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Vietnam

Toh, hanno scoperto la Libia

Da destra accusano Conte di aver fatto troppo poco per i pescatori trattenuti in Libia, dove vengono violati i diritti umani. Ma come, a loro avviso il Paese non era un “porto sicuro”?

«Subito dopo sono stato picchiato dai militari libici, che mi hanno dato schiaffi, calci, ginocchiate. E mi minacciavano di tagliarmi la gola. E le gambe. È stato terribile. Ho avuto paura di non rivedere più la mia famiglia. È stato un incubo durato più di tre mesi». Sono le parole di Bernardo Salvo, uno dei 18 pescatori sequestrati e liberati in Libia. Anche la famiglia di Salvo ha capito guardando le prime fotografie giunte in Italia dopo il sequestro: «Fino ad oggi non abbiamo detto nulla – spiega il cognato Vito – il momento era delicato, ma in quelle immagini si vedono chiaramente il viso gonfio e un braccio nero. Ora vogliamo sapere cos’è successo».

«Abbiamo visto dei detenuti picchiati selvaggiamente», ha dichiarato Jemmali Farhat, uno dei due pescatori tunisini a bordo dei mezzi sequestrati.

«Ci hanno trattati malissimo, non ci picchiavano ma minacciavano di farlo – ha confermato nel suo racconto uno dei due pescatori senegalesi sequestrati -. Gridavano, ci facevano mettere con la faccia al muro. É stato un incubo. Ci facevano fare pipì in una bottiglia».

In tutte le celle che hanno ospitato i marinai non c’era un materasso o un cuscino. I 18 pescatori reclusi, è emerso tra le altre cose nei vari racconti, hanno dormito per terra sul pavimento: «Ho visto film di guerra sul Vietnam, ma quello che ho visto in Libia è stato incredibile – ha aggiunto il tunisino Jemmali Farhat – gli agenti erano peggiori degli animali, sono loro i terroristi, altro che i detenuti».

Cominciano a uscire informazioni su cosa sia la Libia, su come siano valutati lì i diritti umani e una certa stampa e una certa politica grida allo scandalo accusando Conte di non avere difeso i pescatori. Peccato che siano gli stessi che per anni ci hanno detto che la Libia sia un porto sicuro.

E quindi? Come la mettiamo? Hanno scoperto cos’è la Libia. Anzi, peggio, hanno invertito la narrazione perché gli torna comodo. Bravi, tutti.

Buon martedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Recessione e mafie (2). Le nuove frontiere del narcotraffico

di Carlo Ruta

Fin qui emerge un dato di fondo. In tutti i continenti, negli ultimi decenni le economie di origine illegale hanno vissuto i trend dei mercati da protagoniste, correlandosi alle Borse come entità finanziarie imprescindibili. È andato stabilizzandosi per ciò stesso il raccordo delle mafie con i maggiori business, dalla speculazione immobiliare all’industria dei metalli, dalle energie naturali e rinnovabili all’acqua. Le classifiche di Forbes, che hanno visto scalare un gran numero di magnati dell’est europeo e asiatico senza passato, oltre che autentici gangster, ne danno la misura. La crisi attuale rischia di aprire tuttavia scenari nuovissimi. Sta sollecitando infatti degli aggiustamenti nelle economie clandestine più forti: il narcotraffico, il commercio di armi, le tratte degli esseri umani. E gli effetti sul sistema potrebbero essere non da poco. Negli ultimi due decenni, è emerso un incremento di tali traffici su scala mondiale, nonostante le attività contrasto venute dai governi. A dispetto altresì delle iniziative di organizzazioni sovranazionali, a partire dall’Onu, che, per esempio, negli ultimi anni novanta ha sollecitato, per la prima volta, alcuni paesi produttori di sostanze stupefacenti, l’Afghanistan e Birmania per l’oppio, Colombia Perù e Bolivia per coca e cannabis, alla soppressione di tali colture in cambio di aiuti. Ma cosa sta accadendo di preciso in questo tempo di crisi? I dati che vanno rendendosi disponibili, offrono già delle indicazioni, a partire appunto dal narcotraffico.

