capì subito, e nella sua Milano non abbozzò neppure una resistenza. Il craxismo era durato sedici anni, nato a Milano con concorso di popolo e borghesia, stroncato a Milano dalla Procura, con concorso di popolino e borghesia.

E Berlusconi, allora? Questi sono stati quasi vent’anni della nostra vita e li dobbiamo tutti a Milano, che ne accompagna l’ascesa come si fa per il figlio prediletto. È allegro, fa circolare il denaro, considera quasi un insulto il pagare le tasse, odia i lacci e lacciuoli intessuti dalla burocrazia, dalla Guardia di finanza, dai pretori; sopporta a malapena i sindacati; Milano apprezza la sua furbizia, la volgarità da nuovo ricco; lui fa divertire i cittadini dandogli la televisione gratis e una stellare squadra di football.

E quindi gli si perdona tutto: i fascisti sdoganati (Milano era una volta una città antifascista), la mafia portata in casa, la volgarissima vita privata e le spregiudicate alleanze politiche. Non c’è dubbio che Milano, nei suoi umori più profondi e più specifici l’abbia eletto coscientemente a proprio campione; ma, quasi ci fosse un sentire più profondo, è stata capace, cinicamente, di sciogliere unilateralmente il contratto.

Annebbiato dal suo formidabile successo, Berlusconi aveva scelto proprio Milano – e la piazza San Babila ricca di memorie fasciste – per proclamarsi, nel 2007, leader naturale di un «partito di tutto il popolo italiano» con una scenografia retro e vagamente lugubre – il famoso discorso «del predellino», denominazione abbastanza curiosa perché le automobili hanno smesso di avere il predellino a partire dagli Anni 40. Due anni dopo, ebbe un incontro ravvicinato con la città quando un invasato lo colpì al volto con una statuetta souvenir del Duomo; e da molti la cosa venne vista come un brutto presagio.

Si venne a sapere che la sua reggia, ad Arcore, era stata trasformata in una specie di bordello, dove il re senile era alla mercè di ogni ricatto, una specie di Salò pasoliniana. E così Milano si accorse che il tempo di Berlusconi era scaduto, non serviva più; e alle elezioni per il sindaco del 2011, la sconfitta gli arrivò come uno schianto.

Non c’era stato, naturalmente, un piazzale Loreto; ma un certo aspetto di gogna, anche fisica, Milano non gliela aveva risparmiata. Il berlusconismo era durato diciotto anni. Poco dopo venne il turno di Umberto Bossi, che Milano non aveva mai veramente sposato, ma accettato come un male necessario. Vent’anni anche per lui, comunque.

La vicenda attuale di Comunione e Liberazione (e del suo maggiore esponente politico, il governatore Roberto Formigoni), è invece più complessa e con radici più profonde e inaspettate. Caso pressoché unico, di fronte ai grandi cambiamenti del ’68, Milano reagì diventando la culla di un movimento religioso cattolico di stampo molto conservatore.

Cl, fondata da un insegnante di religione, don Luigi Giussani, allibito dall’idea che delle studentesse liceali potessero prendere la pillola, si poneva in contraddizione con la tradizione del cattolicesimo lombardo progressista, con il Vaticano post-conciliare, propugnando una visione della vita molto antimoderna, specie nella sfera sessuale, ma anche una militanza comunitaria, una messa in comune dei profitti delle attività collettive, una tensione di testimonianza cristiana.

Di nuovo, Milano. E non Roma, o Torino. (Milano, dove, nel ’68, si ebbe anche l’unico caso al mondo di un movimento studentesco che sfilava con decine di migliaia di ragazzi inalberando ritratti di Stalin e del suo capo dei servizi segreti, Beria). Cl incarnava uno spirito profondo di Milano? La città laica nascondeva un cuore religioso inaspettato? Evidentemente sì, se si pensa che Cl ha avuto negli ultimi quarant’anni un eccezionale sviluppo, ha conquistato un grande potere politico, ha creato una classe dirigente, si è proposta come modello economico.

Ora è nel bel mezzo di uno scandalo di cospicue dimensioni che la colpisce nella sua stessa essenza. Testimoni della cristianità ritrovata sono in carcere accusati delle più laica delle attività, la tangente e la corruzione; lo stile di vita è messo a dura prova dagli yacht, dalle giacche, dal narcisismo e dall’amore per il lusso del governatore Formigoni.

