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Nel merito. «Il SI annuncia un futuro radioso, ma lo abbiamo già visto e non è stato bello». Di Walter Tocci

Lepre o papera? Esercizi di percezione prima del referendum (di Walter Tocci, fonte)

La percezione di un oggetto dipende da ciò che il soggetto ha in mente, come mostrano le figure gestaltiche. Qui sotto, chi cerca proprio una lepre riesce a vederla, ma se cambia lo sguardo si accorge che è una papera.

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Tutti gli argomenti portati dal SI nel referendum possono essere visti in modo diverso e perfino opposto.

Rapidità-Lungaggine

Si è promessa una semplificazione, ma si realizza un bicameralismo farraginoso e conflittuale. È il paradosso della revisione costituzionale. Se fosse un vero Senato delle autonomie, i senatori dovrebbero attenersi all’indirizzo della propria Regione. Invece non hanno alcun vincolo di mandato, proprio come i deputati, e di conseguenza si iscrivono ai gruppi di partito anche a Palazzo Madama. Il Senato è prevalentemente un’assemblea politica, e può capitare che abbia una maggioranza ostile a quella della Camera. Infatti, non essendo mai sciolto potrebbe conservare un orientamento politico che invece alle elezioni viene ribaltato nell’altro ramo.

In tal caso si instaura un bicameralismo conflittuale tra destra e sinistra, molto più incerto dell’attuale. Tutte le leggi approvate dalla Camera vengono richiamate dal Senato per poi tornare alla Camera. È davvero una semplificazione? Seppure con tempi definiti, comporta comunque tre passaggi politici, mentre oggi con il vituperato bicameralismo quasi tutte le leggi (80%) sono approvate in soli due passaggi. La presunta navetta è una menzogna raccontata dai politici che volevano giustificare la propria incapacità di governo: il famoso ping-pong riguarda solo il 3% dei provvedimenti.

Inoltre, sulle leggi che rimangono bicamerali se un Senato ostile rifiuta l’approvazione, il governo non è in grado di superare il blocco, avendo perduto lo strumento del voto di fiducia. Non solo, l’attribuzione delle leggi alla categoria di “richiamate” o bicamerali è affidata all’interpretazione dell’articolo 70 che per riconoscimento degli stessi autori è scritto molto male. Si possono generare molti contenziosi in corso d’opera e se i presidenti di Camera e Senato non trovano l’accordo si ferma il procedimento. Anche dopo l’approvazione una legge può essere annullata per difetto di attribuzione dalla Corte Costituzionale, che è costretta a entrare dentro le procedure parlamentari, aprendo un nuovo campo di contenzioso finora sconosciuto. Avevano promesso rapidità e ottengono la lungaggine. Le nuove leggi non si muoveranno con l’eleganza della lepre ma con il passo barcollante della papera. Per una vera riforma del bicameralismo si doveva abolire il Senato e fissare soglie di garanzia per l’approvazione alla Camera delle leggi relative ai diritti di libertà dei cittadini.

Non è mantenuta neppure la promessa del Senato delle Autonomie. Palazzo Madama si occupa dei massimi sistemi – gli accordi internazionali e addirittura la Costituzione – ma ha scarsi poteri proprio sui problemi dei Comuni e delle Regioni. Per chiarirlo bastano alcuni recenti esempi di politica comunale sui tributi locali e sulle aziende municipali. L’abolizione dell’Imu sulla prima casa e la norma sottoposta al referendum dell’acqua non sarebbero di competenza primaria del Senato. Soprattutto il Senato non ha alcun potere proprio sull’articolo 117 che regola i rapporti tra Stato e Regioni. E tali rapporti saranno ancora più conflittuali. Non è stata infatti abolita la legislazione concorrente. Nella sanità, nell’istruzione, nel welfare, nell’urbanistica esiste ancora la legge cornice dello Stato che delimita la legislazione regionale, ma ha cambiato nome. Prima si chiamava “norme generali” e ci sono voluti dieci anni di sentenze della Corte per precisarne il significato giuridico, tanto che il contenzioso è diminuito. Ora prende il nome di “disposizioni generali e comuni” e ci vorranno altri dieci anni di sentenze per precisarne il significato con una nuova impennata dei conflitti istituzionali.

