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voto di fiducia

L’intergruppo “Smutandati da Draghi”

I leghisti che plaudono alla cessione di sovranità all’Europa. I renziani entusiasti di un esecutivo che non parla di Mes. Il voto di fiducia al governo Draghi è stato il teatro di giravolte e capriole della politica

C’è talmente tanta ansia di comunicazione che alla fine tutti si esercitano nel solito esercizio: immaginare un programma di governo dalle parole di un discorso di insediamento vale più o meno come cavare il sangue da una rapa, soprattutto se il discorso al Parlamento è un elenco sartoriale (come l’oratore) di buoni propositi che possono voler dire tutto e il suo contrario.

Certo ieri Draghi ha fissato dei paletti e degli obiettivi dal profilo alto e di natura ambiziosa ma cosa ci possa essere dietro è ancora tutto da vedere. C’è dentro molta Europa (poi ci torniamo) com’era inevitabile che fosse ma bisogna capire se l’idea «di un’Unione europea sempre più integrata che approderà a un bilancio comune» indica una comunità di fatturati o di persone, c’è dentro la scuola ma si insiste sui «giorni di lezione persi» ed è un’affermazione falsa e piuttosto di pancia, c’è dentro finalmente la questione femminile collegata all’occupazione (ha detto Draghi: «aumento dell’occupazione, in primis, femminile, è obiettivo imprescindibile: benessere, autodeterminazione, legalità, sicurezza sono strettamente legati all’aumento dell’occupazione femminile nel Mezzogiorno») ma bisognerà vedere ovviamente come risolverla, c’è dentro molto ambiente (del resto lo chiede l’Europa, davvero), c’è dentro la cura per il patrimonio culturale anche se nella solita perversa visione della sua messa a reddito «per il turismo», c’è dentro la riforma strutturale del fisco che non può essere il mettere o togliere questo o quel balzello ma che ha bisogno di un pensiero totale che ne tocchi tutto l’impianto (ma bisogna vedere a favore di chi), ci sono dentro i giovani (quelli non mancano mai nei discorsi politici), c’è dentro il lavoro con una responsabilità politica enorme (scegliere quali aziende sostenere è una delle scelte più politiche che spetta a un governo, altro che tecnici), c’è dentro la promessa di politiche attive per i lavoratori (ma anche su questo non resta che aspettare i concreti provvedimenti). Volendo vedere ci sono anche parole che speriamo di avere interpretato male sull’immigrazione visto che è stata proposta come questione europea e l’esternalizzazione delle frontiere messa in atto dall’Europa è roba vergognosa che andrebbe rivista: nessuna parola su cittadinanza e integrazione, ad esempio. Parlando di ambiente è riuscito a buttarci dentro anche un ipotetico dialogo con il Signore, eh vabbè. Vedremo, osserveremo, vigileremo.

Però la giornata di ieri è stata anche e soprattutto la giornata dello smutandamento di politici ingarbugliati in capriole che sono stati smascherati da un governo che tra i suoi pregi ha sicuramente quello di svelare la bassa natura di alcuni protagonisti.

Per chi aspettava ad esempio con curiosità le parole dei renziani di Italia viva sul Mes che per Renzi era dirimente per l’eventuale fiducia al governo Conte (il 17 gennaio scorso disse «non voterò mai un governo che si ritiene il migliore del mondo e di fronte a 80mila morti non prende il Mes») c’è la fenomenale dichiarazione di Faraone: «Ci chiedono strumentalmente perché non chiediamo più il Mes. Non lo facciamo perché il nostro Mes è lei, presidente Draghi, e questo governo». Ecco, credo che non servano altri commenti.

Per chi ci diceva che il Recovery plan del precedente governo fosse “uno schifo” arrivano le parole di Draghi che confermano invece la «grande mole di lavoro» del governo precedente e l’intenzione di continuare in quella direzione. Così, per capire quanta ipocrisia ci siamo sorbiti nei giorni scorsi.

Draghi ha parlato di un rafforzamento della sanità territoriale e di fianco aveva Giorgetti, quello che diceva: «Mancheranno 45 mila medici di base, ma tanto nessuno va più da loro. È un mondo finito». Una scena epica.

