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Violenza

Il razzismo in divisa ha ammazzato ancora: e ora, caro Trump, è il momento di provare vergogna

È successo ancora. Succederà ancora. Come quando accade un incidente, che ne so, di un treno e tutti i giornali si mettono a scovare i più piccoli disguidi dei viaggi dei treni, così negli USA si moltiplicano le segnalazioni e le notizie delle violenze della polizia sua afroamericani. Solo che in questo caso Manuel Ellis è morto, a soli 33 anni, dopo un pestaggio violento in cui la divisa è solo un elemento scenografico di un pestaggio della peggior specie, niente a che vedere con il ruolo pubblico e la responsabilità che ci si aspetterebbe da un tutore della legge. È morto perché, dicono i poliziotti, ha aggredito lui per primo, come nelle risse fuori da scuola in cui la legge del taglione o l’abuso di una difesa sia una cosuccia normale da giustificare come un incidente di percorso.

Eppure che Manuel Ellis sia stato ammazzato lo dice chiaramente il medico legale e ora altri quattro poliziotti, dopo il caso Floyd, si ritrovano sotto i riflettori per l’uso sconsiderato della forza. Se sei nero, dalle parti degli USA, rischi di essere processato per direttissima dalle suole delle scarpe di chi dovrebbe garantirti giustizia.Il video rimbalzato sulle pagine del New York Times lascia poco spazio ai dubbi e infervora ancora di più una protesta che ha assunto proporzioni più ampie del solo sdegno per una morte. Oggi negli USA si critica uno sdoganamento della violenza come mezzo per controllare l’ordine pubblico e che la violenza chiami solo violenza è uno di quegli insegnamenti che di solito vengono dati fin da bambini e che hanno chiaro quasi tutti, escluso il presidente del Paese più potente del mondo.

Ora il giochetto sarà sempre lo stesso, quello che non è solo americano: lamentarsi per lo spirito poliziottofobico dell’opinione pubblica e per il troppo spirito indagatore dei media. Di solito quando un potere non riesce a fare smettere che accada una vergogna si concentra sul non farla raccontare, come se potesse funzionare un silenzio omeopatico che vorrebbe fare sparire i fatti. Di certo Manuel Ellis è morto e anche di questo cadavere qualcuno dovrà rispondere. Tra l’altro Trump ha anche la sfortuna che l’omicidio sia avvenuto ben prima delle proteste (sarebbe stato fin troppo facile dare la colpa ai contestatori) e ora dovrà inventarsi qualcosa di nuovo, probabilmente di stupido. E l’aspetto peggiore di tutta la vicenda è che probabilmente lo farà presto e senza nemmeno troppa fatica e troppa vergogna.

Leggi anche: 1. “Non riesco a respirare”. L’arresto, le botte: così è morto Manuel Ellis. Ricostruzione del caso / 2.Il sindaco di Minneapolis si inginocchia e piange davanti alla tomba di George Floyd | VIDEO/3.George Floyd, il rapper Kanye West dona 2 milioni di dollari e paga l’istruzione della figlia Gianna/4. Il video postumo di George Floyd, lo straziante appello ai giovani sulla non violenza

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Bibbia in mano, mascherina abbassata: quei simboli branditi per coprire il vuoto politico

È un neo-simbolismo furioso e coprente, solo che copre il vuoto, copre il niente che c’è sotto e tutta una serie di commentatori finiscono per analizzare il cerotto dimenticandosi che sotto c’è il nulla. È un neo-simbolismo che attraversa la politica internazionale e si appiattisce sulla comunicazione veloce che è solo un vomito di spot (e no, non è colpa dei social, lancerebbero le loro tiritere anche solo nei dieci secondi montati in qualche tg nazionale, allo stesso modo) e che ha bisogno di rendersi riconoscibile. Qualcuno dice “indossate le mascherine” e loro non indossano le mascherine, qualcuno protesta dall’altra parte del mondo per un razzismo cancellato solo sulla carta e Trump risponde con i poliziotti a cavallo e la Bibbia in mano, qualcuno lamenta le morti nere in mare (che chissà perché valgono meno dei morti sotto le ginocchia) e qualcuno risponde sferragliando il rosario, alcuni dettano una regola e altri violano le regole rivendicando la violazione come eroico dissentimento.