I ritmi di modernizzazione, più o meno convulsi, dell’ultimo mezzo secolo hanno finito per incentivare il consumo di massa di stupefacenti, naturali e sintetici. Balzi decisivi di tale domanda sono andati correlandosi comunque con snodi particolarmente difficili. E quello di oggi è tale. Come documentano le cronache dell’ultimo anno, la recessione, che si vorrebbe considerare un capitolo chiuso, sta generando precarietà e vuoti di futuro in tutti i paesi, ricchi e poveri. Può essere in grado quindi di interagire a vari livelli con il mercato dei narcotici. È presto beninteso per poter comprendere l’incidenza degli eventi odierni sull’evoluzione del medesimo. Ma alcuni dati che emergono dal terreno, non del tutto concordanti con i numeri che di recente sono stati fatti dall’Unodc, Ufficio dell’Onu che sovrintende alla lotta al narcotraffico, appaiono significativi.

Nel Sud America, capoluogo strategico dei narcos, la crisi globale ha fermato cinque anni di crescita. Sono state colpite le economie del rame, del petrolio, di altre materie prime. È stato penalizzato l’interscambio con gli Stati Uniti. Milioni di persone sono finite quindi in povertà. Il narcotraffico continua però a progredire. Le aree di coltivazione di cannabis e coca lungo le Ande vanno estendendosi, malgrado le politiche di contrasto dei governi. La produzione di oppio ed eroina si conferma in attivo. In tutte le regioni aumenta infine il consumo di narcotici, mentre migliorano le facoltà di produzione di droghe sintetiche. È quanto emerge da un rapporto pubblicato nel marzo 2009 dalla Latin American Commission on Drugs and Democracy, diretta da Fernando Cardoso, già presidente del Brasile, César Gaviria, già presidente della Colombia, Ernesto Zedillo, già presidente del Messico. È quanto affiora altresì da ricerche specialistiche. Nei mesi scorsi, su incarico dell’associazione Libera, un team di economisti delle università di Bologna e Trento è intervenuto sulla situazione in Colombia, passando al vaglio 30 mila dati, oggettivi, tratti soprattutto dagli archivi giudiziari. Ha concluso che nel 2008 sono stati prodotti in quel paese da 2.000 a 4.500 tonnellate di cocaina, a fronte di una stima dell’Unodc di appena 600.

A dare conto delle cose sono altresì le emergenze civili sul terreno, che vengono riconosciute a tutti i livelli. Nelle favelas brasiliane, dove arrivano dalla Colombia grandi quantitativi di stupefacenti, i regolamenti fra bande, spesso con vittime innocenti, hanno raggiunto negli ultimi anni picchi inauditi, malgrado le iniziative di contrasto promosse dalla presidenza Lula. In Messico, anello di congiunzione fra le due Americhe, è stata registrata nel 2008 la cifra record di 6 mila uccisioni per affari di droga, mentre in Guatemala, El Salvatore e Venezuela il tasso di omicidi, nello stesso anno, è salito a oltre 100 per 100 mila abitanti, superiore cioè alla media mondiale di ben 16 volte. Per tali ragioni, il presidente dell’Organizzazione degli stati americani, José Miguel Insulza, ha potuto dichiarare che in Sud America il crimine organizzato uccide più della crisi economica e dell’Aids. Secondo il direttore dell’Unodc, Antonio Maria Costa, tali soprassalti di violenza proverebbero che il mercato della cocaina nei paesi latino-americani va contraendosi. In realtà la storia delle mafie, dalla Chicago anni trenta alla Palermo anni settanta, dalla Colombia degli anni ottanta alla Russia degli anni Duemila, indica che gli scoppi di tensione, pur originati da contesti di crisi e di rottura, recano spesso logiche e significati del tutto differenti, correlandosi con poste in gioco che, proprio in determinati frangenti, anziché ridursi, si fanno più attraenti e remunerative.