Ma il campione delle giravolte è ovviamente Matteo Salvini che ieri è diventato turbo europeista lanciandosi a dire: «Vogliamo l’Europa 7 giorni su 7». Draghi ha parlato dell’irreversibilità dell’euro e lui si è inzerbinato, Draghi ha parlato di cessione della sovranità e il sovranista ha fatto sì sì con la testina. Un massacro. Se avete voglia di divertirvi andatevi a leggere i commenti dei suoi elettori sotto i suoi profili social: un’arena contro il capitano. Giorgia Meloni se la ride.

Lo slurp del giorno, manco a dirlo, lo vince Raffaella Paita di Italia viva: «Tra gli aspetti che mi hanno colpito del discorso di #Draghi c’è un dettaglio che probabilmente non tutti hanno notato. Quando veniva interrotto da applausi ricominciava il periodo dall’inizio per rispettare il rigore del ragionamento. #questionedistile #senato», ha scritto ieri. Evviva.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La titubante minoranza del PD

Sul voto di oggi credo che abbia scritto bene Alessandro Gilioli nel suo blog:

Bersani-Cuperlo-640Il tramonto di questa ex classe dirigente piddina tuttavia era iniziato molto prima e ha ragioni lontane. Affonda cioè le sue radici quando è cominciata la politica dell’acqua tiepida, l’inseguimento di Casini e Fini, i compromessi con cani e porci, l’appoggio a Monti – e via suicidandosi. In fondo anche l’opposizione a Berlusconi dura a parole ma morbida nei fatti non era tanto diversa dalla contrarietà parolaia ma inane e inconcludente mostrata contro Renzi: stessa mancanza di coraggio, stessa incoerenza tra parole e comportamenti. Alla fine, si raccolgono i frutti dei semi che si sono gettati, e troppi anni di tikitaka senza mai tirare in porta alla fine annoiano tutti.

Comunque quello che è successo oggi è stato un evento igienico, cioè che fa pulizia di equivoci e fraintendimenti: il Pd è il partito di Renzi e dei suoi, gli altri sono solo comparse un po’ ridicole e indecise a tutto, quindi alla favoletta del poliziotto buono che fa il controcanto a quello cattivo non ci crede più nessuno.

Meglio così, almeno in questo.

Per il resto, se mi capitasse di leggere ancora su qualche quotidiano un titolo sulle paurose minacce della minoranza dem al leader, mi limiterò a usarlo per il fondo della lettiera del gatto – sperando che il gatto non se ne abbia a male.

La servitù la chiamano “fiducia”

Provo a quest’ora tarda a mettere in fila i pensieri della giornata, ritrovandomi mio malgrado in assoluta minoranza lontano sia dai renziani che dagli antirenziani: Matteo Renzi (meglio sarebbe scrivere il suo Governo ma in realtà ci ha sempre posto la sua “squadra” come una fastidiosa dermatite di passaggio) ha posto la fiducia sulla riforma elettorale. Va bene. Ed è un brutto modo, certo. E non capisco perché quattro servetti catapultati come nuova classe dirigente debbano decidere se io possa o no discutere il metodo. Lo discuto eccome. E ho il diritto di esserne nauseato, nonostante i rimbrotti patetici degli arRenzipopoli. Però, per avere una visuale abbastanza larga, è anche vero che Renzi pone la fiducia perché sa bene che il proprio posto in Parlamento conta più degli ideali. Certo non per tutti, per carità, ma sicuramente per la maggioranza. E quindi Renzi non sta facendo altro che utilizzare miserabilmente la miserabile dignità di un Parlamento che in gran parte vive il proprio posto in Parlamento come ricatto più estremo. Mica una legge schifosa: il loro culo al caldo.

Scusate le volgarità. Non ho trovato sinonimi.

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Proprio come gli insicuri

33 fiducie in 300 giorni. Il Parlamento è solo un fiducificio e Renzi dichiara a Radio 105 che le fiducia aumenteranno anche in futuro.

Ha ragione Pippo:

Proprio come gli insicuri, che non vogliono mai ascoltare nessuno, ma hanno sempre bisogno di chiedere un’attestazione di fiducia.