La città tratterà anche lui come un nuovo corpo estraneo? E in quale modo avverrà la rottura? È quello che sapremo, forse, nelle prossime settimane. E a quel punto la città, abituata al marketing, si guarderà intorno per trovare qualcuno che, almeno provvisoriamente, la rappresenti. È come una bestia curiosa, Milano, non può stare ferma per sua stessa natura. Ha traffici da gestire, grattacieli da costruire, un’infinità di commerci da portare avanti, immigrati da sfruttare, ma anche da accogliere, un arcigno Palazzo di

Giustizia da tenere a bada e con cui mettersi d’accordo, brevetti da catturare, un benessere diffuso da mantenere. Non ha mai veramente amato i leader politici che ha lanciato nell’arena, che pure ha votato e finanziato, e quindi non ha particolari rimorsi quando li fa cadere. È senza anima, Milano. Oppure, se volete, è la forma più avanzata di democrazia.

Il circo magico

Francesco Merlo, oggi, irresistibile su Repubblica


Se vo­le­te tro­va­re la fa­mi­glia esa­ge­ra­ta, se cer­ca­te il sud fa­mi­li­sta ti­piz­za­to e mo­stri­fi­ca­to dal­la so­cio­lo­gia, se ave­te no­stal­gia del­l’an­ti­co Me­ri­dio­ne ec­ces­si­vo di “mam­me­ta, pa­te­to, fra­te­to e so­re­te”, è al Nord che do­ve­te an­da­re. A Ge­mo­nio in­fat­ti ca­sa Bos­si è più na­po­le­ta­na di ca­sa Cu­piel­lo, che in fon­do è so­lo tea­tro. E gli af­fi­lia­ti e i com­pa­ri so­no più co­sca nel­la Brian­za che nel­la Cor­leo­ne di og­gi.
So­lo a Ge­mo­nio e non più a Pas­so­pi­scia­ro po­te­te sti­pa­re, in uno stes­so cam­per, il pa­dre bau­scia in ca­not­tie­ra e la mam­ma “ma­va­ra” che pre­pa­ra la te­glia di po­len­ta ma ogni tan­to mol­la sga­nas­so­ni ai ra­gaz­zi e la se­ra si de­di­ca ai ri­ti ma­gi­ci. E, nei se­di­li di die­tro, tan­ti fi­gli mam­mo­ni, ton­ti e spac­co­ni, che mo­stra­no il pet­to al­le ra­gaz­ze ma, ad ogni sor­pas­so, fan­no il ge­sto del­l’om­brel­lo e le cor­na. Nel mez­zo, a di­vi­de­re i ra­gaz­zi che, scom­po­sti, li­ti­ga­no e scal­cia­no, c’è la co­ma­re, l’e­ner­gi­ca zia Ro­sy, ma con il fi­dan­za­to fur­bet­to che al­lun­ga le ma­ni. Ag­giun­ge­te i ca­ni aki­ta, l’om­brel­lo da spiag­gia, sul tet­to una ca­me­ra d’a­ria da usa­re al ma­re co­me un sal­va­gen­te e, per com­ple­ta­re la fa­mi­glia Bos­si, li­be­ra­te quel­l’ar­ma­men­ta­rio espres­si­vo fat­to di per­nac­chie e di­ti me­di di cui al Sud or­mai ci si ver­go­gna e che in­ve­ce in un pez­zo di nord è il co­di­ce del­la clas­se di­ri­gen­te.
Sem­bra un film co­mi­co, un pa­ra­dos­sa­le Ver­do­ne, ma è in­ve­ce la real­tà. Non un’o­pe­ra del­l’in­ge­gno espres­sio­ni­sta del­la com­me­dia al­l’i­ta­lia­na ma il pro­fon­do sud a po­chi chi­lo­me­tri da Mi­la­no, la ri­na­sci­ta per­fet­ta del me­ri­dio­na­le scom­par­so: Fran­chi e In­gras­sia, Ti­be­rio Mur­gia, don Fe­fè, Sa­ro Ur­zì e tut­te le ma­sche­re del­la piz­za e del­la pa­sta al su­go.

