Sognano il video del loro funerale
Il video della tragedia della funivia del Mottarone è stato trasmesso dappertutto. E c’è chi ha cavalcato l’onda buttando tutto nel tritacarne: un giornalismo a bassissimo costo, senza approfondimento e ragionamento. Che in quest’epoca di clic cerca visualizzazioni e guadagni
Dunque ecco servito ieri il piatto forte della giornata, il video della tragedia della funivia del Mottarone è stato spalmato dappertutto, peccato che non ci fosse un audio all’altezza ma qualcuno ha pensato bene di incollarci sotto una musichetta mortifera. Il servizio del Tg3 che l’ha sparato in anteprima ci ha incollato sotto una bella etichetta con scritto “esclusiva” e il commentatore ci tiene a sottolineare che «l’impatto non si vede perché avviene dietro la collina».
Il giornalismo fa il giornalismo, sia chiaro, e certo in molte redazioni ci si è confrontati sul pubblicare o meno quelle immagini. Qualcuno ha deciso di farlo provando a spiegare la propria decisione (ma quelle giustificazioni, mi sia permesso di notare con l’antipatia che mi distingue, suonano come un’autoassoluzione piuttosto goffa, abbiate almeno il coraggio di rivendicare il dovere di essere cinici, non inzuccherateci con presunte buone intenzioni), altri invece hanno cavalcato l’onda buttando tutto nel tritacarne e di questi ultimi sarebbe il caso di parlarne.
Esiste un giornalismo a bassissimo costo, senza approfondimento e ragionamento, che prospera in quest’epoca di clic trafugando video da sparare senza nemmeno prendersi la briga di definire il contesto. È un giornalismo che funziona perché risulta fortemente emotivo (negli sfinteri peggiori) e riesce a creare un’onda che si tramuta in visualizzazioni e in guadagni. Gli ultimi istanti dei passeggeri sul Mottarone sono preceduti dalla pubblicità delle crociere, dell’ultimo veloce modello di auto e del gelato estivo: basta l’intenzione per monetizzare, poi il video potete anche non guardarlo tutto.
C’è un altro aspetto: quelli che vomitano il video della tragedia sono gli stessi che hanno suonato la fanfara per i giocatori della Danimarca che facevano scudo pur di non mostrare al mondo il loro compagno a terra. Ancora: sono gli stessi che sono diventati di sale per le parole di Fedez a un concerto del primo maggio. Ancora: sono gli stessi che ora ripetono di gran lena “e allora l’11 settembre?” (c’è sempre un “e allora” in questo Paese buttato lì per non entrare nel merito delle discussioni) senza rendersi conto della differenza tra un fatto storico ripreso in diretta (e i network Usa vietarono la trasmissione di immagini di chi si gettava dalla torre in fiamme o altre pruderie) e un lutto privato sotto inchiesta. Poi c’è la domanda delle domande. Quelle immagini aggiungono qualcosa? Mostrare le persone nei loro ultimi istanti di vita a cosa giova? E poi: avete notato che sono gli stessi che hanno scritto lunghi editoriali sull’anniversario della tragedia di Vermicino e ci hanno spiegato che da lì il giornalismo e la televisione sono caduti in basso? Ma fate davvero?
E poi un ultimo particolare: la Procura ha vietato l’utilizzo di quelle immagini.
Infine la notizia peggiore: certa stampa mostra quello che la gente vuole vedere, è lo specchio di una società. Insomma l’argomento è complesso, va affrontato con complessità, ma ce li vedete questi ad affrontare la complessità?
Buon giovedì.
Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.