Da Salvini con la mascherina abbassata a Bolsonaro che si assembra fino a Trump che invoca i proiettili, la politica di questi giorni è tutta una lava di gesti brevi e di metafore belliche che non rispondono a una che sia una delle questioni che sono sul tavolo. Trump risponde alla violenza invocando ancora più violenza e poi lamentandosi della violenza degli altri: rispondere a una questione complessa con uno spot di qualche parola è più da incapaci che irresponsabili. I Gilet Arancioni invocano un complotto mondiale ordito per mettere in scena una finta pandemia ma non si capisce chi ci stia guadagnato e che cosa: a domanda non rispondono, sono i soliti poteri forti. Bolsonaro in Brasile ci avvisa che tanto “moriremo tutti” prima o poi: mo’ me lo segno, grazie per l’illuminante rivelazione.

Dovunque si gratti non ci sono mai soluzioni, una che sia una. Esistono solo per contrapporsi senza nemmeno sentirsi in dovere di proporre un’alternativa. Chiedete a Trump, Salvini o Bolsonaro quale sia la via per vincere: l’eliminazione degli avversari. Solo quello, solo così, come dei ragazzini che giocano a battaglia navale sul tavolo della cucina. Vivono solo di riflesso dei loro nemici, se glieli togli balbetterebbero per ore di riforme che li mostrerebbe per quelli che sono: muri, condoni, preghiere mimate, sostegno ai più forti, calpestamento dei più deboli. Modelli economici impraticabili e culto di se stessi. Sono il niente mischiato con niente che usa i simboli per nascondere le proprie pudenda.

Leggi anche: 1. Per la Festa della Repubblica in piazza ci vanno i nemici della Repubblica (di Marco Revelli) / 2. Roma, gilet arancioni in piazza del Popolo senza protezioni. Pappalardo: “Abbracciatevi!”. Troupe di La7 aggredita in diretta 

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«Ecco perché io non ho denunciato. Perché si riaprono continuamente le tue gravi ferite»

Una storia raccontata con cura gentile dalla penna di Linda Laura Sabbadini per La Stampa:

 

È difficile per una donna parlare di violenze subite, soprattutto se stupri. Marianna mi ha chiesto di farlo, vuole parlarne perchè la sua esperienza possa aiutare altre donne. Marianna ha subito uno stupro dal suo fidanzato. Aveva 22 anni, era felice, solare come tante ragazze della sua età. Studiava all’Università, amava molto l’architettura.

 

Conosce un ragazzo, si fida di lui, comincia una storia d’amore, almeno così lei credeva. All’inizio tutto sembra andare per il meglio, ma con il passar del tempo la situazione peggiora. «Non voleva che mi vestissi con le gonne corte. Poi mi vietava di frequentare alcuni amici». Tu sei mia diceva. La storia degenera un giorno, quando Marianna si rifiuta di avere un rapporto sessuale, e con sua terribile sorpresa viene stuprata dal suo fidanzato. Una esperienza dolorosissima. «Non sono riuscita a reagire in quel momento. E non potete capire quanta rabbia ho ancora dentro per questo. Ero senza forze, senza energie. E dopo non volevo parlarne con nessuno». Qualche giorno dopo succede di nuovo. E allora, completamente svuotata, distrutta, riesce a trovare la forza di scappare dai suoi fratelli.

 

 

La fuga

«Ma non me la sentivo di denunciarlo, troppo doloroso raccontare, troppo pesante spiegare tutto,dimostrare che non ero consenziente». Chiede ai fratelli di tenere lontano il fidanzato, «Lo lascio per telefono, lui urla, strepita, piange, si dispera, ma io non accetto l’ultimo appuntamento e dopo pochi giorni me ne vado distrutta in un’altra città, ospite di una mia lontana parente, per evitare di incontrarlo. Ma non ero più la stessa». Violata nel profondo,violata nell’anima, nel cuore, violata nella più profonda intimità. Si sentiva annullata. «L’ansia mi assaliva continuamente, pianti disperati, incubi la notte, l’insonnia, la nausea permanente, la rabbia dentro di me, i tremori , avevo paura di tutto e poi, non mi fidavo più di nessuno. Sembra non ti interessi più nulla della vita… Tu sei il nulla». Lei, con un carattere sempre aperto al mondo, si rinchiude in se stessa, diventa timorosa, fragile. Non si apre con nessuno, chiusa nel suo guscio. «Volevo dimenticare. All’inizio pensavo che fosse la cosa migliore, ma più stavo in silenzio, più stavo male, il silenzio mi isolava dagli altri. Ho incontrato anche ragazzi carini, gentili, ma non riuscivo più a fidarmi di loro. E ancora non riesco a innamorarmi. Ho paura». A un certo punto decide di tornare nella sua città, si sentiva troppo sola, e di raccontare tutto alle sue amiche con cui non aveva più avuto contatti.