Su altre materie invece si torna al vecchio centralismo statale che avevamo abbandonato inorriditi ormai venti anni fa. Entra in Costituzione la logica del decreto “Sblocca Italia” che aveva provocato il referendum delle trivelle. Il governo pretende di decidere sulle grandi opere – la Tav, il ponte di Messina, il Mose di Venezia – passando sopra la testa delle comunità locali. Addirittura sulla tutela dell’ambiente il testo è molto confuso. Nella Carta vigente è scritto: tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. Nel nuovo testo c’è una strana inversione dei termini: “la tutela dei beni culturali; l’ambiente e l’ecosistema”. Quel punto e virgola interrompe il significato della tutela che non riguarda l’ambiente, anche se si può ritenere implicita. Il papa ha dedicato un’enciclica all’ecosistema, qui la questione è indebolita con la punteggiatura.

Al contrario, le vere riforme vengono rinviate. Le Regioni a statuto speciale, ormai prive delle motivazioni della guerra fredda, non solo vengono confermate, ma mantengono la vecchia Costituzione. Dall’Est non vengono più i cosacchi ma i gasdotti; quando arrivano in Friuli decide la Regione, se proseguono in Veneto decide lo Stato. Circa otto milioni di italiani avranno una diversa Costituzione, e la chiamano uniformità.

Infine, viene rinviata la scelta più importante, la riduzione del numero delle Regioni. Eppure era l’unica riforma capace di mutare l’assetto dei poteri locali e di favorire una migliore cooperazione tra Stato e Regioni. Le scelte difficili sono eluse, quelle facili vengono assunte, ma sono realizzate in modo maldestro e raccontate in tono mirabolante

Futuro-passato

Il SI annuncia un futuro radioso, ma lo abbiamo già visto e non è stato bello. Negli ultimi trent’anni il potere legislativo è stato trasferito al potere esecutivo. Non siamo più in una vera democrazia parlamentare, da tanto tempo siamo entrati in un premierato di fatto. Ormai è evidente che il governo legifera e il Parlamento ratifica. Tutto ciò è avvenuto mediante gravi violazioni della Costituzione: deleghe legislative al governo senza specifici indirizzi parlamentari; voti di fiducia ormai settimanali; trucchi procedurali come il maxiemendamento e il voto su articolo unico, senza paragoni nei parlamenti europei; abuso del decreto legge ben oltre la decenza istituzionale. Di quest’ultimo si annuncia il miglioramento ma non viene impedito il vero abuso che consiste nel decretare senza i requisiti di “necessità e urgenza”. Si promette di ridurne l’uso sostituendolo con la legge approvata a data certa. Neppure questo è uno strumento nuovo, esiste già nel regolamento della Camera e di solito viene utilizzato per obiettivi sciagurati; ad esempio servì a Berlusconi per imporre il Porcellum. Non solo, può essere stravolto da un ostruzionismo di maggioranza che ritarda la discussione fino al giorno della scadenza, imponendo il voto in blocco della legge senza emendamenti; d’altronde questo esito era scritto esplicitamente nella prima versione del testo governativo; è stato poi mitigato, ma l’intenzione rimane.

Nei fatti la legge a data certa non sostituirà, ma si sommerà al decreto legge, e insieme renderanno il governo padrone dell’agenda parlamentare. Ma una Costituzione dovrebbe stabilire un equilibrio tra le prerogative della maggioranza e i diritti delle minoranze. A parole questi sono garantiti dallo Statuto delle opposizioni, ma la sua stesura è rimandata al regolamento della Camera, che comunque sarà in mano a chi detiene il premio di maggioranza. Nessuna delle violazioni che hanno già trasferito il legislativo all’esecutivo viene impedita dalla revisione. La legge Boschi, anzi, è una sorta di sanatoria costituzionale; come le cartelle di Equitalia, si mette un velo sul passato e si continua come prima.