Alla luce dei fatti, la situazione non appare insomma rassicurante. Tanto più se si tiene conto delle riserve che proprio in questi mesi vanno manifestandosi in tante sedi, pure governative. Nell’ultimo rapporto del Government Accountability Office la guerra ai narcos sudamericani viene presentata come persa, con l’avallo del vice presidente degli Usa Joe Biden, a fronte dei miliardi di dollari che le precedenti amministrazioni hanno erogato ai paesi produttori. L’Office National Drug Control Policy suggerisce quindi svolte radicali, in senso strategico, a dispetto dei freni che permangono negli States. Il convincimento di una partita persa, che un recente sondaggio ha visto condiviso dal 71 per cento degli statunitensi, si fa largo altresì in America Latina, dove con forza sempre maggiore viene reclamata la sostituzione del paradigma, repressivo dalla produzione al consumo, che finora ha ispirato la lotta al narcotraffico. La Commissione di Cardoso, Gaveria e Zedillo ne indica uno nuovo, proponendo di trattare il consumo di droghe come problema di salute pubblica, con mezzi informativi ed educativi. E su tale linea convergono associazioni e altri alti esponenti della politica, come l’ex presidente del Cile Ricardo Lagos, che suggerisce, più espressamente, di legalizzare la cannabis. Orientamenti di questo tipo non mancano del resto nel governo brasiliano di Lula, oltre che nel Senato colombiano, con le rivendicazioni del liberale Juan Manuel Galan, mentre insiste nel programma di Evo Morales, presidente della Bolivia, l’obiettivo di legalizzare il consumo delle foglie di coca, recante radici etniche, per contrastarne il traffico illegale.

In definitiva, il business delle droghe, in Sud America, sta reagendo agli attuali frangenti con conferme e rilanci che risultano impossibili in altri ambiti. Ma non si tratta di un trend localizzato. Andamenti simili vanno registrandosi in ogni altre latitudini, con economie da narcotraffico che stanno riuscendo a imbrigliare i rovesci dei mercati, forti di una domanda che non demorde, di capitali ingenti e condizionanti, di guadagni che restano sicuri a dispetto della war on drugs.

La recessione in Asia va esprimendosi in modo eterogeneo. In Giappone i collassi della domanda, interna ed estera, corroborati dai crolli borsistici degli ultimi anni, stanno frustrando economie dal passato fiorente. Nei paesi del sud-est, dal Laos al Vietnam, riavutisi dal tracollo del 1997 con un iter espansivo che ha raggiunto cifre da miracolo, si conteranno a fine 2009 2 milioni in più di disoccupati. Perfino in India e in Cina, che per certi versi hanno fatto argine al crollo, con il Pil saldamente in attivo, in virtù pure dei cambi monetari a loro favore, si è avvertita la scossa, con una vistosa riduzione dei ritmi di crescita. Eppure le economie della droga, lungo tutto il continente, stanno mostrando di non temere la crisi. Come in America Latina, contano anzitutto sull’abbondanza del prodotto base: nel caso, sulle coltivazioni di papaveri da oppio che ricoprono l’Afghanistan, la Birmania, il Laos, la Thailandia, il Nepal. L’Onu ha conseguito beninteso dei risultati, soprattutto in Laos e in Birmania, dove nel 2008 sono andate distrutte piantagioni per migliaia di ettari. Ma i dati sul terreno sono ben lontani da annunciare svolte, tanto più se si considera che sono gli stati stessi, interlocutori delle Nazioni Unite, a garantire l’esistente, per il tornaconto, diretto o indiretto, che recano nel business, dal traffico in senso stretto al lavaggio di valute. Le movenze del regime di Than Shwe in Birmania sono nel caso esemplari. Le economie di questo tipo beneficiano comunque di altri fatti: l’aumento di produzione di droghe sintetiche, su scala continentale, e una corrispondente crescita nei consumi delle medesime. Non è poco, evidentemente.