 

La rinascita

«E’ stato l’inizio della mia rinascita. Trovare loro così vicine, così comprensive, così piene di complicità e di umanità, è stata la cosa più bella della mia vita. Mi ha dato tanta forza per ricominciare. Loro mi hanno convinto ad andare da una psicologa, con loro ho cominciato a rivivere momenti spensierati, anche se lo stupro ti lascia un segno indelebile di morte nel cuore». La vicinanza di altre donne è fondamentale dopo uno stupro. Ridà la forza di vivere quando tutto sembra finito, Per questo i Centri antiviolenza tengono molto a questo aspetto. Marianna non ha denunciato il suo ex fidanzato. «Non ce l’ho fatta, mi sono risparmiata il doloroso iter delle denunce, delle pressioni che una donna subisce anche dalla famiglia per ritirarle, dei processi. Lo so, così il mio fidanzato non è stato né denunciato, né condannato. Ma non potevo soffrire ulteriormente». E mi racconta di Adele, che lei ha conosciuto dalla psicologa ed è diventata sua amica: «Quando si è recata al commissariato del suo paese per denunciare gli stupri ripetuti di suo marito non è stato facile per lei. La sua famiglia la pressava per non denunciare, per rimettersi insieme a lui. L’appuntato le chiedeva se era proprio sicura di quello che diceva, che in fondo era il marito. Adele si sentiva sola contro tutti. E il processo… i dettagli, le domande indiscrete, gli ammiccamenti… le pressioni a ritirare la denuncia… un vero incubo. Ecco perché io non ho denunciato. Perché si riaprono continuamente le tue gravi ferite. Nessuno può capire realmente quanto tu possa soffrire».

 

Parlare, parlarne, in continuazione, fra donne, con gli uomini, tanto con i figli e con le figlie, senza paure, senza vergogna, parlare anche se non e’ toccato a te, né alla tua famiglia, ma ad una che non conosci. Tessere una rete di solidarietà femminile, di valori condivisi, di stigmatizzazione sociale inappellabile, di ogni per quanto piccolo atto di sopraffazione del bimbo sulla bimba, del ragazzo sulla ragazza, dell’uomo sulla donna. Dai piccoli atti di prevaricazione, di non rispetto dell’altra, quelli su cui in genere si soprassiede germina e si ramifica la subcultura della pretesa superiorità maschile, e della donna come sua proprietà, quella che porta molti ad oltrepassare la soglia della violenza, e alcuni dello stupro. Su questo terreno siamo indietro uomini e donne, ed è ora che a partire dalle donne il nostro sguardo esprima con chiarezza la nostra collera. Marianna e le donne colpite ce lo chiedono.

(fonte)

Quando l’italofobia era l’isteria collettiva

Fa bene ricordare, allenare la memoria. Per questo torna utile l’articolo di Giovanna Nuvoletti per La Rivista Intelligente:

Per decenni gli americani bianchi, i discendenti dei coloni, hanno odiato gli italiani in maniera feroce e sistematica. Dalla fine del XIX secolo agli anni ’30 del XX siamo stati probabilmente i più detestati e temuti.
Sbarcati a milioni, alla lettera, ci chiudevamo nelle nostre comunità, spesso ostaggi di connazionali che ci vendevano come schiavi di fatto. Non imparavamo la lingua, non mandavamo i bambini a scuola (ma a lavorare o a mendicare), rifiutavamo le nuove usanze e coltivavamo le nostre incomprensibili tradizioni.
Intorno al 1920 a New York arrivavano così tante navi da intasare il porto. Intercettate al largo, le imbarcazioni provenienti dall’Italia venivano dirottate verso Boston.
Eravamo classificati come “negroidi”: troppo vicini all’Africa, si diceva, per non avere “sangue negro” nelle vene. Prova ne fosse il colorito olivastro che TUTTI avremmo avuto.
Venivamo considerati un pericolo subdolo: a differenza di neri, asiatici e ispanici, gli italiani dalla carnagione più chiara potevano essere scambiati per bianchi, a un esame superficiale, quindi per noi era più facile “contaminare la razza bianca”.
Un italiano che intrattenesse una relazione con una donna bianca rischiava il linciaggio, come i neri.
Il Ku Klux Klan ci equiparava in tutto e per tutto ai neri: da impiccare al minimo pretesto, così prima o poi avremmo capito di restare a casa nostra.
Negli stati del sud ancora oggi perdura la convinzione che siamo non-bianchi, al pari degli ispanici.
[Nel 1973 Nixon, poco prima di essere spazzato via dallo scandalo Watergate, disse che eravamo diversi da loro, ci vestivamo in modo strano, puzzavamo di aglio ed era impossibile trovarne uno onesto.]

