Nel merito. «Il SI annuncia un futuro radioso, ma lo abbiamo già visto e non è stato bello». Di Walter Tocci
Lepre o papera? Esercizi di percezione prima del referendum (di Walter Tocci, fonte)
La percezione di un oggetto dipende da ciò che il soggetto ha in mente, come mostrano le figure gestaltiche. Qui sotto, chi cerca proprio una lepre riesce a vederla, ma se cambia lo sguardo si accorge che è una papera.
Tutti gli argomenti portati dal SI nel referendum possono essere visti in modo diverso e perfino opposto.
Rapidità-Lungaggine
Si è promessa una semplificazione, ma si realizza un bicameralismo farraginoso e conflittuale. È il paradosso della revisione costituzionale. Se fosse un vero Senato delle autonomie, i senatori dovrebbero attenersi all’indirizzo della propria Regione. Invece non hanno alcun vincolo di mandato, proprio come i deputati, e di conseguenza si iscrivono ai gruppi di partito anche a Palazzo Madama. Il Senato è prevalentemente un’assemblea politica, e può capitare che abbia una maggioranza ostile a quella della Camera. Infatti, non essendo mai sciolto potrebbe conservare un orientamento politico che invece alle elezioni viene ribaltato nell’altro ramo.
In tal caso si instaura un bicameralismo conflittuale tra destra e sinistra, molto più incerto dell’attuale. Tutte le leggi approvate dalla Camera vengono richiamate dal Senato per poi tornare alla Camera. È davvero una semplificazione? Seppure con tempi definiti, comporta comunque tre passaggi politici, mentre oggi con il vituperato bicameralismo quasi tutte le leggi (80%) sono approvate in soli due passaggi. La presunta navetta è una menzogna raccontata dai politici che volevano giustificare la propria incapacità di governo: il famoso ping-pong riguarda solo il 3% dei provvedimenti.
Inoltre, sulle leggi che rimangono bicamerali se un Senato ostile rifiuta l’approvazione, il governo non è in grado di superare il blocco, avendo perduto lo strumento del voto di fiducia. Non solo, l’attribuzione delle leggi alla categoria di “richiamate” o bicamerali è affidata all’interpretazione dell’articolo 70 che per riconoscimento degli stessi autori è scritto molto male. Si possono generare molti contenziosi in corso d’opera e se i presidenti di Camera e Senato non trovano l’accordo si ferma il procedimento. Anche dopo l’approvazione una legge può essere annullata per difetto di attribuzione dalla Corte Costituzionale, che è costretta a entrare dentro le procedure parlamentari, aprendo un nuovo campo di contenzioso finora sconosciuto. Avevano promesso rapidità e ottengono la lungaggine. Le nuove leggi non si muoveranno con l’eleganza della lepre ma con il passo barcollante della papera. Per una vera riforma del bicameralismo si doveva abolire il Senato e fissare soglie di garanzia per l’approvazione alla Camera delle leggi relative ai diritti di libertà dei cittadini.
Non è mantenuta neppure la promessa del Senato delle Autonomie. Palazzo Madama si occupa dei massimi sistemi – gli accordi internazionali e addirittura la Costituzione – ma ha scarsi poteri proprio sui problemi dei Comuni e delle Regioni. Per chiarirlo bastano alcuni recenti esempi di politica comunale sui tributi locali e sulle aziende municipali. L’abolizione dell’Imu sulla prima casa e la norma sottoposta al referendum dell’acqua non sarebbero di competenza primaria del Senato. Soprattutto il Senato non ha alcun potere proprio sull’articolo 117 che regola i rapporti tra Stato e Regioni. E tali rapporti saranno ancora più conflittuali. Non è stata infatti abolita la legislazione concorrente. Nella sanità, nell’istruzione, nel welfare, nell’urbanistica esiste ancora la legge cornice dello Stato che delimita la legislazione regionale, ma ha cambiato nome. Prima si chiamava “norme generali” e ci sono voluti dieci anni di sentenze della Corte per precisarne il significato giuridico, tanto che il contenzioso è diminuito. Ora prende il nome di “disposizioni generali e comuni” e ci vorranno altri dieci anni di sentenze per precisarne il significato con una nuova impennata dei conflitti istituzionali.