Le amfetamine e le metamfetamine contano oggi su una produzione distribuita in tutti i continenti. E ovunque la domanda è sostenuta dal basso prezzo, dalle mode edonistiche, dagli inarrestabili passaparola, probabilmente pure dal disagio, dal deficit di futuro che è proprio delle crisi. Centri strategici ne sono divenuti diversi paesi dell’Europa, ma ancor più il Canada, in cui si confezionano forse i maggiori quantitativi di ecstasy. La diffusione del prodotto asiatico, corroborata appunto da un sensibile aumento di consumo nel continente, costituisce comunque un sintomo. Si consideri un’area di forte concentrazione, quella del Grande Mekong, infeudata ai gruppi che trattano l’oppio: pakistani, thailandesi, indiani, birmani, cinesi. Lungo tale linea, che dallo Yunnan della Cina percorre l’intero territorio del Laos, con riverberi comunque nello Shan birmano, vengono prodotte, in quantità notevolissime, pasticche di crystal meth e di una variante detta ketamina, destinate in buona misura all’estero. Quale può esserne la logica, in una terra che abbonda fino all’inverosimile di papaveri da oppio? Di certo, non è la prova che le droghe tradizionali stiano entrando in crisi, perché il consumo di oppiacei, di eroina in particolare, nei primi mercati al mondo, l’Europa e il Nord America, proprio non demorde. Potrebbe essere invece l’esito di una studiata diversificazione, legata a un orizzonte di domanda che va ampliandosi, con esiti sempre maggiori nei paesi in via di sviluppo, in favore delle droghe meno costose. Il dato testimonia in ogni caso che le economie degli stupefacenti, anche in contesti di crisi, possono essere mosse da logiche aggiuntive ed espansive. E in altre regioni asiatiche le cose vanno appunto in tale direzione.

Un caso emblematico è quello dell’Arabia Saudita. Diversamente che in Iran e in altri stati vicini, in tale paese il narcotraffico ha incontrato nei decenni passati ostacoli che apparivano irriducibili, di tipo culturale anzitutto, per gli stili di vita che vi reggono, legati alla tradizione islamica. Il controllo ferreo delle frontiere sul golfo Persico ha impedito altresì che i grandi deserti della penisola divenissero corridoi di transito degli oppiacei da Oriente a Occidente, contigui a quelli che collegano l’Afghanistan alla Turchia e all’Europa, attraverso le repubbliche ex sovietiche dell’Asia. Negli ultimi anni le cose sono mutate tuttavia in modo dirompente. L’Arabia Saudita risulta essere uno dei paesi in cui più vengono prodotti e si consumano droghe sintetiche, soprattutto ecstasy e amfetamine del tipo captagon. Prova ne è che nel 2007 ne sono stati sequestrati quantitativi record, pari a un terzo di quelli scoperti globalmente, a fronte dell’1 per cento registrato lungo il perimetro arabo nel 2001. Le droghe sintetiche, ma in una misura discreta pure le tradizionali, dal momento che le sfere di produzione e di distribuzione di massima coincidono, stanno intaccando insomma le frontiere più solide dell’Islam. E, sulla scorta dei dati che vanno emergendo, c’è motivo di ritenere che la recessione, pur trattandosi di aree ben compensate dalle economie del petrolio, stia alimentando tale trend.