Immigrazione senza controllo
Immigrazione senza controllo

Anche gli altri immigrati ci odiavano. Accettavamo salari e condizioni di lavoro che ormai irlandesi, olandesi e francesi rifiutavano. Avevamo sostituito i neri nelle piantagioni, mandavamo all’aria le prime contrattazioni sindacali.
I meridionali soprattutto erano considerati “inadatti a imparare o mantenere qualsiasi lavoro, inclini per natura alla violenza”, incompatibili con lo stile di vita americano. Per un certo periodo siciliano o napoletano è stato sinonimo di “feroce bandito”.
Peccato che, per i loro esperti, il meridione cominciasse a Padova. Sotto Padova, tutti mafiosi; sopra Padova, invece, biologicamente stupidi, mentalmente inferiori al resto d’Europa.
Contro nessun altro si è scatenata una simile campagna di odio. Si arrivò a una vera e propria italofobia. Il principale veicolo di diffusione fu la stampa, sia quella ufficiale che quella clandestina, creata apposta per perseguitarci. Contro nessun altro è stata adoperata una tale mole di articoli denigratori, vignette insultanti, perfino canzoncine.
Ci rubano il lavoro, stuprano le nostre donne, non si vogliono integrare, corrompono il nostro spirito, si diceva. Chiudiamo le frontiere, bombardiamo le navi al largo, lasciamoli marcire nei porti, non facciamogli toccare terra, scrivevano i giornali.
Professano una strana religione, si insisteva, che niente ha a che fare con i nostri valori. Un misto di paganesimo e superstizione, impossibile da sradicare.
Eravamo raffigurati come orrendi sorci che nuotavano verso la riva con il coltello tra i denti. Venivano mostrati gli “argomenti” migliori per trattare con noi: gabbie, randelli, corda e sapone.
Giravano saporite barzellette: sapete quando un italiano vede il sapone per la prima volta? Quando lo impiccano

Tampa 1910 - Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati
Tampa 1910 – Costanzo Ficarotta e Angelo Albano linciati

Ammazzare un italiano era di fatto tollerato. Bastava dire: “Mi ha aggredito lui” e la legittima difesa era scontata. Nemmeno si arrivava al processo. Caso chiuso.
Se vittima e assassino erano entrambi italiani, il disinteresse era quasi totale: finché ci ammazzavamo tra di noi andava bene.

(continua qui)

Così marcisce Serracchiani

Il buongiorno di oggi è un pessimo giorno. Debora Serracchiani (ve lo ricordate?) era quella che avrebbe dovuto ringiovanire il Pd, tempo addietro, con spirito fresco e nuovo. Ha raccolto migliaia di preferenze, stupendo tutti (chissà perché il “nuovo” è di per sé un valore, ma questo è un discorso lungo) e ci si aspettava che potesse davvero svecchiare le più vecchie liturgie. E invece no. Anzi: e invece peggio.

Ha cambiato davvero il corso del Pd, ma verso il dirupo della destra mascherata. Basta leggere le sue parole. Ecco qui. Comunicato stampa di ieri (è qui):

Udine, 10 maggio – “La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese”.

Lo ha affermato la presidente del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani, commentando il tentativo di stupro subìto da una minorenne ieri sera a Trieste da parte di un cittadino iracheno richiedente asilo.

Per Serracchiani “in casi come questi riesco a capire il senso di rigetto che si può provare verso individui che commettono crimini così sordidi. Sono convinta che l’obbligo dell’accoglienza umanitaria non possa essere disgiunto da un altrettanto obbligatorio senso di giustizia, da esercitare contro chi rompe un patto di accoglienza. Per quanto mi riguarda, gesti come questo devono prevedere l’espulsione dal nostro Paese, ovviamente dopo assolta la pena. Se c’è un problema di legislazione carente in merito – ha aggiunto Serracchiani – bisogna rimediare”.

