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Il caso Suarez ci dice che in Italia gli immigrati ricchi si accolgono e quelli poveri si odiano

È la fotografia della distorsione di un paese e, per questo, la vicenda del calciatore del Barcellona Luis Suarez va raccontata per bene e va tenuta a memoria. Non tanto per le dimensione di un’indagine, quella della Procura di Perugia, che forse ha scovato i soliti furbi fare i furbi per mettersi a disposizione del luccicante mondo dei ricchi, ma perché le disuguaglianze sono talmente evidenti che basta mettere in fila i fatti per comprendere come in Italia ci siano diverse velocità (e forse anche regolarità) di procedura per ottenere un diritto.

E cosa c’è di più schifoso di un diritto che dovrebbe universale e invece è accessibile solo a chi può permetterselo? Un calciatore del Barcellona nato in Uruguay briga per ottenere la cittadinanza italiana (ha sposato un’italiana) in poche settimane. È la stessa cittadinanza che, lo dicono le statistiche, tanti attendono in media in quattro anni. Anni contro settimane, tanto per rendere l’idea.

Suarez doveva ottenere la cittadinanza per firmare per venire a giocare in Italia e sostiene, come tutti, un esame di italiano. Secondo le intercettazioni Suarez “non coniuga i verbi”, “parla all’infinito” e quindi concordano l’esame “perché con 10 milioni a stagione di stipendio non glieli puoi far saltare”, dicono gli esaminatori e quindi il calciatore “sta memorizzando le varie parti d’esame” e addirittura il voto finale è stato comunicato in anticipo al candidato. Prima di un esame che è durato una manciata di minuti quando di solito dura circa due ore e mezza.

Così ora la Procura di Perugia indaga, tra gli altri, il Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, Giuliana Grego Bolli, e il direttore Generale dell’università, Simone Olivieri. Ma in fondo, se ci pensate bene, Suarez ha dimostrato di avere tutte le carte in regola per diventare un italiano, un italiano di quelli che sono convinti che questo Paese appartenga ai furbi, ai ricchi, agli amici degli amici, alle raccomandazioni, al servilismo di certi funzionari, al seguire gli interessi prima ancora delle regole e alla prepotenza di chi può permettersi di comprare risultati che andrebbero conseguiti per merito.

In questa sua predisposizione Suarez ha dimostrato di essere perfetto per diventare un italiano di quelli. Resta solo da spiegare ai tanti che sono italiani di fatto, ma che lottano per anni per vedersi riconosciuti, che gli immigrati qui pesano in base al loro reddito. Si accolgono i ricchi e si odiano i poveri, semplice semplice. E così quella che era già una farsa ora diventa ancora più vergognosa.

Leggi anche: Suarez, cittadinanza italiana ottenuta con truffa: il punteggio attribuito prima della prova

L’articolo proviene da TPI.it qui

Se l’Uruguay vince contro Philip Morris

Buone notizie: questa la racconta Piero Basso:

E così, alla fine, l’Uruguay ha vinto contro il gigante del tabacco Philip Morris, che nel 2010 aveva trascinato il piccolo paese (tre milioni di abitanti) davanti al Centro internazionale per il regolamento delle controversie relative ad investimenti (in inglese “International Centre for Settlement of Investment Disputes, ICSID, una commissione arbitrale della Banca mondiale con sede a Washington), per avere danneggiato, con la sua politica antifumo, gli interessi della multinazionale.
In particolare Philip Morris contestava alcuni provvedimenti come l’obbligo di indicare la pericolosità del tabacco sulle confezioni e il limite di vendere un solo tipo di sigaretta per marca (una sola Marlboro e non Marlboro Light, blu, verde). Questi provvedimenti, insieme a una campagna generalizzata di educazione sanitaria, hanno portato a una riduzione del numero di fumatori in Uruguay dal 35 al 22% della popolazione.
E’ la prima volta che la commissione, nata per tutelare gli investimenti, riconosce la prevalenza dell’interesse pubblico rispetto agli interessi commerciali. Non solo, rigettando il ricorso della Philip Morris la commissione l’ha anche obbligata a rimborsare l’ingente costo delle spese legali sostenute, oltre 7 milioni di dollari (spese che l’Uruguay era stato aiutato a sostenere da una fondazione americana). Gli altissimi costi della difesa sono un’altra delle armi di cui si servono le multinazionali per ricattare i governi che si oppongono alle loro politiche.
“Questa vittoria, ha dichiarato Tabaré Vazquez, il presidente dell’Uruguay che è anche un noto oncologo, e che era presidente anche nel 2010 al tempo del ricorso della Philip Morris, è un successo a livello globale nella lotta contro l’industria del tabacco. D’ora in poi, quando le industrie del tabacco cercheranno di intervenire sulle regolamentazioni usando la minaccia di una causa, avranno a che fare con il nostro precedente”.