L’u­ni­co ele­men­to di mo­der­ni­tà è quel “fa­mi­ly” che il te­so­rie­re del­la Le­ga ave­va scrit­to sul­la più pre­zio­sa del­le car­tel­li­ne, fa­mi­ly co­me prin­ci­pa­le vo­ce di bi­lan­cio, la pa­ro­la in­gle­se per in­gen­ti­li­re il de­lit­to, per na­scon­de­re l’in­gom­bran­te scan­da­lo, un gio­co lin­gui­sti­co di co­per­tu­ra che al­la fi­ne ot­tie­ne l’ef­fet­to op­po­sto. Fa­mi­ly è in­fat­ti l’i­ro­nia di­spe­ra­ta di quel te­so­rie­re go­ril­la che sem­bra il ge­mel­lo di Mo­du­gno: «Mam­me­ta, pa­te­to, fra­te­to, non­ne­ta, so­re­ta, zie­ta… o ca­ne. Aaaaaaaaahhh! Ia­te­ven­ne, ia­te­ven­ne».

Il rogo delle tessere, il giorno dello sciacallo, Maroni e Bossi: nella Lega l’hanno presa bene

Comincia a sparare l’assessora Rizzi: “Maroni segretario? Mi dimetto. Da lui caccia alle streghe”.

Ma chi si supera è un militante padano che nel giorno delle dimissioni del Capo ha scritto un testo dal titolo emblematico: “Il giorno dello sciacallo“.

“Oggi il barbaro sognante ha superato se stesso. Nel febbraio ’95 tradì la Lega Nord, oggi ha tradito l’Amico. Ha tradito colui che gli ha dato fama, soldi, potere. E’ inutile continuare a nascondere la testa sotto la sabbia e far finta di non sapere cosa c’era e c’è in atto in Lega Nord. E’ più di un anno che Maroni tenta di prendere la testa del movimento con mezzi leciti e illeciti, questi ultimi sempre ben nascosti. Se oggi in Bellerio il grido di ‘traditore’ pronunciato dai Militanti si è levato spontaneo nei confronti del ‘barbaro’ è perché tutti hanno capito ‘la mossa del Giuda’”.

“Gli eventi di questi ultimi giorni hanno altre si fatto capire l’accordo con i poteri forti ‘italioti’. Come Robert Bruce tradì William Wallace il ‘Robert italiota’ ha tradito e venduto al nemico Umberto Bossi. La Lega è morta? può essere. Se mai succederà che il ‘barbaro traditore’ si impossessi del movimento la Lega morirà comunque, a lui interessa la struttura e la ‘cassa’, modificherà subito il Dna togliendo l’art.1, ‘l’indipendentismo’ e a quel punto noi Militanti, ‘Guerrieri di Bossi’, non avremmo più ragione di esistere. Fin d’ora vi invito a ‘bruciare la tessera’ in una grossa manifestazione che organizzeremo per il nostro ‘Condottiero‘. Un ultimo sogno nel cuore mi è rimasto: Bossi! La Lega mai a un ‘barbaro traditore’ portatela con te nella tomba”.

Beh, buon lavoro.

Michele Serra e il popolo abbindolabile dalla Lega

Più che alla disonestà vera e propria, gli scandali della Lega fanno pensare alla disperata precarietà strutturale di un partito inventato da un fanfarone di paese, finto medico, cantante fallito, che per oltre vent’anni è riuscito ad abbindolare un popolo evidentemente abbindolabile.

Tutto, nella storia leghista, è improvvisato e cialtrone, a partire da quel logo fantasma, “Padania”, che non ha alcuna attinenza con storia e geografia e pare sortito da un partita notturna a Risiko annaffiata da troppo alcol. Proseguendo con il ridicolo crak del credito padano, l’inverosimile carriera politica del povero Trota, il cerchio magico con le fattucchiere e le badanti, l’università dell’Insubria, gli amiconi illetterati messi alla Rai per puro sfregio, i finti ministeri a Monza, gli elmi cornuti, gli affaroni in Tanzania…

È quasi prodigioso che con ingredienti così poveri la grande simulazione di Bossi abbia potuto reggere così a lungo. È come se un “Amici miei” di basso rango fosse arrivato a governare un Paese. Poi i giudici, non per colpa loro, arrivano sempre dopo. Dopo che milioni di italiani l’hanno bevuta, ci hanno creduto, si sono tappati occhi e orecchie per non sentire e non vedere.