 

(continua su Left)

Benetton, la violenza e le terre dei Mapuche

Succede nella provincia di Chubut, in Argentina. La comunità Mapuche di Cushamen è stata vittima delle violenze della polizia contro i manifestanti che mercoledì chiedevano l’annullamento della compravendita dei loro terreni (abitati da secoli) tra lo Stato e la Benetton.

La denuncia arriva da numerosa comunità internazionali (tra cui Amnesty International) che lamentano  “un’azione da parte della polizia che non trova nessuna correlazione con la realtà” per la brutalità con cui su è rovesciata sui cittadini inermi. “Opacità, la mancanza di trasparenza e di responsabilità non possono essere i principi che attraversano la gestione della polizia” ha dichiarato Mariela Belski, direttore esecutivo di Amnesty International Argentina in un comunicato.

I Mapuche da due anni protestano per un accordo che gli ha scippato le terre in cui vivevano da secoli a favore di Luciano Benetton che in Patagonia, con l’aiuto della politica, si è già comprato qualcosa come un milione di ettari di terreno.

Ma questa notizia, vedrete, difficilmente la leggerete dalle nostre parti. Troppa pubblicità in ballo e poi da noi le violenze da quelle parti interessano pochissimo. Anche se vengono perpetrate in nome di un colonialismo tutto italiano.

Qui trovate la notizia e, se volete, qui c’è la pagina Facebook della comunità in lotta.

Twitter, il fango, le offese, De Luca e il mondo reale

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Quindi oggi è stata la giornata dell’indagine contro il “sistema d’odio” del Movimento 5 Stelle su twitter (e invece l’indagine non c’è) e poi del solito De Luca che si conferma uomo di bassissimo spessore. Se avete tempo e voglia ne ho scritto qui (sulla presunta Spectre grillina) e qui su De Luca. Ma adesso che è sera vorrei spendere un minuto per parlare d’altro.

Viaggio da mesi per la campagna referendaria in vista del prossimo 4 dicembre. Lo faccio da convinto sostenitore del No (ah, qui trovate i miei appuntamenti) e come tutti mi ritrovo a scriverne qui sul blog e sui miei social. Mentre tra twitter e Facebook (ma anche su certa cattiva informazione) si infiamma la propaganda più violenta (e mendace) durante i miei dibattiti con sostenitori del sì (sarò stato fortunato io, probabilmente) mi son sempre ritrovato a discutere della riforma, delle modifiche articolo per articolo e delle diverse visioni politiche. Tutto molto tranquillamente. Tutto molto serenamente. E anche quando le distanze sono incolmabili il clima è comunque di ragionevolezza.

Ecco, ci tenevo a dirlo. Perché a viverla, questa campagna referendaria, sembra che tutti gli imbecilli poi non esistano nella vita reale. Chissà perché.

L’esercito in citta? «è un sedativo sociale, in grado di rassicurare sul brevissimo periodo e a dosi minime»

Persone di cui tenere il nome in tasca: Roberto Cornelli, professore di Criminologia, ex sindaco di Cormano e ex Segretario di Milano Città Metropolitana per il PD. Ecco cosa scrive sulla questione milanese (di eserciti, violenza e tutto il resto):

«Un’avvertenza in premessa: sono discorsi difficili, forse non adeguati al mezzo che sto usando. Ma se non si prova a farli anche qui (oltre che nelle aule universitarie e nelle sedi scientifiche internazionali) temo che si perda un’occasione. 