La violazione della seconda parte frena l’attuazione della prima parte della Carta. Per ricordarne la grandezza nelle assemblee referendarie ho letto l’articolo 36: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Tutti i cittadini comprendono queste parole semplici e profonde, non hanno bisogno di avvocati per leggerle, a differenza del rompicapo del nuovo articolo 70 che dovrebbe definire i compiti del Senato. Quei principi però sono smentiti nella vita quotidiana di milioni di italiani e soprattutto dei giovani. Eppure non si parla più di attuazione della Costituzione, l’argomento è stato scalzato dall’ossessione della revisione. Nei programmi elettorali non è mai mancato il bicameralismo, ma nessun leader di sinistra ha chiesto i voti alle elezioni per attuare l’articolo 36. E se dovesse essere applicato comporterebbe la cancellazione delle ultime leggi sul lavoro, dalla Treu al Jobs Act.

Diciamoci la verità. Da trent’anni il Paese vive senza la Costituzione, né la prima né la seconda parte. E infatti è stato un trentennio triste. Venendo meno il baluardo della Carta la vita degli italiani è peggiorata: sono aumentate le diseguaglianze, è esplosa la discordia nazionale nella società e nella politica, il potere si è concentrato nelle mai di chi già lo possiede.

Con il SI continua una fantasia del passato. Con il No finisce il trentennio triste e si apre una pagina nuova, certo difficile e non priva di rischi, ma finalmente rivolta al futuro.

Potenza-Impotenza

La promessa di stabilità dei governi è la principale fantasia del passato. Da più di venti anni abbiamo abbandonato la proporzionale e ci siamo dati leggi maggioritarie. Avremmo dovuto già ottenere stabilità e invece nessun governo è riuscito a vincere le elezioni successive. Gli esecutivi hanno ottenuto nuovi poteri ma non li hanno utilizzati per attuare il programma presentato agli elettori, bensì per impadronirsi delle regole e conquistare nuovi poteri senza sapere cosa farne.

Sia a destra sia a sinistra è prevalso lo spirito di parte nel cambiamento della Costituzione (2001 e 2005), della legge elettorale (Porcellum e Italicum), nelle forzature parlamentari (canguri e altre invenzioni), sono stati eletti a colpi di maggioranza i presidenti alla Camera e al Senato e talvolta anche al Quirinale. La potenza politica dei leader mediatici ha prodotto solo impotenza del governo. È un decisionismo delle chiacchiera che non è in grado di organizzare complessi e duraturi processi riformatori nella struttura statale e sociale.

Così è fallito il bipolarismo italiano, perché nessuno dei due poli ha mantenuto le promesse, né la rivoluzione liberista di Berlusconi né il riformismo sociale della sinistra. Tutto ciò ha deluso i rispettivi elettori che, in gran parte, hanno abbandonato le urne. Senza domandarsi le ragioni del rifiuto i partiti sostituiscono gli elettori mancanti con i premi di maggioranza, alimentando così ulteriore astensionismo. Il circolo vizioso conduce a una lacerazione tra democrazia minoritaria e governi maggioritari. Questi hanno i numeri in Parlamento, ma non dispongono degli ampi consensi necessari per realizzare vere riforme.

Gli artifici elettorali danno una sensazione di potenza agli esecutivi, ma presto si rivela la loro impotenza a causa del distacco dal paese reale. La governabilità è come il coraggio di Don Abbondio, se uno non ce l’ha, nessuno glielo può dare. L’ossessione delle riforme istituzionali ha smarrito una semplice verità. Per governare un paese ci vuole progetto ambizioso, una classe dirigente autorevole e un vasto consenso popolare. Poi possono aiutare anche piccoli rinforzi istituzionali, ma non riescono a surrogare l’impotenza dei governi. Eppure da trent’anni la classe politica rimuove le proprie responsabilità attribuendo la colpa al bicameralismo. La vittoria del NO ristabilisce le priorità. Il primo problema del paese è costringere la classe politica a rinnovare se stessa lasciando in pace la Costituzione.