Il governo italiano al servizio delle multinazionali
Per un governo che prende le difese della salute del suo popolo, un altro corre al servizio delle multinazionali.
Non illudiamoci. L’inaspettata vittoria dell’Uruguay, dovuta probabilmente anche al forte impatto mediatico (Davide contro Golia) e alla mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale, non rappresenta un’inversione di rotta rispetto alla tendenza dilagante, a partire dagli anni ’90, a ridimensionare sempre più le prerogative del pubblico rispetto agli interessi dei privati, In particolare queste “commissioni arbitrali” sono istituite per proteggere gli investimenti delle multinazionali, non la salute o il benessere dei cittadini.
E sono al cuore degli accordi commerciali già firmati (come il TPP, partenariato transpacifico) o in corso di discussione, come il TTIP (partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti). Quest’ultimo è per il momento fermo, grazie all’opposizione di alcuni governi europei e alla mobilitazione di milioni di cittadini sia in Europa che negli Stati Uniti, ma si sta preparando il cavallo di Troia, che renderà pressoché superfluo il TTIP. Si tratta del CETA (Comprehensive economic and trade agreement), il trattato di libero scambio tra Unione Europea e Canada, concluso nel 2014 e che ora deve essere firmato.
Perché “cavallo di Troia”? Perché, scrive Greenpeace, sono ben 42.000 le multinazionali americane presenti in Europa che hanno una succursale in Canada, e che quindi, se il CETA verrà approvato, avranno quello che chiedono da tempo: un mezzo potente per aggirare gli standard europei in materia di sicurezza ambientale e alimentare. Anche il CETA, infatti, prevede la possibilità per le aziende di citare in giudizio i governi che prendono decisioni “lesive” dei loro interessi privati.
E’ possibile fermarlo? Sì, con la sensibilizzazione e la mobilitazione dell’opinione pubblica che ha già messo in serie difficoltà il cammino del grande accordo transatlantico, il TTIP, ed è a questo punto che il governo italiano e il presidente della Commissione europea Junker corrono in aiuto delle multinazionali, cercando di evitare il voto dei parlamenti nazionali, col rischio che in qualche parlamento gli interessi della popolazione prevalgano su quelli delle multinazionali.
La materia è complessa: alcuni accordi possono essere ratificati direttamente dal Parlamento europeo, altri richiedono la ratifica da parte dei parlamenti nazionali. Junker ha chiesto di far approvare il trattato dal solo parlamento europeo; contro l’esautoramento dei parlamenti nazionali si sono espressi quasi tutti i paesi europei, ma occorre l’unanimità, e questa è stata rotta dall’Italia che con una lettera del Ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda alla Commissione europea conferma la disponibilità dell’Italia a esautorare il suo Parlamento e gli altri in Europa dal loro potere di ratifica dei trattati commerciali (qui il testo in inglese https://stopttipitalia.files.wordpress.com/2016/06/lettera-calenda-2.pdf).
Un trattato potenzialmente pericolosissimo, con possibili gravissime conseguenze per le nostre vite, mai discusso pubblicamente, che ora si vuole ratificare senza neppure una discussione in Parlamento, e senza permettere nessuna partecipazione all’opinione pubblica.
Con il governo italiano in prima linea in quest’opera di demolizione della base sessa della democrazia.

(fonte)