Nelle metropoli talvolta capita che ci si uccida, all’incrocio di una strada come tra i muri di casa. A Milano capita molto più raramente che in altre metropoli d’Europa e del mondo. Ma quando capita la tragedia irrompe, travolgendo chi ne è coinvolto, i familiari, gli amici e la società intera, che rimane scossa dalla propria vulnerabilità e per la propria impotenza.
Che fare? Innanzitutto, ci si deve capire qualcosa di ciò che sta accadendo, e la tragedia, per essere comprensibile, deve avere un senso rispetto alla vita che quotidianamente conduciamo.
Ma che senso può avere per tutti noi l’uccisione di un uomo ad opera di un altro uomo?
Sono convinto che un omicidio che accade sia capace di scuotere profondamente le nostre fondamenta sociali, riportandoci ogni volta a temere ciascun altro come un potenziale nemico. Da qui la ricorrente richiesta di aumentare le protezioni, di moltiplicare i presidi di controllo, di militarizzare il territorio, di ritenere sicuro solo il mio spazio personale privatizzato.
Sono convinto però che un omicidio che accade possa spingerci anche a riflettere sul fatto che nella storia, quella vicina e quella lontana, gli uomini hanno smesso di uccidersi tra loro quando hanno iniziato a collaborare e, collaborando, a imparare sempre nuove modalità di relazionarsi con gli altri che prescindessero dall’uso della violenza. E’ un po’ come quando i bambini in età prescolare apprendono a convivere senza aggredirsi fisicamente, con drammi e fatiche immense (loro e di quelli che stanno loro intorno), e alla fine moltissimi ce la fanno. Gli uomini hanno iniziato a uccidersi sempre meno tra loro quando hanno imparato a stare in società quando gli atteggiamenti che hanno adottato e le istituzioni che si sono dati hanno potenziato il rispetto reciproco (non a caso nelle democrazie consolidate il tasso di omicidi è mediamente più basso).
Così, l’omicidio che accade entra in un’altra trama di significati, in cui proprio la paura di ripiombare in società violente ci spinge a ridare valore a un progetto di società che vede nell’affermazione della dignità di ogni persona un ancoraggio saldo per evitare che le tragedie diventino normalità.
Evidentemente non ho parlato di politiche di sicurezza, ma ritengo che sia proprio a partire da questa opzione culturale che si possa provare a reagire alle emergenze con progetti strutturati ed evitando di ricorrere sempre e solo a “sedativi sociali”, tanto facili quanto spesso inefficaci.

Sintesi per la stampa: la richiesta dell’esercito è un sedativo sociale, in grado di rassicurare sul brevissimo periodo e a dosi minime (se non diventa cioè una richiesta ricorrente). Per il resto (per ridurre la violenza o assicurare alla giustizia gli autori) serve a ben poco. Può essere addirittura dannoso se concepito come LA soluzione.»

 

Gli abusi sugli uomini

Un gran pezzo di Igiaba Scego:

Nell’ottobre del 2011 una ragazza di 19 anni, Grace Brown, ha un’intuizione. Grace studia fotografia e le piace uscire con gli amici. È giovane, allegra, disinvolta e ha tutta la vita davanti a sé. Una sera, un sabato sera come un altro, un’amica le racconta qualcosa a cui non era preparata. Le racconta di un’aggressione sessuale che ha subìto. Grace Brown ascolta con attenzione il racconto dell’amica.

Purtroppo non è la prima volta che le capita di ascoltare la storia di un’aggressione. Ma ogni volta si stupisce. Non si sente preparata. Ogni volta è totalmente spaesata nell’udire un racconto così terribile e intimo insieme. Grace Brown si rende subito conto ascoltando l’amica che la sua brutta esperienza non è un caso isolato e che succede ogni giorno a tante, troppe persone. La sera finisce, il sabato diventa già domenica, e Grace va a dormire. Ma la storia della sua amica non l’abbandona. Succede a troppe persone, troppe persone, troppe…

Ed ecco che quel pensiero quasi ossessivo di Grace, condito da rabbia e voglia di cambiare il mondo, partorisce Project unbreakable, ovvero come – attraverso la fotografia – dare spazio e voce a chi ha subìto aggressioni sessuali, violenza domestica, abusi di vario genere.

All’inizio per Grace non è facile convincere le persone a esporsi. Ma poi con il tempo tutto è diventato molto naturale. Donne e uomini hanno cominciato ad aprirsi con lei: oltre a metterci la faccia, tutti e tutte hanno aggiunto una frase legata a quel momento di violazione profonda. E la frase, riportata su cartelloni neutri con pennarelli neri o blu, spesso era quella detta da chi aveva commesso un abuso sul loro corpo. Le frasi del carnefice.

Da Project unbreakable: “Nessuno ti amerà, nessuno si occuperà di te, ora sei guasto” – Il mio aggressore. - Tumblr

Da Project unbreakable: “Nessuno ti amerà, nessuno si occuperà di te, ora sei guasto” – Il mio aggressore. (Tumblr)

Le foto sono molto potenti nella loro semplicità. La persona guarda senza paura dritto dentro l’obiettivo, rivendica il suo essere persona, la sua umanità ferita, umiliata, vilipesa, ma non vinta o almeno non del tutto sconfitta. C’è forza in queste giovani donne e in questi giovani uomini. Forza nella loro postura, nel loro modo di sfidare l’ipocrisia latente che un tempo avrebbe costretto persone in questa situazione al silenzio.