Unità-Discordia

Una riforma costituzionale dovrebbe essere l’occasione per rafforzare l’unità del Paese. E invece mai si è vista una discordia nazionale così lacerante. Non ne avevamo proprio bisogno in un momento tanto difficile per l’Italia e per l’Europa. È stato un grave errore di Renzi scommettere le sorti del governo sul cambiamento costituzionale, addirittura tentando un referendum sulla propria persona. Mi piace pensare che si sia accorto dell’errore.

Con qualsiasi risultato questa revisione costituzionale è senza futuro. Anche se vincesse il SI, sarebbe un legge di parte e non di tutti. Se in futuro verrà un altro governo, pretenderà di riscrivere la Carta a suo piacimento. Da venti anni la Costituzione è in balia della maggioranza di turno, prima a sinistra con il Titolo V e poi a destra con la revisione di Berlusconi. Se vince il NO, si mette fine a questa misera pretesa di modificare la Carta secondo interessi politici contingenti. L’impegno a superare lo spirito di parte era già scritto nel manifesto fondativo del PD del 2007, la carta costituente del partito, ma è stata dimenticata, come la Carta della Repubblica.

Nelle ultime ore scatta l’allarmismo. Si teme la crisi di governo nel caso di vittoria del NO, invece è molto probabile che Renzi rimarrà a Palazzo Chigi, pur avendo già annunciato le dimissioni. Non sarebbe la prima volta che cambia idea. Aveva detto “stai sereno, Enrico” e poi lo ha sostituito; aveva promesso “mai al governo senza investitura popolare” e invece è ricorso a una manovra di Palazzo. Anche stavolta avrà la flessibilità per uscire dalla contraddizione. Saprà correggere l’errore con il quale ha messo in pericolo il governo sul referendum.

L’establishment si è mobilitato per approvare la revisione costituzionale, anche se alcuni ammettono che è scritta male. Lor signori sentono per istinto che il cambiamento consente di fare meglio le cose di prima.

Con la stessa naturalezza i ceti popolari avvertono che la Costituzione è dalla loro parte. È un sentimento profondamente radicato nella società italiana, ma via via ignorato dal ceto politico che si trastulla con le riforme istituzionali.

Nella storia repubblicana i referendum sono stati i momenti della meraviglia, quando cioè nello stupore generale la saggezza popolare si è rivelata più avanti rispetto alle angustie e alla miopia delle classi dirigenti.

Andò così con il primo: si diceva che le donne avrebbero fatto vincere il Re, e invece il voto delle donne fu decisivo per fondare la Repubblica. E poi nel ’74: con il divorzio la maturazione civile travolse le titubanze della classe politica di sinistra. Nel 2006 la mobilitazione spontanea degli elettori sommerse con una valanga di NO la legge Berlusconi. E infine nel referendum sull’acqua, dopo trent’anni di liberismo, nell’inconsapevolezza della politica di sinistra, il popolo indicò nei beni comuni l’unica risorsa per uscire dalla crisi.

Anche il referendum di dicembre sarà il momento della meraviglia. Si scoprirà che la saggezza popolare desidera prima di tutto l’attuazione della Costituzione e vuole mettere fine al suo trentennale stravolgimento.

Come nel libro di Isaia il viandante chiede: “Sentinella, quanto dura la notte?” Il 5 dicembre la sentinella inaspettatamente risponderà che la notte è finita, e comincia un nuovo giorno.

L’idiozia dei notabili. Secondo Tocci.