Vanno giocandosi in sostanza due partite, congiunte. Le droghe tradizionali formano un mercato stabile, che procede oggi senza scosse, si direbbe in modo ritmico, tanto più nei paesi d’Occidente, dove può contare su un consumo inesausto. Il mercato dei prodotti sintetici, che muove già 100 miliardi di dollari all’anno, circa un terzo cioè del giro d’affari globale delle droghe, si manifesta invece, a fronte di minori investimenti, elastico, veloce, in grado di insinuarsi appunto nei paesi e nelle culture più difficili. Le mappe del narcotraffico vanno aggiornandosi di conseguenza, in favore delle aree e delle mafie che meglio stanno riuscendo a combinare tradizione e innovazione. E tutto questo, riguardo al continente asiatico, in cui la coesione fra i due livelli è probabilmente la più riuscita, evoca un mondo strutturato. Nel Grande Mekong, dove oppio e crystal meth formano appunto un continuum, un’offerta articolata, convergono, come si è detto, interessi molteplici: pakistani afgani, nepalesi, birmani, thailandesi. È decisiva comunque l’influenza delle Triadi cinesi, egemonizzate dalle compagini di Hong Kong e Taiwan: tanto più dopo gli accordi che le medesime hanno concluso con Khun Sha, che nel Triangolo d’Oro fa ormai da decenni le regole dell’oppio, forte di un esercito personale di 8 mila uomini. Il quadro degli interessi, per quanto diviso sul terreno, si dimostra in sostanza aperto. Se i potentati militari del narcotraffico, come nel caso dell’United Wa State Army birmano, usano muoversi infatti in spazi assegnati, perlopiù lungo le linee dei conflitti etnici, le Triadi, servite da un complesso di gruppi territoriali, sono in grado di animare scenari ben più ampi.

Non è possibile definire beninteso quali possano essere gli effetti di tale situazione in questo particolare passaggio. Nuovi balzi in avanti nei traffici da Oriente appaiono tuttavia nell’ordine delle cose, possibili, con guadagni aggiuntivi per i signori del Triangolo d’Oro, ma pure per le mafie potenti che hanno scortato i transiti dell’oppio: da quella russa, che con il narcotraffico ha costruito imperi, oggi stimati e quotati nelle maggiori Borse internazionali, a quella turca, che si potrebbe candidare a nuovi ruoli. È il caso di soffermarsi su questo punto. I boss turchi hanno recato sempre una posizione di prim’ordine lungo le vie dell’eroina che dal sud est asiatico puntano in Europa, attraverso i Balcani. Forti della loro posizione mediana, hanno stretto relazioni con le mafie di ambedue i continenti. Hanno stabilito basi in Iran, in Turkmenistan, in Kazakistan, in altre repubbliche dell’Asia Centrale. Rivendicano, in aggiunta, il dominio delle regioni dell’Asia sud-occidentale, decisi a proiettare la loro egida fino al Golfo Persico, mentre non dissimulano le loro mire egemoniche lungo il Mediterraneo, che potrebbero trovare un appoggio decisivo nell’ingresso di Ankara in Unione europea. Quale nesso può correre allora fra tale progetto di dominio e l’erompere delle metamfetamine in Arabia Saudita, come, probabilmente, in altri paesi del Vicino Oriente? Al momento non è possibile rispondere. Comunque va tenuto conto di un dato: in quelle regioni, penetrate appunto da una solida tradizione islamica, non vengono registrate mafie che per disponibilità finanziarie e, soprattutto, facoltà logistiche possano competere con quelle turche.

In definitiva, non sembra che la recessione abbia preso i gruppi del narcotraffico alla sprovvista, sulla scena globale. I capitalismi “normali” in tempi di crisi vanno in affanno, caracollano, si disorientano. Fatte salve le situazioni di conflitto di taluni paesi, come in Sud America appunto, peraltro cicliche in determinati contesti, quel che emerge nei giri delle droghe è invece la capacità di fare gioco comune. Fatta salva la tradizionale inimicizia fra le Triadi e la Yakuza giapponese, sono appunto le mafie asiatiche a darne esempio, mantenendo oggi, a dispetto di tutto, una integrazione sufficiente. Va preso atto d’altronde che i signori della droga si sono dimostrati previdenti, agendo d’anticipo sulla crisi, diversificando, delocalizzando, puntando alla conquista di nuove aree, di produzione e di consumo, stabilizzando infine i mercati fondamentali, con ogni sorta d’incentivo. L’ultimo decennio ne offre una rappresentazione scenografica con la conquista, pianificata dai sudamericani e non solo, di un intero continente, che era rimasto a lungo marginale nei traffico di narcotici: l’Africa.