Loro parlano. I loro corpi parlano. Non c’è solo indignazione o rabbia. C’è voglia di andare oltre, oltre se stessi e il mondo che non li sta ancora capendo.

Le violenze su uomini e ragazzi sono sempre esistite. Solo che non ne parliamo quasi mai. La sola idea ci disturba, ci disorienta

Personalmente sono stata colpita dalle foto dei ragazzi. Soprattutto di due di loro, di Montclair, nel New Jersey. Con candore e un atteggiamento di sfida affrontano non solo la violenza, ma anche il tabù che non vuole vedere dei “maschi” vittime di violenza sessuale.

“Non volevo ferirti”, c’è scritto in un cartello, “Sei così bello”, dice l’altro cartello e il ragazzo aggiunge in basso, con una scritta più piccola (e chissà quanto gli sia costata quell’aggiunta) “dopo averlo fatto”. Frasi inquietanti. Frasi che fanno male. Frasi apparentemente normali, dette da chi stava umiliando i loro corpi. Eccoli i due giovani del New Jersey che con coraggio si offrono all’obiettivo amico di Grace. Due giovani uomini si denudano davanti a noi di un ruolo, quello dell’uomo forte che non si spezza mai, che la società gli ha cucito addosso. Due ragazzi del New Jersey rompono un silenzio durato secoli.

Le violenze sugli uomini e sui ragazzi sono sempre esistite purtroppo. Solo che non ne parliamo quasi mai. La sola idea ci disturba, ci disorienta. C’è un velo spesso che copre tutto questo. Ed è così che chi è vittima non solo non trova giustizia, ma non ha la possibilità di fare un percorso che lo aiuti a elaborare il dramma che ha vissuto.

Chi era il padre di Edipo?
La prima volta che mi sono resa conto che anche gli uomini subivano violenza ero nella primissima adolescenza e mi trovavo in una biblioteca comunale. Avevo visto dei film sul carcere, ma non li avevo messi davvero a fuoco. Poi c’è stata la biblioteca e un vecchio libro sbrindellato dalla copertina rigida, una copertina marrone mi pare. Il libro era un compendio sugli dèi, gli eroi, i comprimari della mitologia greca. Io adoravo soprattutto la storia di Giasone e il vello d’oro. Ma devo dire che le avventure di Minerva e Diana non erano affatto male.

Erano strani dèi quelli dell’Olimpo greco. Irosi, egoisti, tutti presi dalle loro pulsioni primarie. Alcuni poi erano proprio antipatici, a dir la verità. La storia che più mi inquietava era quella di Edipo. Anche chi non conosce a fondo quei miti conosce Edipo, forse per la famosa sindrome legata al suo nome. Il suo, di fatto, era un destino infame: uccidere il padre e giacere con la madre. Difficile dimenticarlo.

Ma del padre ucciso, che si era attirato l’ira degli dèi, sapevo/sappiamo qualcosa?

È in quel libro marrone che scoprii, con sgomento, che Laio, ovvero il padre del futuro Edipo, trasgredendo a ogni regola di ospitalità, amicizia e onore, rapisce e abusa del giovane figlio del suo ospite Pelope. Crisippo, questo il nome del ragazzo, in alcune versioni è un adolescente, in altre (quella di Euripide per l’esattezza) un bambino. Sta di fatto che questa storia terribile fu lo svelamento di un’autentico buco nero di cui non sospettavo l’esistenza.

Succede anche a loro, pensai. E questo pensiero mi addolorò.

Con il tempo ho imparato che intorno alla violenza sugli uomini circolano numerosi miti, e molte associazioni che tutelano le vittime fanno fatica a sfatarli. Nella vulgata corrente molti ritengono che gli uomini non possono essere vittime di abuso e se lo sono devono essere gay o trans. Sbagliato. Gli uomini, a prescindere dal loro orientamento sessuale, possono essere vittime di abuso o violenza. L’uomo può diventare vittima a qualsiasi età, può avere qualsiasi aspetto, essere di qualsiasi colore, può essere etereo, gay, transgender, avere dimensioni corporee di qualsiasi tipo.