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Vale sempre la pena leggere Walter Tocci:
«Chi ha ordinato di gonfiare i dati delle primarie non può passarla liscia. Ha danneggiato il partito nel modo più stupido che si possa immaginare, e ha prodotto nuovo sconcerto tra gli elettori. Il risultato non è inficiato e, tutto sommato, la partecipazione non è stata neppure bassa rispetto alla povertà di contenuti nel confronto tra i candidati. Certo, se il Pd avesse promosso una lista civica di centrosinistra aperta alle competenze più innovative, alle forze sociali e alla cittadinanza attiva, avrebbe ottenuto una partecipazione al voto superiore alla soglia dei centomila. Sarebbe stata una festa democratica, avrebbe dato al candidato lo slancio decisivo per vincere le elezioni.
Era l’occasione per far vedere un vero partito democratico, e invece ha vinto la miopia del ceto politico. Quando prevale il piccolo cabotaggio, non ci sono più strumenti politici per innalzare la partecipazione e restano solo i trucchi contabili. Nulla accade per caso; anche uno stupido episodio come questo è il sintomo di una malattia. E far finta di niente, ridimensionare, sopire e sperare che passi non è la terapia giusta. Anzi, la patologia si aggrava se i responsabili restano ignoti, se chi sbaglia rimane ai posti di comando. Mi aspetto che gli organi di garanzia prendano provvedimenti senza guardare in faccia a nessuno.
I “notabili” hanno portato alla crisi del partito romano, prima con Mafia capitale, poi con le firme dal notaio, e da tempo con la palese impreparazione nel programma di governo. Ora sappiamo che possono far male al Pd non solo per arroganza ma anche per idiozia.»
Il resto è qui.

Politici ad avercene

Attenzione: è un post lungo ma ne vale la pena perché quando ho letto l’intervento del senatore (dicono ancora per poco) del Pd Walter Tocci non ho trovato una sola riga di troppo. E allora vale la pena leggerselo per intero:

La richiesta del voto di fiducia sembra una prova di forza ma è un segno di debolezza. Il governo chiede al Parlamento una delega a legiferare mentre impedisce al Parlamento di precisare i contenuti di quella stessa delega. Il potere esecutivo si impadronisce del potere legislativo per disporne a suo piacimento, senza alcun contrappeso istituzionale. Il Senato delega per sentito dire nelle televisioni, senza quei “principi e criteri direttivi” prescritti dalla Costituzione. È l’anticipazione di un metodo che diventerà normale con la revisione costituzionale in atto.

Si forzano le regole per paura di un libero dibattito parlamentare. Il Presidente del Consiglio non è in grado di presentare gli emendamenti che ha proposto come segretario del suo partito. In questo modo, la legge delega sarà priva non soltanto di alcune garanzie ampiamente condivise, ma perfino della famosa questione della cancellazione dell’articolo 18. Se ne parla sui media, ma non risulta nei testi. D’altronde, a quanto pare, non conta più cosa decide il Parlamento – sarà poi il governo tra qualche mese a scrivere i veri decreti – l’importante è ora creare l’apparenza di una grande riforma.

L’argomento è stato scelto ad arte per inscenare una contrapposizione simbolica. Ce la potevamo risparmiare questa guerra di religione sul diritto del lavoro. Non solo perché il Paese avrebbe bisogno di ritrovare coesione sociale intorno a un chiaro progetto di cambiamento. Non solo perché si dovrebbe evitare di lacerare la ferita già dolorosa della disoccupazione che segna la vita di milioni di italiani. Ma soprattutto perché non c’è alcun motivo pratico per ingaggiare l’ennesimo duello giuslavorista. E il primo ad esserne convinto sembrava proprio Matteo Renzi. Solo qualche mese fa riteneva che ridiscutere dell’articolo 18 fosse una fesseria. Si era addirittura impegnato di fronte al popolo delle primarie ad archiviare la questione. Come mai ha cambiato idea? Sarebbe doverosa una spiegazione. Altrimenti potrebbe alimentare il dubbio che la guerra di religione è ingaggiata per distrarre l’opinione pubblica, per coprire le evidenti difficoltà dell’azione di governo, per occultare gli scarsi risultati ottenuti nella trattativa europea.