Su altre materie invece si torna al vecchio centralismo statale che avevamo abbandonato inorriditi ormai venti anni fa. Entra in Costituzione la logica del decreto “Sblocca Italia” che aveva provocato il referendum delle trivelle. Il governo pretende di decidere sulle grandi opere – la Tav, il ponte di Messina, il Mose di Venezia – passando sopra la testa delle comunità locali. Addirittura sulla tutela dell’ambiente il testo è molto confuso. Nella Carta vigente è scritto: tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. Nel nuovo testo c’è una strana inversione dei termini: “la tutela dei beni culturali; l’ambiente e l’ecosistema”. Quel punto e virgola interrompe il significato della tutela che non riguarda l’ambiente, anche se si può ritenere implicita. Il papa ha dedicato un’enciclica all’ecosistema, qui la questione è indebolita con la punteggiatura.
Al contrario, le vere riforme vengono rinviate. Le Regioni a statuto speciale, ormai prive delle motivazioni della guerra fredda, non solo vengono confermate, ma mantengono la vecchia Costituzione. Dall’Est non vengono più i cosacchi ma i gasdotti; quando arrivano in Friuli decide la Regione, se proseguono in Veneto decide lo Stato. Circa otto milioni di italiani avranno una diversa Costituzione, e la chiamano uniformità.
Infine, viene rinviata la scelta più importante, la riduzione del numero delle Regioni. Eppure era l’unica riforma capace di mutare l’assetto dei poteri locali e di favorire una migliore cooperazione tra Stato e Regioni. Le scelte difficili sono eluse, quelle facili vengono assunte, ma sono realizzate in modo maldestro e raccontate in tono mirabolante
Futuro-passato
Il SI annuncia un futuro radioso, ma lo abbiamo già visto e non è stato bello. Negli ultimi trent’anni il potere legislativo è stato trasferito al potere esecutivo. Non siamo più in una vera democrazia parlamentare, da tanto tempo siamo entrati in un premierato di fatto. Ormai è evidente che il governo legifera e il Parlamento ratifica. Tutto ciò è avvenuto mediante gravi violazioni della Costituzione: deleghe legislative al governo senza specifici indirizzi parlamentari; voti di fiducia ormai settimanali; trucchi procedurali come il maxiemendamento e il voto su articolo unico, senza paragoni nei parlamenti europei; abuso del decreto legge ben oltre la decenza istituzionale. Di quest’ultimo si annuncia il miglioramento ma non viene impedito il vero abuso che consiste nel decretare senza i requisiti di “necessità e urgenza”. Si promette di ridurne l’uso sostituendolo con la legge approvata a data certa. Neppure questo è uno strumento nuovo, esiste già nel regolamento della Camera e di solito viene utilizzato per obiettivi sciagurati; ad esempio servì a Berlusconi per imporre il Porcellum. Non solo, può essere stravolto da un ostruzionismo di maggioranza che ritarda la discussione fino al giorno della scadenza, imponendo il voto in blocco della legge senza emendamenti; d’altronde questo esito era scritto esplicitamente nella prima versione del testo governativo; è stato poi mitigato, ma l’intenzione rimane.
Nei fatti la legge a data certa non sostituirà, ma si sommerà al decreto legge, e insieme renderanno il governo padrone dell’agenda parlamentare. Ma una Costituzione dovrebbe stabilire un equilibrio tra le prerogative della maggioranza e i diritti delle minoranze. A parole questi sono garantiti dallo Statuto delle opposizioni, ma la sua stesura è rimandata al regolamento della Camera, che comunque sarà in mano a chi detiene il premio di maggioranza. Nessuna delle violazioni che hanno già trasferito il legislativo all’esecutivo viene impedita dalla revisione. La legge Boschi, anzi, è una sorta di sanatoria costituzionale; come le cartelle di Equitalia, si mette un velo sul passato e si continua come prima.