Da Project unbreakable: “Sei gay. Questo dovrebbe piacerti “. Uno dei miei migliori amici, prima di picchiarmi con un cavo elettrico per farmi stare fermo. Io avevo 13 anni, lui 14. Una settimana prima gli avevo detto di essere gay. - Tumblr

Da Project unbreakable: “Sei gay. Questo dovrebbe piacerti “. Uno dei miei migliori amici, prima di picchiarmi con un cavo elettrico per farmi stare fermo. Io avevo 13 anni, lui 14. Una settimana prima gli avevo detto di essere gay. (Tumblr)

È sbagliato pensare che l’uomo sia protetto dal solo fatto di essere uomo, non è detto che un uomo possa difendersi da un’aggressione. Inoltre, al pari delle donne, gli uomini possono essere manipolati psicologicamente durante la violenza. Possono avere un’erezione o una eiaculazione del tutto meccanica, a volte anche un orgasmo, ma questo non significa che lo abbiano voluto o peggio che abbiano cercato la loro tortura. Inoltre ci sono varie forme di abuso e gli uomini oltre a essere vittime di altri uomini sono anche vittime delle donne.

In quasi tutto il mondo sono in aumento le denunce. Anche perché ci sono state numerose campagne per rompere il silenzio su queste aggressioni. Basti pensare all’associazione Survivors Manchester che ha lottato per far includere gli uomini vittime di abusi come beneficiari dei fondi destinati dal governo britannico alla violenza di genere. La campagna Break the silence mette a disposizione degli utenti una guida prodotta e scritta da uomini che hanno avuto queste esperienze e che vogliono condividere non solo le loro storie di dolore, ma vogliono dare una guida pratica sugli aspetti legali e medici della situazione che hanno dovuto vivere. Nella guida vengono decostruite parole come colpa o vergogna, amore e violenza.

(continua su Internazionale qui)

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai.

Da leggere Igiaba Scego, fino in fondo:

«Ma qui in occidente ogni musulmano è potenzialmente colpevole, ogni musulmano è considerato una quinta colonna pronta a radicalizzarsi. Il fatto non solo mi offende, ma mi riempie anche di stupore. Sono meravigliata di quanto poco si conosca il mondo islamico in Italia. L’islam è una religione che conta più di un miliardo di fedeli. Abbraccia continenti, paesi, usanze diverse. Ci sono anche approcci alla religione diversi. Ci sono laici, ortodossi, praticanti rigorosi, praticanti tiepidi e ci sono persino atei di cultura islamica. È un mondo variegato che parla molte lingue, che vive molti mondi. Andrebbe coniugato al plurale.

Il mondo islamico non esiste. È un’astrazione. Esistono più mondi islamici che condividono pratiche e rituali comuni, ma che sul resto possono avere forti divergenze di opinioni e di metodi. E poi, essendo una religione senza clero, per forza di cose non può avere una voce sola. Non c’è un papa musulmano o un patriarca musulmano. L’organizzazione e il rapporto con il Supremo non è mediato. Inoltre, bisogna ricordare che i musulmani (o più correttamente, le persone di cultura musulmana) sono le prime vittime di questi attentati terroristici. È chiaro che la maggior parte della gente, di qualsiasi credo, è contro la violenza. A maggior ragione chi proviene da paesi islamici dove questa furia brutale può colpire zii, nipoti, fratelli, sposi, figli.

Not in my name, lo abbiamo gridato e scritto molte volte. Ci siamo distanziati. Lo abbiamo urlato fino a sgolarci. Lo abbiamo fatto dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, dopo la strage al Bataclan di Parigi o quella nell’università di Garissa in Kenya. Lo facciamo a ogni attentato a Baghdad, a Damasco, a Istanbul, a Mogadiscio. E naturalmente abbiamo fatto sentire la nostra voce dopo Dhaka. Ma ora dobbiamo entrare tutti – musulmani, cristiani, ebrei, atei, induisti, buddisti, tutti – in un’altra fase. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di schierarsi contro le ambiguità del tempo presente.

Il nodo è geopolitico, non religioso. Un nodo aggrovigliato che va dalla Siria al Libano, dall’Arabia Saudita allo Yemen, passando per l’Iraq e l’Iran fino ad arrivare in Bangladesh e in India. Un nodo fatto di vendite di armi, traffici illeciti, interessi economici, finanziamenti poco chiari. E se proprio dobbiamo schierarci, allora facciamolo tutti per la pace. Serve pace nel mondo, pace in Siria, in Somalia, in Afghanistan e non solo. Serve un nuovo impegno per la pace, una parola che per troppo tempo non abbiamo usato, anzi che abbiamo snobbato come utopica. Serve un nuovo movimento pacifista. Servono politiche per la pace. Serve la parola pace coniugata in tutti i suoi aspetti.

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai. L’unica che può farci uscire da questa cappa di sospetto e di paura.»

(fonte)