Michele Serra

Fanno politica per finta

Qualche giorno fa Roberto Maroni ci confessava beatamente che la Lega fingeva di essere xenofoba per racimolare voti ma che in fondo non ci credono troppo. Oggi Bossi ci dice che se il voto alle prossime amministrative andrà male torneranno con lo stesso Berlusconi con cui fingono di bisticciare un po’ dappertutto, Lombardia compresa. Sono all’opposizione per contarsi (dice Bossi) ma non ci credono molto: praticamente sono la stampella che finge di essere avversaria. Se fosse uno spettacolo teatrale Umberto Bossi e Roberto Maroni sarebbero i lestofanti che per tutta la serata stanno sulle palle a tutti gli spettatori ma si sopportano perché si sa bene che servono alla drammaturgia e allo svolgimento della storia. Invece siamo nel paese reale e la scenografia è un tracollo di diritti, di soldi, di speranze e di futuro e sembra una tragedia in 800 atti di cui non si vede la fine. Sarebbero anche da fischiare e cacciare a calci fuori dal palcoscenico – pensi – ma se escono i personaggi minori magari ci si accorge che in mezzo a tutti questi che fanno politica per finta ti sfugge chi ci sia per davvero. Senza recitazione, giochi di ruolo o trucchi populistici di chi mastica bene il mestiere. Dico: qualcuno che crede che la sua sia davvero una soluzione equa perché la crede equa e non perché è la soluzione che tiene buoni gli alleati, chi dice che le cause di questo disfacimento morale ce le ha bene in testa e non le lima per non sfiorare qualcuno dei suoi, chi ci dice  che vuole provare a costruire futuro in quella direzione perché è la strada per cui imbarcherebbe subito se stesso, la sua famiglia, i suoi figli.

E allora sicuramente Bossi (e molti altri) non avrebbero sempre quel sorriso di chi sa per certo che questo Monti è solo una pausa, piuttosto che la fine.

 

Il golpe sul San Raffaele/2

Anche oggi PDL e LEGA hanno fatto saltare l’insediamento della Comissione d’inchiesta sulle vicende del San Raffaele. E’ una delle pagine più vergognose di questa legislatura regionale: Formigoni si fa scudo con gli uomini del suo partito perché evidentemente non tutto è “così a posto” come dichiara ai giornali e i leghisti (che continuano a urlare con il capo vichingo Umberto Bossi in piazza) coprono il formigonismo  che a parole dicono di  voler combattere. Non si tratta più di collaborazione. Si tratta di collusione. E basta.

COMUNICATO STAMPA

Seconda fumata nera in commissione d’inchiesta sul San Raffaele: PDL e Lega impediscono ancora una volta l’elezione del presidente

Ancora una volta PDL e Lega hanno impedito l’elezione del presidente della commissione regionale d’inchiesta sul San Raffaele, paralizzandone l’avvio. Votando scheda bianca, i commissari di maggioranza hanno infatti impedito che si raggiungesse il quorum di 41 voti. Franco Mirabelli, il candidato espressione delle minoranze, ha raccolto tutti i 26 voti dei gruppi che hanno richiesto l’istituzione della commissione.

Molto critiche le opposizioni. “Anche oggi – scrivono in una nota PD, IDV e Sel – la commissione d’inchiesta sul San Raffaele è stata bloccata dalla maggioranza che non consente l’elezione del presidente che spetta per Statuto alle minoranze. Evidentemente il Pdl non vuole approfondire le ragioni di un buco di un miliardo e mezzo di euro in un ente a cui la Regione Lombardia dà ogni anno un contributo di 600 milioni. E la Lega resta subalterna nonostante a chiacchiere si presenti come l’alfiere della trasparenza e della legalità”.

La bulimia verbale della Lega

E’ la prima cosa che mi è venuta in mente quando Anna Cirillo di Repubblica mi ha chiesto un commento per il suo pezzo sulla manifestazione della Lega di ieri a Milano. Perché ci farebbe un gran piacere vedere le manine alzate dei leghisti che buttino giù l’impero Formigoni e saremmo pronti a riconoscerne la coerenza. Ma parlare dei buoni propositi (sempre traditi) di leghisti sparsi sta diventando noioso e imbarazzante. Uno stomaco che riesce a digerire Cosentino (all’opposizione) non ha problemi nel digerire un Ponzoni mentre condivide le poltrone. Al massimo ci si mette a gestire la gastrite con una pillola e quattro urla in piazza il giorno successivo.

Il congresso “porcellum”

A Varese, nella culla dei Bossi, nel congresso leghista è di scena il porcellum declinato alle sezioni di partito: un segretario non eletto, la chiusura delle iscrizioni a parlare, la negazione ostinata delle diversità e l’acclamazione per metà (mi ricorda qualcosa, già). C’è di buono che è solo il quartiere generale della stampella di governo. Forse, visto i tempi che corrono, poteva andare peggio: potevano aprire qualche nuovo ministero.