«Io in fondo al buco»: la mia intervista a Vanity Fair #Santamamma
(Recuperato con un po’ di ritardo ecco la mia intervista su Santamamma per Vanity Fair)
IO, IN FONDO AL BUCO
Qualcosa mancava dentro di lui. Era il nome della mamma che lo aveva lasciato. Poi, GIULIO CAVALLI ha scoperto le proprie radici. E ha capito anche il perché di una scorta
Vanity Fair (Italy)10 May 2017di MARINA CAPPA
La sua nuova vita parte da un trolley azzurro. È con questa unica compagnia che Giulio Cavalli arriva in treno da Roma a Milano. Fino a poco tempo fa, non sarebbe stato possibile: per dieci anni, è stato sotto scorta ed era inimmaginabile che si muovesse da solo. Drammaturgo, attore, consigliere regionale, scrittore (è appena uscito il suo libro Santamamma, dove racconta la propria storia di bambino adottato e la ricerca della madre naturale): Cavalli a quasi 40 anni ha tante anime. Ma, in un gioco di specchi, ognuna riflette l’altra. Quanto c’è di autobiografico in Santamamma? «Il sentimento è molto autobiografi co, i fatti sono in parte trasfi gurati. Scriverlo mi è servito più del Prozac». È per curare il «buco» che l’accompagna da sempre che ha deciso di scrivere? «Un giorno, mentre ero in Consiglio regionale, ricevo una telefonata: l’orfanotrofi o di Milano in cui vivevo prima dell’adozione era diventato la sede della Provincia, qualcuno aveva scoperto i miei documenti, e voleva 500 euro per farmeli avere. Li avrei pagati, poi li ho avuti in altro modo». Che cosa c’era dentro? «Il nome di mia madre, che è quello scritto nel libro: Maria Roberta Gatti, pensare che i miei genitori adottivi sono Cavalli… Sono andato a cercarla, scappando dalla scorta, non l’ho trovata ma ho scoperto che è una disperata, ha avuto 7-8 gli da un altro uomo che – altro paradosso – è un pregiudicato del 41 bis. Di mio padre invece so solo che era un macellaio, nato a Bari». Quando ha saputo di essere adottato? «I miei genitori me l’hanno sempre detto». Si sentiva diverso dagli altri bambini? «No. La questione mi è esplosa con la nascita del mio primo figlio (Cavalli è padre di Tommaso, Leonardo e Martino, 11, 8 e 5 anni, ndr). Fino ad allora mi ero convinto che i legami di sangue non contassero, e invece mi sono accorto che le radici, l’identità hanno un senso». Lei adotterebbe? «Non so se ne avrei la forza. L’adozione per me è come un dolore piccolo ma cronico, che ogni tanto torna». Quando? «Quando ho fatto la mia prima tournée, con Linate 8 ottobre 2001, avevo il terrore di incontrare mia madre in giro, su un treno, senza riconoscerla, o di arrivare in un paese e a mia insaputa passare vicino alla casa dove lei vive. Sono sempre stato maniaco del controllo, e questo dubbio mi mandava in tilt. Oggi so dove abita, ho anche il numero di cellulare, ma non intendo chiamare». Invece, quando ha scoperto di avere un fratello, lo ha cercato. «Giuseppe ha un anno meno di me ed è l’unico fratello “pieno”: è il pezzo che mancava della mia famiglia, abbiamo vissuto le stesse cose nello stesso posto, passando dalle stesse mani. Ci siamo visti, lui è un architetto, ma il nostro rapporto è ancora molto a distanza». Dell’orfanotrofio ha ricordi? «È un buco nero. Mia madre dice che, quando ci è entrata, i bambini le si attaccavano alle ginocchia, supplicandola di portarli via. Come un canile». Quanta rabbia ha provato? «È arrivata con gli anni, e l’ho fatta scontare a mamma e papà». Come ha preso il fatto che la sua madre naturale sia una donna «disperata»? «Questo ha come certificato che l’adozione è stata la scelta giusta. E mi ha sollevato dal dubbio lancinante di essere stato strappato a una famiglia che avrebbe potuto allevarmi». Strappato? «Le istituzioni sono irrispettose degli a etti, lo dico perché io sono stato