Temo che si vada consolidando un metodo di governo basato sulla ricerca continua di un nemico. Può servire a creare un consenso effimero, ma non aiuta il paese a trovare una rotta; asseconda il rancore sociale ma non coagula le passioni civili per il cambiamento.
La furia distruttiva stavolta è indirizzata verso un bersaglio inesistente, un altro ceffone alle mosche. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non esiste più nella legislazione italiana, è stato cancellato da Monti due anni fa.

Si racconta ancora la bufala secondo cui nell’Italia di oggi un’impresa non può licenziare per motivi economici e disciplinari. Eppure, lo scorso anno ci sono stati circa 800 mila licenziamenti individuali, il 10% portati in tribunale e solo 0.3% annullati. Infatti,Il governo tecnico ha eliminato tutti i vincoli degli anni settanta, venendo incontro alle pressanti richieste degli imprenditori. Il reintegro è rimasto solo nel caso più estremo, quando cioè il magistrato constata la falsità della “giusta causa”. Se ora si cancella questa ultima garanzia un lavoratore potrà essere licenziato con l’accusa di aver rubato oppure con la giustificazione di una crisi aziendale, perfino se un processo dimostrasse che si tratta di falsità. In altre parole, per licenziare una persona diventa legittimo dichiarare il falso in tribunale. Non è flessibilità economica, ma barbarie giuridica che nega un principio generale del diritto: “Quod nullum est nullum effectum producit”. Una soglia mai varcata dal ministro Fornero – o forse dovrei dire dalla “compagna” Fornero, riconoscendo amaramente che il governo tecnico ha certo sbagliato sugli esodati ma ha difeso i diritti dei lavoratori meglio del governo a guida Pd.

In seguito alle nostre critiche è stato riproposto il reintegro nei casi disciplinari fasulli, ma non per le false cause economiche. Questo diventerà il canale privilegiato per ottenere i licenziamenti ingiustificati. D’altronde, per svuotare un secchio d’acqua basta un solo buco, non ne servono due.
In apparenza Renzi attacca la Camusso, ma nella realtà contesta la Fornero. Ed è curioso che l’ex-presidente del Consiglio, Mario Monti, presente in quest’aula come senatore a vita, non senta il bisogno di difendere la sua legge, che pure presentò in tutti i consessi internazionali come strumento per la crescita del Pil.

Solo in Italia può accadere che dopo due anni si scriva un’altra legge sul lavoro, senza neppure analizzare gli effetti della precedente. È un film già visto, da venti anni la legislazione è in continua mutazione senza risolvere alcun problema, aumentando solo la burocrazia. Si attacca la magistratura per la varietà di giudizi su casi similari, a volte davvero troppo ampia, dimenticando che proprio l’eccesso di legislazione ha impedito il consolidarsi della giurisdizione sui casi esemplari. Ciò che allontana davvero gli investitori stranieri è proprio il susseguirsi frenetico di nuove regole.
Se si riflette onestamente su questa anomalia italiana appare ridicola la retorica dei conservatori che hanno bloccato le riforme degli innovatori. È vero esattamente il contrario: sono state approvate troppe riforme, tutte purtroppo sbagliate. E questa proposta di legge persevera negli errori del passato:

– Si continua a far credere che abbassando l’asticella dei diritti riprenda la crescita. L’esperienza dovrebbe averci convinto che la svalutazione del lavoro ha contribuito pesantemente alla crisi della produttività totale dei fattori perché ha ridotto la capacità di innovazione.

– Si continua a contrapporre i garantiti e i non garantiti mentre è evidente che entrambi hanno perso diritti nel ventennio, come certifica ormai anche l’Ocse attribuendo all’Italia uno dei massimi indici di precarizzazione. La contrapposizione è ancora più falsa in questo disegno di legge poiché mantiene il reintegro per i lavoratori occupati e lo toglie ai giovani neoassunti.