La violazione della seconda parte frena l’attuazione della prima parte della Carta. Per ricordarne la grandezza nelle assemblee referendarie ho letto l’articolo 36: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Tutti i cittadini comprendono queste parole semplici e profonde, non hanno bisogno di avvocati per leggerle, a differenza del rompicapo del nuovo articolo 70 che dovrebbe definire i compiti del Senato. Quei principi però sono smentiti nella vita quotidiana di milioni di italiani e soprattutto dei giovani. Eppure non si parla più di attuazione della Costituzione, l’argomento è stato scalzato dall’ossessione della revisione. Nei programmi elettorali non è mai mancato il bicameralismo, ma nessun leader di sinistra ha chiesto i voti alle elezioni per attuare l’articolo 36. E se dovesse essere applicato comporterebbe la cancellazione delle ultime leggi sul lavoro, dalla Treu al Jobs Act.
Diciamoci la verità. Da trent’anni il Paese vive senza la Costituzione, né la prima né la seconda parte. E infatti è stato un trentennio triste. Venendo meno il baluardo della Carta la vita degli italiani è peggiorata: sono aumentate le diseguaglianze, è esplosa la discordia nazionale nella società e nella politica, il potere si è concentrato nelle mai di chi già lo possiede.
Con il SI continua una fantasia del passato. Con il No finisce il trentennio triste e si apre una pagina nuova, certo difficile e non priva di rischi, ma finalmente rivolta al futuro.
Potenza-Impotenza
La promessa di stabilità dei governi è la principale fantasia del passato. Da più di venti anni abbiamo abbandonato la proporzionale e ci siamo dati leggi maggioritarie. Avremmo dovuto già ottenere stabilità e invece nessun governo è riuscito a vincere le elezioni successive. Gli esecutivi hanno ottenuto nuovi poteri ma non li hanno utilizzati per attuare il programma presentato agli elettori, bensì per impadronirsi delle regole e conquistare nuovi poteri senza sapere cosa farne.
Sia a destra sia a sinistra è prevalso lo spirito di parte nel cambiamento della Costituzione (2001 e 2005), della legge elettorale (Porcellum e Italicum), nelle forzature parlamentari (canguri e altre invenzioni), sono stati eletti a colpi di maggioranza i presidenti alla Camera e al Senato e talvolta anche al Quirinale. La potenza politica dei leader mediatici ha prodotto solo impotenza del governo. È un decisionismo delle chiacchiera che non è in grado di organizzare complessi e duraturi processi riformatori nella struttura statale e sociale.
Così è fallito il bipolarismo italiano, perché nessuno dei due poli ha mantenuto le promesse, né la rivoluzione liberista di Berlusconi né il riformismo sociale della sinistra. Tutto ciò ha deluso i rispettivi elettori che, in gran parte, hanno abbandonato le urne. Senza domandarsi le ragioni del rifiuto i partiti sostituiscono gli elettori mancanti con i premi di maggioranza, alimentando così ulteriore astensionismo. Il circolo vizioso conduce a una lacerazione tra democrazia minoritaria e governi maggioritari. Questi hanno i numeri in Parlamento, ma non dispongono degli ampi consensi necessari per realizzare vere riforme.
