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Viterbo

La stalla e il verme

Dormivano in alloggi umidi e malsani che sarebbero sporchi anche per delle bestie. Una storia disumana di sfruttamento scoperta in provincia di Viterbo dopo la morte di un bracciante

Ci sono stalle fuori dai presepi che si portano addosso delle storie che sanguinano. Nel piccolo comune di Ischia di Castro, in provincia di Viterbo, dentro la stalla ci stavano uomini, braccianti. Solo che non erano uomini, no, erano cani, vermi, servi, li chiamavano così i loro “datori di lavoro” che li pagavano 1 euro all’ora per giornate che potevano durare fino a 17 ore nei campi.

Dormivano nelle stalle, in alloggi umidi e malsani che sarebbero sporchi anche per delle bestie. Non esistevano nemmeno i giorni: festivi, straordinari, turni notturni erano compresi nel prezzo, porzioni di lavoro da regalare al proprio padrone. Gli investigatori scrivono che «lo sfruttamento della manodopera è stato reso possibile dalla determinazione con cui la famiglia imprenditrice ha sfruttato le condizioni delle vittime, spesso quasi ai limiti dell’indigenza, fino ad assoggettarli completamente, poiché cittadini stranieri per lo più soli, con le famiglie da mantenere nei loro luoghi di origine, bisognosi della paga che veniva loro elargita come unica forma di sostentamento ed isolati dal resto della comunità, poiché di fatto impossibilitati per mancanza di tempo e di mezzi con cui muoversi ad uscire dall’azienda in cui vivevano e lavoravano».

Qui non c’è nessun bambinello. C’era un 44enne albanese, che si chiamava Petrit Ndreca e che avrebbe dovuto essere morto in auto con alcuni suoi famigliari. Questa è stata la versione dei fatti riportata ai carabinieri dopo la chiamata, solo che le forze dell’ordine si sono insospettite per la presenza sul posto anche dei due imprenditori agricoli e hanno avviato le indagini. Così alla fine la verità è venuta fuori: Petrit è morto in modo indegno all’interno dell’azienda dopo avere accusato un malore e i suoi datori di lavoro con le minacce sono riusciti a convincere i suoi famigliari a trasportarlo lontano da lì avvolto in una coperta. «Il corpo di Petrit è stato trattato come quello di una pecora», ha raccontato il cognato quando è crollato di fronte ai carabinieri. E così si è scoperto che nelle stesse condizioni di Petrit lavoravano altre 17 persone.

Quella stalla è il presepe della schiavitù che si consuma e della vita umana cha non vale niente. Se poi lo schiavo è straniero e senza documenti allora il gioco viene fin troppo facile. Auguri, a tutti.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Caso Manca: la Commissione antimafia convoca Pazienti e Petroselli

loraquotidiano.it_2014-12-01_18-33-38La Commissione nazionale antimafia ha convocato a Palazzo San Macuto il procuratore di Viterbo, Alberto Pazienti e il Pubblico ministero Renzo Petroselli, per un’audizione sull’indagine relativa alla morte di Attilio Manca, l’urologo di Barcellona Pozzo di Gozzo, trovato cadavere nel suo appartamento della cittadina laziale dove lavorava presso la clinica ”Belcolle”. L’indagine fu archiviata come l’overdose di un ”tossicodipendente’,’ e poi riaperta solo nei confronti di Monica Mileti rinviata a giudizio con l’accusa di aver ceduto lo stupefacente al giovane medico.  Ora l’Ufficio di presidenza della Commissione ha convocato i due magistrati che si sono detti disponibili ad essere ascoltati il 17 dicembre.

Secondo l’Antimafia di Palazzo San Macuto– recatasi il 27 e il 28 ottobre scorso a Messina per occuparsi delle commistioni fra Cosa nostra, politica, massoneria e servizi segreti deviati presenti soprattutto a Barcellona Pozzo di Gotto – l’audizione dei due magistrati si rende necessaria per chiarire i tanti perché di questa strana morte, avvenuta nelle ultime ore dell’11 febbraio 2004, e scoperta la mattina del 12 con il ritrovamento del cadavere. La stessa presidente dell’Antimafia, Rosi Bindi, ha dichiarato che “la morte di Attilio Manca a tutto è attribuibile tranne che a un suicidio da overdose”. Anche il vice presidente Claudio Fava ha manifestato tutti i suoi dubbi:“Non è da escludere che questo decesso sia un omicidio legato all’operazione del boss Bernardo Provenzano”.