– Si continua nella politica dei due tempi – “ora aumentiamo la precarizzazione, e poi verranno gli ammortizzatori sociali”. Fin dalle leggi Treu la promessa non è mai stata mantenuta e anche stavolta il passo indietro nei diritti è certo e immediato mentre il sussidio di disoccupazione è incerto e insufficiente.

– Si continua a denunciare il freno del sindacato, quando è evidente a tutti che non ha mai contato così poco nelle fabbriche. I politici, anche della vecchia guardia, hanno sempre polemizzato con i leader sindacali ma hanno sempre impedito l’approvazione di una legge di rappresentanza che desse voce ai lavoratori.

– Si continua nell’illusione che basti incentivare il tessuto produttivo attuale per creare lavoro. Ma la ripresa non avverrà facendo le stesse cose di prima. Non suscita alcuna riflessione il fallimento dei bonus fiscali per le assunzioni e della Garanzia giovani, né la scarsa risposta alle offerte dei prestiti della Bce. Che altro deve succedere per capire che ormai le norme e gli incentivi sono strumenti inutili se non si innova la struttura produttiva?

Nel primo annuncio del Jobs Act subito dopo le primarie tutte queste leggende sembravano abbandonate, ma ora sono tornate in auge. La forza del passato ha preso il sopravvento, riducendo l’entusiasmo della novità a stanca retorica. Il Grande Rottamatore porta a compimento i programmi dei rottamati di destra e di sinistra.
Ben due generazioni hanno creduto agli annunci di una flessibilità coniugata ai diritti e sono rimaste ferite. La promessa di uscire dal buco nero della precarietà è troppo seria per essere delusa. Stavolta alle parole devono seguire i fatti. Solo da questa preoccupazione muove la mia critica.

Sento dire che il contratto a tutele crescenti dovrebbe eliminare la sacca della precarietà. Qualcuno mi sa indicare il comma che assicura il risultato? Purtroppo non esiste, poiché il nuovo contratto si aggiunge ai precedenti, adottando quindi la soluzione Ichino contro quella Boeri. Le imprese non ricorrono al tempo indeterminato se possono continuare a gestire rapporti di lavoro meno costosi e senza futuro. Anzi, questi sono stati ulteriormente incentivati con il decreto Poletti di luglio che ha abbassato le garanzie dei contratti a tempo determinato e dell’apprendistato, e in questa delega si amplia l’uso del voucher che nega perfino il rapporto tra lavoratore e impresa.

Si è annunciata l’eliminazione del cocopro, ma è molto difficile che da questa figura parasubodinata si approdi a un vero contratto di lavoro. Più facile invece che si regredisca nel sommerso delle partite Iva. D’altro canto, anche i critici di sinistra peccano di normativismo, illudendosi che basti togliere questa o quella figura contrattuale per migliorare la qualità del lavoro.
C’è un lavoro autonomo di seconda generazione che è legato alla trasformazione tecnologica e produttiva del nostro tempo. È una figura anfibia che non si può ingabbiare negli schemi tradizionali dell’imprenditore e del lavoratore, ma va riconosciuta nella sua peculiarità e sostenuta con strumenti non convenzionali. Dovremmo saperlo soprattutto in Italia, avendo sotto gli occhi quei sei milioni di nuclei produttivi con meno di tre dipendenti che ci ostiniamo a chiamare imprese per ragioni ideologiche, mentre costituiscono una mutazione della figura del lavoratore. L’armatura giuslavoristica di questa legge delega non riesce a contenere il fenomeno e anzi rischia di soffocarlo.