eroso dallo Stato che voleva proteggermi e negli ultimi 10 anni ho vissuto una vita che non c’entra nulla con la realtà. Mi sono trovato cucito addosso il personaggio dell’eroe che denuncia tutto, ma non lo volevo. Quindi, alla ne questo è il libro di un pervertito anafettivo». Com’è andata l’«erosione»? «Io nasco regista, ma Paolo Rossi mi manda in scena al posto suo. Penso sia un giro di giostra, poi però faccio Linate e divento il teatrante civile. La ’ndrangheta si interessa a me, e io per legittima difesa accetto di fare politica (nel 2010 è eletto consigliere regionale in Lombardia per l’Italia dei Valori, poi passerà a Sinistra Ecologia Libertà, ndr)». In che senso per legittima difesa? «In Italia essere sotto scorta e uomo di teatro è una colpa che imbarazza lo Stato, e chi ti protegge te la fa scontare. Così finisco a occuparmi di criminalità organizzata per meritarmi la scorta». Quando è arrivata la scorta? «Nel 2005, facevo una storia sulla ma a siciliana che voleva uccidere Crocetta e a una famiglia gelese di Lodi non è andata giù. Quando arriva la scorta gli antimafiosi mi cannibalizzano: perché lui sì e il magistrato no? E io sbaglio, alzo il tiro, racconto la ma a in Lombardia, così le minacce crescono. Mi sentivo il Saviano da discount milanese. In più, il mondo letterario mi aveva disconosciuto per via della politica, e la politica mi delegittimava in quanto teatrante. Volevo scappare». Che rapporti aveva con gli uomini che la proteggevano? «Bellissimi, ma appena diventavamo amici li spostavano. Con i loro superiori invece ho un pessimo rapporto. La mia prima foto con Miriana esce perché un paparazzo ha dato 50 euro a un uomo della mia scorta per farsi dire dov’ero. Mi capitava anche di non poter entrare in un ristorante semivuoto perché stavo sulle palle al caposcorta. Miriana l’hanno fatta tornare in treno a Roma perché non era formalmente mia moglie». La donna di cui parla è Miriana Trevisan, ex velina e valletta di Mike Bongiorno. Come vi siete conosciuti? «Mi ha scritto perché aveva letto il mio Nomi, cognomi e infami. Io l’ho presa per il culo: una velina che legge un libro così… Era il periodo più basso della nostra vita, lei aveva problemi fisici, io ero una brutta persona, prepotente, egoriferito, terrorizzato dal fatto di poter essere ricattato…». Ricattato? «Quando vivi circondato da persone che di te sanno tutto, che ascoltano ogni tua telefonata, e ti si piazzano attaccati se parli con qualcuno questa paura ti viene». Alla fine però la scorta gliel’hanno tolta. «Non proprio. È che sono andato via da Milano, con la mia compagna. Adesso sono quattro anni che stiamo insieme: Miriana è una donna buonissima». Ma il buco di cui parla nel libro, che deriva dall’essere stato adottato, è inne riuscito a colmarlo? «Non è colmo, ma adesso ha un fondo. La vera guarigione è stata scoprire che mio fratello ha lo stesso buco, e che io sono stato all’altezza di ciò che mi è capitato». Oggi si parla molto di adozioni: lei che cosa vorrebbe aggiungere? «Non si insiste abbastanza su quanto è destabilizzante non sapere da dove vieni. I forum di persone adottate che cercano i genitori sono un horror, un mondo di feriti che non guariscono più. Io penso che l’essere stato adottato ha amplificato quello che mi è successo poi. E per anni mi sembrava di non interpretare una vita autentica, che una parte di me fosse stata sbianchettata, e io dovevo recuperare ciò che avevano provato a cancellare. Era come essere spettatore di me stesso. Poi, a un certo punto, ho notato che non ero mai stato gentile con nessuno: quello è stato lo snodo, rendermi conto che ognuno combatte la propria eroica battaglia. Ci vuole coraggio a essere buoni, e forse questo è oggi il mio compito».