Gli artifici elettorali danno una sensazione di potenza agli esecutivi, ma presto si rivela la loro impotenza a causa del distacco dal paese reale. La governabilità è come il coraggio di Don Abbondio, se uno non ce l’ha, nessuno glielo può dare. L’ossessione delle riforme istituzionali ha smarrito una semplice verità. Per governare un paese ci vuole progetto ambizioso, una classe dirigente autorevole e un vasto consenso popolare. Poi possono aiutare anche piccoli rinforzi istituzionali, ma non riescono a surrogare l’impotenza dei governi. Eppure da trent’anni la classe politica rimuove le proprie responsabilità attribuendo la colpa al bicameralismo. La vittoria del NO ristabilisce le priorità. Il primo problema del paese è costringere la classe politica a rinnovare se stessa lasciando in pace la Costituzione.
Unità-Discordia
Una riforma costituzionale dovrebbe essere l’occasione per rafforzare l’unità del Paese. E invece mai si è vista una discordia nazionale così lacerante. Non ne avevamo proprio bisogno in un momento tanto difficile per l’Italia e per l’Europa. È stato un grave errore di Renzi scommettere le sorti del governo sul cambiamento costituzionale, addirittura tentando un referendum sulla propria persona. Mi piace pensare che si sia accorto dell’errore.
Con qualsiasi risultato questa revisione costituzionale è senza futuro. Anche se vincesse il SI, sarebbe un legge di parte e non di tutti. Se in futuro verrà un altro governo, pretenderà di riscrivere la Carta a suo piacimento. Da venti anni la Costituzione è in balia della maggioranza di turno, prima a sinistra con il Titolo V e poi a destra con la revisione di Berlusconi. Se vince il NO, si mette fine a questa misera pretesa di modificare la Carta secondo interessi politici contingenti. L’impegno a superare lo spirito di parte era già scritto nel manifesto fondativo del PD del 2007, la carta costituente del partito, ma è stata dimenticata, come la Carta della Repubblica.
Nelle ultime ore scatta l’allarmismo. Si teme la crisi di governo nel caso di vittoria del NO, invece è molto probabile che Renzi rimarrà a Palazzo Chigi, pur avendo già annunciato le dimissioni. Non sarebbe la prima volta che cambia idea. Aveva detto “stai sereno, Enrico” e poi lo ha sostituito; aveva promesso “mai al governo senza investitura popolare” e invece è ricorso a una manovra di Palazzo. Anche stavolta avrà la flessibilità per uscire dalla contraddizione. Saprà correggere l’errore con il quale ha messo in pericolo il governo sul referendum.
L’establishment si è mobilitato per approvare la revisione costituzionale, anche se alcuni ammettono che è scritta male. Lor signori sentono per istinto che il cambiamento consente di fare meglio le cose di prima.
Con la stessa naturalezza i ceti popolari avvertono che la Costituzione è dalla loro parte. È un sentimento profondamente radicato nella società italiana, ma via via ignorato dal ceto politico che si trastulla con le riforme istituzionali.
Nella storia repubblicana i referendum sono stati i momenti della meraviglia, quando cioè nello stupore generale la saggezza popolare si è rivelata più avanti rispetto alle angustie e alla miopia delle classi dirigenti.
Andò così con il primo: si diceva che le donne avrebbero fatto vincere il Re, e invece il voto delle donne fu decisivo per fondare la Repubblica. E poi nel ’74: con il divorzio la maturazione civile travolse le titubanze della classe politica di sinistra. Nel 2006 la mobilitazione spontanea degli elettori sommerse con una valanga di NO la legge Berlusconi. E infine nel referendum sull’acqua, dopo trent’anni di liberismo, nell’inconsapevolezza della politica di sinistra, il popolo indicò nei beni comuni l’unica risorsa per uscire dalla crisi.
Anche il referendum di dicembre sarà il momento della meraviglia. Si scoprirà che la saggezza popolare desidera prima di tutto l’attuazione della Costituzione e vuole mettere fine al suo trentennale stravolgimento.
Come nel libro di Isaia il viandante chiede: “Sentinella, quanto dura la notte?” Il 5 dicembre la sentinella inaspettatamente risponderà che la notte è finita, e comincia un nuovo giorno.