Il carattere anfibio del lavoro terziario richiede l’attivazione di tutele di tipo universalistico – pensionistiche, formative, di welfare territoriale – a prescindere dalle forme contrattuali. Perfino il sostegno al reddito deve essere legato allo status di cittadinanza e non può essere limitato solo al passaggio da un’occupazione all’altra, come invece è necessario e assolutamente prioritario per il lavoro dipendente.
La complessa flessibilità è quella del lavoro autonomo, per quello subordinato sarebbe molto più facile ricondurre l’ordinamento a poche e chiare figure contrattuali che prevedano un periodo di prova e di formazione prima dell’assunzione definitiva e forme di impiego temporaneo più costoso e legato a reali esigenze produttive. Questa semplificazione è credibile solo se si attua la riforma più difficile in Italia, cioè l’obbligo di rispettare la legge.
La gran parte della precarietà nel lavoro subordinato si regge su una pratica di illegalità ed elusione. In questa proposta si delega il governo a fare tutto, tranne che a organizzare un efficiente sistema di controlli sulle condizioni di lavoro. Basterebbe rafforzare il corpo degli ispettori del lavoro e incrociare le banche dati con la lotta all’evasione fiscale e previdenziale, con l’obiettivo di sopprimere il lavoro nero e aumentare la vigilanza sulla sicurezza.

Ma a dare il buon esempio dovrebbe essere prima di tutto lo Stato. Nella stragrande maggioranza i contratti precari della pubblica amministrazione sono illegali, perché utilizzano rapporti temporanei per funzioni continuative e in alcuni casi di delicato interesse pubblico. La recente promessa di assumere 150 mila insegnanti che attualmente hanno cattedre annuali va nella giusta direzione e dovrebbe riguardare le tante figure che si trovano in condizioni simili: ricercatori e archeologi, ingegneri e architetti, informatici e operatori sociali. Non solo per rispettare la dignità di quei lavoratori, ma anche perché la valorizzazione delle loro competenze aumenterebbe la qualità delle politiche pubbliche. Anche le gare di appalto a massimo ribasso oggi contribuiscono a diffondere l’illegalità e il precariato selvaggio, mentre la committenza pubblica dovrebbe prendersi cura del rispetto dei diritti del lavoro. È curioso che questa proposta di legge si occupi del mercato privato e ignori completamente le responsabilità dello Stato come datore di lavoro diretto e indiretto.

Tra le righe si legge una sfiducia nel futuro del paese. Si ritiene che l’Italia non possa essere diversa da come è oggi, non sia in grado di modificare la sua struttura economica tradizionale ormai messa fuori gioco dalla competizione internazionale. Si pretende di risolvere il problema eliminando i diritti e riducendo i salari, già oggi i più bassi in Europa, magari utilizzando gli 80 euro e il Tfr per pareggiare il conto.

Sembra una scelta di buon senso ma è una via senza uscita. I paesi emergenti saranno sempre nelle condizioni migliori di costo per vincere la concorrenza. L’unico modo per mantenere il rango di grande paese consiste invece nel migliorare il livello tecnologico, la specializzazione del tessuto produttivo, l’accesso nell’economia della conoscenza. Ma ci vorrebbe un’agenda di governo tutta diversa; bisognerebbe puntare sulla formazione permanente per migliorare le competenze, mentre qui si promuove per legge il demansionamento dei lavoratori; si dovrebbe puntare sulle politiche industriali della green economy mentre il decreto sblocca-Italia rilancia la rendita immobiliare; si dovrebbe puntare sulla ricerca scientifica e tecnologica, che invece subirà altri tagli con la legge di stabilità; si dovrebbe puntare sull’economia digitale non a parole ma con azioni concrete che ancora non si vedono.

Non si è mai cominciato a cambiare verso. Finora si sono visti i passi indietro. Con le riforme istituzionali gli elettori contano meno di prima. Con il Job Act si intaccano le garanzie per i lavoratori. Queste scelte non erano previste nel programma elettorale del 2013 che abbiamo sottoscritto come parlamentari del Pd. Non siamo stati eletti per indebolire i diritti.