La Commissione vuol sapere perché la Procura di Viterbo continua a parlare di “inoculazione volontaria” di eroina, se  i due buchi sono stati ritrovati sul braccio sinistro di Attilio Manca, che però era un mancino puro, perché sulle due siringhe trovate a pochi metri dal cadavere, la rilevazione delle impronte digitali è stata ordinata soltanto dopo otto anni (senza alcun risultato), e perché i magistrati continuano a parlare di decesso “volontario” se, dalle foto scattate dalla Polizia dopo il ritrovamento del corpo, si vede il volto di Attilio Manca pieno di sangue, il setto nasale deviato, le labbra tumefatte e i testicoli enormi, con una visibile ecchimosi sullo scroto. A questo va aggiunta la relazione del medico del 118, Giovanbattista Gliozzi, accorso dopo il ritrovamento, che ha messo in evidenza dei lividi ai polsi e alle caviglie.

Perché al cospetto di questi primi elementi, i magistrati hanno seguito una sola pista, senza porre le ipotesi alternative suggerite dalla famiglia, e cioè che Attilio Manca potrebbe essere stato immobilizzato con un colpo ai testicoli e in faccia (almeno uno), tenuto dai polsi e dalle caviglie, sedato con una dose di tranquillante (il primo buco?), e drogato con l’eroina (il secondo)? L’esame tossicologico ha infatti stabilito che nell’organismo del medico era presente una notevole quantità di eroina, mista a del tranquillante e dell’alcol, che, se somministrati contemporaneamente, secondo il parere dei docenti di Medicina legale, portano alla morte immediata. A parere deimagistrati di Viterbo (segnatamente la Procura e il Gip Salvatore Fanti), Attilio Manca, medico ed igienista di professione, dopo essersi bucato, avrebbe lavato il cucchiaio sciogli eroina, rimesso i tappi negli aghi delle siringhe, sarebbe sceso in strada, avrebbe buttato il laccio emostatico e l’involucro conserva-eroina, sarebbe risalito a casa, cenato e, prima di crollare rovinosamente sul letto, si sarebbe massacrato il volto e i testicoli, lasciando però a pochi metri gli oggetti più compromettenti: le siringhe. Una ricostruzione che dovrebbe essere chiarita dai magistrati, così come dovrebbe essere chiarito perché è stata sempre ignorata la pista dell’omicidio semplice o di mafia su cui i familiari e l’avvocato Fabio Repici (al quale da un anno si è aggiunto l’avvocato Antonio Ingroia), ha sempre chiesto di indagare.

I magistrati laziali dovrebbero spiegare perché di esame tricologico (l’analisi effettuata sul campione del capello della vittima, per accertare l’uso pregresso di stupefacenti) hanno parlato solo otto anni dopo, per giunta in conferenza stampa: né alla famiglia Manca, né al legale, era mai stato notificato un atto del genere. Altra spiegazione mai fornita è quella sul perché gli inquirenti colleghino la presunta “inoculazione volontaria” con l’altrettanto presunta positività dell’esame tricologico, quando il nesso fra questi due elementi non è affatto scontato, come la Procura di Viterbo vorrebbe invece fare intendere.

E poi c’è il capitolo legato al caso Provenzano, cioè all’operazione di cancro alla prostata alla quale il boss corleonese  fu sottoposto a Marsiglia nell’autunno del 2003, mentre era latitante col falso nome di Gaspare Troia. Diversi elementi portano in quella direzione, ma la Procura di Viterbo si è sempre ostinata ad insistere sulla morte per droga. L’antimafia vuole capire prchè questa pista noin è mai stata seriamente battuta dagli inquierenti. Una altro buco nero dell’indagine di Viterbo riguarda i tabulati telefonici dell’autunno del 2003 (chiesti più volte dall’avvocato Repici), mai acquisiti dalla procura laziale con un’incomprensibile omissione, dato che, secondo la famiglia, c’è una telefonata risalente all’ottobre di quell’anno in cui Attilio avrebbe detto ai genitori di trovarsi nelSud della Francia per “vedere un intervento chirurgico”. L’ennesimo interrogativo rimasto senza risposta riguarda il rapporto dell’ottobre del 2003, nel quale il capo della Squadra mobile di Viterbo Salvatore Gava scrive che nel periodo in cui Binnu Provenzano è ricoverato a Marsiglia, Attilio Manca non si è mosso dall’ospedale ”Belcolle” di Viterbo. Un anno fa, il programma televisivo “Chi l’ha visto”, mandò in onda un servizio che smentiva quel rapporto:  da un controllo dei registri delle presenze, infatti, risulta che Attilio Manca  proprio in quei giorni non era in ospedale.