L’esotico silenzio colpevole: la morte “giusta”

pena-di-morte-amnesty-internationalROMA  – C’é sempre meno lavoro per i boia della maggior parte del mondo, ma ancora troppo, concentrato in un piccola parte di esso. Se due terzi dei Paesi del pianeta hanno abolito la pena di morte e solo 25 di 59 di quelli che ancora la mantengono hanno eseguito condanne capitali nel 2008, é vero che il 93% di tutte le esecuzioni è avvenuto in cinque paesi: Cina, Iran, Arabia Saudita, Pakistan ed Usa. E’ una fotografia più luminosa del passato quella scattata da Amnesty International nel rapporto sulla stato della pena di morte del 2008 che mette in luce una tendenza generale positiva, oscurata comunque dal fatto che ogni giorno sono state giustiziate una media di sette persone, per un totale di 2390 messe a morte in 25 paesi. Per contrasto al continente asiatico – che concentra il record di esecuzioni con la Cina che da sola ha messo a morte più persone che il resto del mondo nel suo complesso (1718 su 2390) – spicca l’Europa dove è rimasta solo la Bielorussia a ricorrere ancora alla pena di morte. “La buona notizia è che le esecuzioni hanno luogo in un piccolo numero di paesi.

Questo dimostra che stiamo facendo passi avanti verso un mondo libero dalla pena di morte. La brutta notizia, invece, è che centinaia di persone continuano a essere condannate a morte nei paesi che ancora non hanno formalmente abolito la pena capitale”, ha dichiarato Irene Khan, segretaria generale di Amnesty International in occasione della diffusione del Rapporto. Dopo l’Asia, dove 11 paesi continuano a ricorrere alla pena di morte (Afghanistan, Bangladesh, Cina, Corea del Nord, Giappone, Indonesia, Malaysia, Mongolia, Pakistan, Singapore e Vietnam) il secondo maggior numero di esecuzioni, 508, è stato registrato in Africa del Nord e Medio Oriente. In Iran sono state messe a morte almeno 346 persone, tra cui otto minorenni al momento del reato, con metodi che comprendono l’impiccagione e la lapidazione. In Arabia Saudita, le esecuzioni sono state almeno 102, solitamente tramite decapitazione pubblica seguita, in alcuni casi, dalla crocifissione. Nel continente americano solo gli Stati Uniti d’America hanno continuato a ricorrere con regolarità alla pena di morte, con 37 esecuzioni portate a termine lo scorso anno, la maggior parte delle quali in Texas. Il rilascio di quattro uomini dai bracci della morte ha fatto salire a oltre 120 il numero dei condannati alla pena capitale tornati in libertà dal 1975 perché riconosciuti innocenti.

L’unico altro stato in cui sono state eseguite condanne a morte è stato Saint Christopher e Nevis, il primo dell’area caraibica ad aver ripreso le esecuzioni dal 2003. Nell’Africa sub-sahariana, secondo dati ufficiali, sono state eseguite solo due esecuzioni, ma le condanne a morte sono state almeno 362. Quest’area ha registrato un passo indietro, con la reintroduzione della pena di morte in Liberia per i reati di rapina, terrorismo e dirottamento. “La pena capitale non è solo un atto ma un processo, consentito dalla legge, di terrore fisico e psicologico che culmina con un omicidio commesso dallo stato. A tutto questo deve essere posta fine”, ha sottolineato Khan.

dal sito ANSA